Il nuovo delitto di disastro ambientale: un pessimo esempio di tecnica legislativa

31 Agosto 2016

Raccogliendo i suggerimenti della Corte costituzionale, il Legislatore, nell'ambito dell'attesa riforma sui delitti ambientali, ha introdotto il reato di disastro ambientale, destinato a mettere fine all'applicazione del disastro innominato (art. 434 c.p.) in materia ambientale, frutto di una giurisprudenza “creativa” che aveva raccolto le critiche unanimi della dottrina.
Abstract

Raccogliendo i suggerimenti della Corte costituzionale, il Legislatore, nell'ambito dell'attesa riforma sui delitti ambientali, ha introdotto il reato di disastro ambientale, destinato a mettere fine all'applicazione del disastro innominato (art. 434 c.p.) in materia ambientale, frutto di una giurisprudenza “creativa” che aveva raccolto le critiche unanimi della dottrina.

Tuttavia, una pessima formulazione linguistica rischia di mettere in serio pericolo l'operatività della nuova fattispecie, relegandola ad una funzione meramente “simbolica”.

Il commento, dopo un breve inquadramento del principio di tassatività, passa ad analizzare i deficit di determinatezza e precisione che affliggono la nuova norma e i dubbi interpretativi suscitati dal testo legislativo, soffermandosi, in particolare, sulle tre ipotesi di disastro contemplate dall'art. 452-quater c.p., sulle possibili interpretazioni dell'avverbio abusivamente e sui rapporti fra il nuovo delitto e il disastro innominato, per come regolati dalla clausola di sussidiarietà espressa contenuta nella nuova norma.

Un breve (ma utile) cenno alla tassatività come criterio guida nella formulazione di fattispecie penali

Il principio di tassatività riguarda la formulazione della legge penale e si rivolge sia al Legislatore, imponendogli di procedere, al momento della creazione di una norma, ad una precisa determinazione della fattispecie legale, che al giudice, vietandogli di applicare analogicamente la norma penale a ipotesi non specificatamente previste. Pertanto, non basta che sia il Legislatore a delineare la fattispecie incriminatrice, essendo altresì necessario che la formulazione della norma penale e la conseguente individuazione del reato in essa contenuta non sia generica ma sufficientemente precisa, così da poter stabilire ciò che è punito e ciò che, viceversa, è penalmente lecito.

La ratio del predetto principio va dunque ravvisata nella tutela dei cittadini nei confronti dell'arbitrio del potere giudiziario, evitando che sia il giudice, in sede di applicazione delle norme, a determinare le singole fattispecie di reato.

Tale principio trae la sua rilevanza costituzionale dall'art. 25, comma 2, Cost. Sul punto, giova osservare che, sebbene la disposizione in parola non contenga alcun esplicito riferimento al principio in esame, la tassatività – come ribadito dal giudice delle leggi – gode necessariamente di copertura costituzionale in quanto corollario e completamento logico dei principi della riserva di legge e di irretroattività. È infatti innegabile che il principio di legalità finirebbe nella sostanza con l'essere svuotato, qualora il Legislatore, con l'uso di espressioni generiche e indeterminate, rimettesse di fatto al giudice la concreta individuazione di ciò che è lecito e di ciò che non lo è. Il principio in esame emerge anche a livello di legge ordinaria, posto che l'art. 1 c.p. parla di fatto espressamente preveduto, mentre l'art. 14 disp. prel. c.c. stabilisce il divieto di analogia della legge penale.

Va poi aggiunto che, nell'ottica dei rapporti fra ordinamento nazionale e ordinamenti sovranazionali di matrice europea, la giurisprudenza della Corte Edu ha più volte affermato la necessita che le norme incriminatrici, affinché siano legittime, debbano godere dei requisiti della prevedibilità e dell'accessibilità, i quali, mediante l'enunciazione precisa della fattispecie di reato, consentono all'agente di assicurare la previsione delle conseguenze di una certa condotta.

Ciò detto, occorre rilevare che parte della dottrina ritiene che le espressioni determinatezza e tassatività siano sinonimi, indicando entrambe il principio secondo cui la fattispecie deve essere formulata in modo tale da consentire ai consociati un quadro normativo certo e definito. Secondo altri autori invece le due espressioni si distinguono concettualmente, costituendo due aspetti interdipendenti, l'uno in funzione dell'altro. Infatti, mentre la determinatezza, rivolgendosi al Legislatore, attiene al modo di costruire la norma, la tassatività riguarda l'effetto della norma medesima, impedendo che essa possa essere estesa per analogia dal giudice a condotte non ricomprese nella fattispecie astratta. È evidente che la determinatezza adottata dal Legislatore nella formulazione della norma penale risulterebbe svilita qualora fosse consentito al giudice di estendere la portata applicativa della norma ad ipotesi non espressamente contemplate. Non manca chi opera una triplice distinzione, parlando di precisione, determinatezza e tassatività. Mentre le prime due, rivolgendosi al Legislatore, gli impongono, rispettivamente, di disciplinare con precisione il reato e di descrivere i fatti in maniera corrispondente alla fenomenologia della realtà in modo tale da essere accertati processualmente, la terza vieta al giudice di estendere analogicamente la norma oltre i casi in essa espressamente previsti.

Il problema di fondo del principio in parola consiste nello stabilire quale sia il grado di determinatezza della fattispecie, affinché la norma penale possa dirsi costituzionalmente legittima.

Al riguardo, occorre analizzare gli elementi che possono comporre una fattispecie incriminatrice, dovendosi distinguere tra elementi “rigidi”, elementi “elastici” ed elementi “vaghi”.

I primi, esprimendo concetti dalla definizione certa, consentono di stabilire con certezza se il caso concreto rientri o meno in quel concetto (si pensi agli elementi descrittivi di tipo numerico o naturalistico). I secondi lasciano invece al giudice un certo margine di discrezionalità nel valutare se il fatto concreto possa o meno rientrarvi. Tali elementi, non essendo astrattamente tipizzabili dal Legislatore, fanno riferimento ad una realtà quantitativa o temporale circoscrivibile (si pensi al danno di lieve entità) oppure richiamano norme extragiuridiche come le regole sociali, di costume, tecniche. I terzi sono infine elementi che richiamano concetti vaghi, tali da rimettere all'arbitrio del giudice lo stabilire se un fatto concreto rientri o meno nel concetto espresso.

Occorre rilevare che la Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza costituzionale del principio di tassatività, ha mostrato inizialmente un atteggiamento di netta chiusura nei confronti dello stesso, rigettando tutte le questioni di legittimità sottoposte al suo esame mediante numerosi rinvii al diritto vivente, ovvero mediante sentenze interpretative di rigetto che vincolavano il giudice a quo a quanto statuito dalla Consulta. A partire dagli anni ‘80, il giudice delle leggi, mutando il proprio orientamento, ha valorizzato – mediante le prime pronunce di illegittimità costituzionale (si pensi alla pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 603 c.p.) – il principio di tassatività che viene ad essere inteso come onere per il legislatore di formulare fattispecie corrispondenti alla realtà e verificabili in base alla conoscenze attuali. Si osserva inoltre che ciò che è determinante non è tanto l'elemento in sé, isolatamente considerato, quanto il significato che quest'ultimo assume all'interno del corpo normativo in cui è inserito.

La necessità di introdurre il delitto di disastro ambientale

Delineate le coordinate essenziali del principio di tassatività, occorre soffermarci sulla fattispecie di nuovo conio del disastro ambientale – introdotta dalla l. 22 maggio 2015, n. 68 – che sin da subito ha destato l'attenzione dei commentatori a causa di un rilevante deficit di tassatività e determinatezza.

L'art. 452-quater c.p., relativo al disastro ambientale, prevede che fuori dai casi previsti dall'art. 434 c.p., chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.

Occorre premettere che prima della novella in esame l'ipotesi del c.d. disastro ambientale veniva ricondotta dalla Corte di cassazione al paradigma punitivo del disastro c.d. innominato, previsto dalla clausola di chiusura – altro disastro – contenuta nell'art. 434 c.p.

Mediante un'interpretazione creativa della giurisprudenza si assisteva quindi ad un'estensione in via analogica dell'art. 434 c.p. a situazioni del tutto eterogenee ad esso, sia per la natura dell'evento lesivo preso in considerazione che per il bene giuridico leso.

Va detto, tuttavia, che da tempo la Corte costituzionale aveva auspicato che il disastro ambientale formasse oggetto di autonoma considerazione da parte del Legislatore penale, anche nell'ottica dell'accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell'integrità fisica e della salute, nella cornice di più specifiche figure criminose. Anche buona parte della dottrina aveva espresso ampie riserve sull''utilizzo dell'art. 434 c.p. per l'incriminazione del disastro ambientale, evidenziando come i fatti di inquinamento ambientale, quand'anche particolarmente gravi, di norma non presentano quei tratti che ricorrono in tutti i disastri tipizzati, ossia l'impatto violento sulla realtà materiale, il macro-danneggiamento e la tendenziale contestualità della condotta e dell'evento.

Raccogliendo tale suggerimento, la norma in commento ha dunque provveduto a tipizzare un'autonoma figura di reato.

Di preliminare rilievo appare l'analisi degli elementi costitutivi del delitto di disastro ambientale, soffermandoci in particolare sulla tecnica di formulazione della norma utilizzata dal legislatore.

Posto che il bene giuridico tutelato è l'ambiente, il delitto in commento si presenta come reato comune a forma libera, la cui condotta consiste nel cagionare (anche mediante una condotta omissiva) abusivamente un disastro ambientale.

Quanto all'evento, esso consiste in un disastro ambientale, definito dal Legislatore, alternativamente, come alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema; oppure come alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; oppure, ancora, come offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

I deficit di tassatività nella descrizione dei singoli eventi di disastro ambientale

Giova sin da subito osservare come la ricca aggettivazione utilizzata dal Legislatore nel descrivere il nuovo reato (irreversibile, onerosa, eccezionali) e gli avverbi utilizzati (particolarmente) se, da un lato, dimostrano lo sforzo del riformatore – in conformità alla direttiva europea 2008/99/Ce – di caratterizzare con precisione la fisionomia del disastro ambientale, dall'altro, denotano forme linguistiche di notevole vaghezza, che non sembrano fornire un contributo in termini di precisione della norma migliore rispetto alla definizione giurisprudenziale degli artt. 434 e 449 c.p.

Al riguardo va osservato che il Legislatore deve tipizzare condotte che non solo siano precisamente descritte ma altresì corrispondenti a fenomeni riscontrabili nella realtà (la c.d. determinatezza di cui si è parlato al paragrafo precedente). Invero, la norma in esame tipizza un evento il cui accertamento richiede complesse valutazioni scientifiche (alterazione dell'equilibrio di un ecosistema) e complesse valutazioni tecnico-economiche (costi e fattibilità operativa della bonifica), le quali, oltre a richiedere conoscenze tecniche extragiuridiche (appare imprescindibile il ricorso ad una consulenza tecnica e/o ad una perizia), necessitano di un contradditorio scientifico tra le parti, tenuto conto anche del fatto che l'ecologia è una scienza relativamente giovane che pone problemi epistemologici di non poco conto.

Ciò premesso, occorre procedere all'analisi dei singoli eventi di disastro ambientale con particolare riguardo alla tecnica di formulazione utilizzata dal Legislatore nella norma de qua.

L'alterazione dell'equilibrio di un ecosistema può definirsi irreversibile non solo quando la sua eliminazione non è possibile ma anche quando, pur essendo possibile, richiede tempi talmente ampi da non poter essere rapportabile alle categorie dell'agire umano. Ciò induce pertanto a ritenere che i casi "dubbi" slitteranno sull'evento alternativo dell'alterazione a reversibilità onerosa ed eccezionale (art. 452-quater n. 2 c.p.).

Integra infatti il reato in commento anche un'alterazione che, pur non essendo irreversibile, richiede, per essere rimossa, interventi particolarmente onerosi e provvedimenti eccezionali. Poiché le due condizioni devono ricorrere congiuntamente, vanno ricondotte alla minore fattispecie di inquinamento le situazioni di gravissima compromissione ambientale, bonificabile solo con ingentissimi impegni economici ma che tuttavia non richiedono l'emanazione di provvedimenti amministrativi deroganti alla disciplina ambientale ordinaria.

Va poi osservato che i provvedimenti eccezionali o la particolare onerosità dell'eliminazione dell'alterazione sono elementi che possono essere apprezzati soltanto dopo la commissione del fatto. Ne consegue che l'agente saprà solo successivamente – in base cioè all'eccezionalità del provvedimento o alla onerosità dell'intervento – di aver posto in essere un disastro ambientale.

Quest'ultimo evento (l'alterazione a reversibilità onerosa ed eccezionale) dovrebbe dunque marcare il confine con il reato di inquinamento ambientale di cui all'art. 452-bis c.p., integrato da alterazioni reversibili con costi non particolarmente onerosi e con provvedimenti non eccezionali. Ebbene, emerge con evidenza un preoccupante calo di tassatività dato dall'estrema vaghezza delle formule utilizzate dal legislatore, che aprono le porte ad un'eccesiva discrezionalità valutativa del giudice, con conseguenti problemi di confine tra le due fattispecie delittuose.

Non è poi chiaro se il riferimento all'onerosità vada inteso in senso oggettivo o soggettivo: ci si chiede in sostanza se i costi devono essere particolarmente onerosi in assoluto o con riferimento alle capacità economiche dell'inquinatore. Aderendo alla prima impostazione – preferibile dal punto di vista della certezza normativa e per evitare pericolose letture abrogatrici della norma – resta in ogni caso aperto il problema di individuare quali siano gli eventuali parametri di riferimento.

Analoga imprecisione affligge la locuzione provvedimenti eccezionali, dal momento che non è chiaro se per tali debbano intendersi quelli che fuoriescono dall'ordinario procedimento di bonifica.

Va infine precisato che l'alterazione resta un concetto relazionale, che impone necessariamente un confronto con la situazione pregressa, creando pertanto dei problemi pratici laddove non vi sia la disponibilità di studi e dati antecedenti il fenomeno di contaminazione.

Venendo all'ultimo evento preso in considerazione dalla norma, si ha disastro ambientale quando l'agente ha provocato un'offesa alla pubblica incolumità con un fatto rilevante o per l'estensione della compromissione dell'ambiente o per la diffusività degli effetti lesivi o, infine, per il numero delle persone offese o poste in pericolo.

Con tale previsione il Legislatore ha voluto punire le condotte che, pur non avendo cagionato un'alterazione irreversibile di un ecosistema o un'alterazione reversibile ma ineliminabile dello stesso, hanno dimostrato una portata offensiva tale da porre in pericolo l'incolumità delle persone. In tali casi, la lesione all'ambiente viene in rilievo come evento prodromico alla successiva messa in pericolo dell'incolumità pubblica.

Anche in tal caso appare con dirompente evidenza come la formulazione della norma risulti davvero ambigua e singolare, tanto da suscitare le maggiori perplessità nei primi commentatori.

Occorre infatti premettere che una lettura isolata di tale fattispecie sembra, a prima vista, incriminare il pericolo per l'incolumità pubblica tout court, senza alcun riferimento alla contaminazione ambientale.

Appare tuttavia palese come tale lettura atomistica sia da respingere, posto che una tale forma di offesa (una sorta di disastro sanitario che punisce il pericolo per l'incolumità pubblica, a prescindere dal fatto che tale pericolo sia o meno la conseguenza di un danno all'ambiente) rientra già nell'art. 434 c.p., di talché il fatto a cui allude la norma non può che essere un fatto di grave contaminazione ambientale.

A conferma di tale lettura sovvengono inoltre sia la rubrica della norma che associa l'attributo ambientale al disastro, sia la circostanza che la norma, nell'indicare gli indici di rilevanza del pericolo, fa riferimento alla rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione, dando quindi per implicito che una compromissione debba esserci stata.

Va detto che, nonostante il Legislatore utilizzi l'espressione offesa alla pubblica incolumità, per sua natura comprensiva tanto della lesione quanto della messa in pericolo, la disposizione va intesa come messa in pericolo dell'integrità fisica di un numero indeterminato di persone, posto che, essendo impossibile immaginare un danno per la salute di una collettività, la concretizzazione del pericolo in veri e propri danni alle singole persone configura eventualmente un'ipotesi di concorso del disastro con i reati contro la persona (omicidio, lesioni) di cui sono state vittime gli esposti al pericolo. Del resto, se nell'offesa dovessimo far rientrare sia la morte che le lesioni, il disastro ambientale – che abbia causato la morte e/o le lesioni di più persone – sarebbe punito con una pena inferiore a quella del delitto (meno grave) di inquinamento doloso aggravato da eventi di morte o lesioni colposamente causati, la cui pena può arrivare fino a 20 anni.

Sulla base delle predette argomentazioni va escluso che nell'endiadi persone offese o esposte a pericolo rientrino anche morti o lesioni "effettive", salvo eventualmente quelle ipotesi di lesioni lievissime (non ricomprese nell'art. 452-ter c.p.) oppure lesioni a persone indeterminate.

La fattispecie in esame si atteggia come un delitto di mera condotta (mettere in pericolo la pubblica incolumità), senza tuttavia una dettagliata descrizione del comportamento incriminato, posto che il legislatore utilizza formule evanescenti come rilevanza del fatto, estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi.

La dottrina più attenta (SIRACUSA) osserva come non si comprenda se l'estensione della compromissione vada intesa in termini spaziali/materiali, valorizzandone cioè le dimensioni naturalistiche, ovvero se debba essere interpretata in termini temporali, come prolungamento e permanenza nel tempo del pregiudizio ambientale. Non manca chi ritiene che la fattispecie in esame presenti forti dubbi di legittimità costituzionale, che difficilmente potrebbero permetterle di uscire indenne da un eventuale vaglio da parte del giudice delle leggi.

Occorre peraltro osservare che la Consulta, recuperando l'analisi dottrinale dei delitti compresi nel Capo I del Titolo VI del codice penale, ha ritenuto di delineare una nozione unitaria di disastro, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare – in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie di cui al Titolo VI (la pubblica incolumità) – un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.

Nella formulazione del nuovo art. 452-quater c.p., invece, l'elemento "dimensionale" e quello "offensivo" dell'evento non sono richiesti congiuntamente ma disgiuntamente (alternativamente, recita la norma), soluzione dettata dalla diversa oggettività giuridica della fattispecie delittuosa, che tende a proteggere l'ambiente piuttosto che la pubblica incolumità.

Tuttavia, l'aver posto l'offesa alla pubblica incolumità come forma di disastro autonoma e alternativa rispetto all'alterazione di un ecosistema comporta che oggi può aversi disastro ambientale sia in presenza di un macro-danneggiamento all'ambiente che non metta in pericolo l'incolumità pubblica (ipotesi di cui ai numeri 1) e 2) dell'art. 452-quater c.p.), sia in presenza di un pericolo per l'incolumità pubblica che non derivi da un macro-danneggiamento dell'ambiente (ipotesi di cui al numero 3) della norma in esame).

È evidente che siamo in presenza di una struttura che non ha nulla a che vedere con le fattispecie di disastro di cui al Titolo VI del codice penale, dove il pericolo per la pubblica incolumità è sempre richiesto, ai fini della consumazione del delitto, come conseguenza di un macro-danneggiamento delle cose.

La difficile interpretazione dell'avverbio “abusivamente”

La novella in esame, richiamando la clausola presente anche nel delitto di inquinamento ambientale, dispone inoltre che il disastro ambientale deve essere cagionato abusivamente.

Senza soffermarci sulla discussa natura giuridica (clausola di illiceità speciale o elemento costitutivo della condotta) della suddetta clausola, ciò che più rileva è il significato sostanziale da attribuire all'espressione in esame.

Secondo l'opinione più radicale, l'avverbio sembrerebbe alludere alla mancanza di un autorizzazione amministrativa, di talché in presenza di provvedimenti che autorizzano l'attività dannosa, quest'ultima – rientrando nel c.d. rischio consentito – non potrebbe mai definirsi abusiva e il reato non dovrebbe trovare integrazione.

Secondo un'impostazione più riduttiva, l'avverbio avrebbe soltanto la funzione di richiamare il giudice alla verifica che l'attività da cui è derivato il danno non rientrasse fra quelle pericolose, ma consentite dall'ordinamento – entro i limiti stabili dalla legge – in considerazione della loro rilevanza socio-economica.

Alla luce della giurisprudenza relativa a reati in cui compare la clausola, pare tuttavia da escludere che la presenza di un'autorizzazione valga di per sé a impedire che il disastro ambientale possa dirsi abusivamente cagionato, posto che l'autorizzazione potrebbe essere stata concessa in violazione dei requisiti di legge o essere addirittura il frutto di un patto corruttivo. Va poi aggiunto che possono ritenersi abusive anche quelle condotte sorrette da titoli scaduti, quelle non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ovvero ancora quelle poste in essere in violazione dei limiti e delle prescrizioni delle autorizzazioni stesse, così che l'attività non sia più giuridicamente riconducibile al titolo abilitativo rilasciato dalla competente autorità amministrativa. Infine, dovrebbero ritenersi abusive anche quelle situazioni nelle quali l'attività, pur apparentemente ed esteriormente corrispondente al contenuto formale del titolo, presenti una sostanziale incongruità con il titolo medesimo. Ciò può avvenire non solo quando si rinvenga uno sviamento dalla funzione tipica del diritto/facoltà conferiti dall'autorizzazione, ma anche quando l'attività costituisca una non corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti l'autorizzazione in questione, superandosi, in tal caso, i confini dell'esercizio lecito.

Diversamente opinando, si rischia di svuotare il contenuto precettivo effettivo della clausola in esame, attribuendole – come spesso avviene nell'interpretazione di altre clausole di illiceità espressa – il significato di un sorta di “promemoria” per il giudice, che deve verificare che il fatto tipico non sia imposto o facoltizzato da un'altra norma dell'ordinamento.

In realtà, il vero problema sembra porsi eventualmente nei casi in cui l'attività, oltre ad essere autorizzata, sia anche conforme alle prescrizioni normative. Così, ad esempio, nel caso in cui il gestore dell'attività fosse a conoscenza che tali prescrizioni, in ragione della loro obsolescenza, non potevano più ritenersi adeguate a garantire la sicurezza dell'ambiente, potendo, in tal caso, configurarsi una responsabilità penale a titolo di colpa, a prescindere da una violazione formale della disciplina amministrativa di settore.

Il “pasticcio” della clausola di riserva

Da ultimo, ma non certo per importanza, merita particolare attenzione, alla luce della clausola di riserva prevista dalla norma in esame, il rapporto tra il disastro ambientale e il disastro innominato di cui all'art. 434 c.p.

Infatti, l'art. 452-quater c.p. – per espressa previsione normativa – dovrebbe operare fuori dai casi in cui la condotta abbia cagionato un disastro innominato ex art. 434 c.p., norma, quest'ultima, che finora, in assenza del delitto di disastro ambientale, aveva assolto ad una funzione di supplenza e chiusura del sistema.

Il Legislatore, introducendo tale clausola di riserva, mostra di aver ben presente possibili profili di contrasto tra la vecchia e la nuova figura di reato, al fine di evitare il rischio che l'introduzione del delitto di disastro ambientale possa interferire con i processi in corso per disastro innominato.

Tuttavia, dal punto di vista tecnico, la formulazione della norma è a dir poco infelice.

Innanzitutto, è dubbia l'operatività della clausola di riserva prevista dal Legislatore, in quanto o si è in presenza di un crollo o altro fatto traumatico che non abbia cagionato uno degli eventi del nuovo art. 452-quater c.p., e allora troverà applicazione l'art. 434 c.p., oppure il crollo (o altro fatto) ha cagionato un disastro ambientale, e in questo caso è lecito dubitare che possa prevalere l'art. 434 c.p., avendo il Legislatore introdotto il delitto in esame proprio per evitare il ricorso al disastro innominato, prevedendo, per quello ambientale, un trattamento sanzionatorio molto più grave.

Inoltre, se – come sembra dire tale clausola – il nuovo disastro ambientale non dovesse trovare applicazione tutte le volte in cui i fatti integrano gli estremi del disastro innominato, la nuova fattispecie rischia di vedere eccessivamente ristretto il proprio raggio d'azione, tenuto conto che tutte le ipotesi riconducibili all'evento di cui all'art. 452-quater n. 3 c.p. (offesa alla pubblica incolumità) rientrano nella nozione di disastro innominato accolta dalla giurisprudenza di legittimità, quale contaminazione ambientale pericolosa per la salute pubblica.

Attenta dottrina (BELL-VALSECCHI) ha osservato come la clausola di riserva finisca per regolare i rapporti fra le due figure di reato in maniera paradossale – con importanti ricadute nel caso del concorso apparente di norme – in quanto obbliga l'interprete ad applicare ai fatti più gravi la fattispecie meno severa di disastro innominato e ai fatti meno gravi la fattispecie più severa di disastro ambientale. Ciò in quanto la fattispecie di disastro innominato (punita con la reclusione da tre a dodici anni e da uno a cinque anni nell'ipotesi colposa), per costante interpretazione giurisprudenziale, richiede, per la sua integrazione, accanto a un fatto di grave compromissione ambientale anche il pericolo per l'incolumità pubblica; al contrario, la nuova fattispecie di disastro ambientale (punita con la reclusione da cinque a quindici anni e da un anno e otto mesi a dieci anni nell'ipotesi colposa), nelle ipotesi contemplate dai numeri 1 e 2, si accontenta dell'alterazione di un ecosistema, senza che sia necessario, ai fini della consumazione del reato, che si registri anche la verificazione di un pericolo per la pubblica incolumità, ipotesi, quest'ultima, cui la nuova norma attribuisce autonoma incriminazione all'art. 452-quater n. 3 c.p.

Altri autori (MASERA; RUGA RIVA; CAPPAI), invece, a fronte delle suddette difficoltà interpretative, hanno ritenuto che la clausola in esame operi quando, nel caso di specie, difettano gli elementi costitutivi del nuovo art. 452-quater c.p. e ricorrono i presupposti applicativi dell'art. 434 c.p., con la conseguenza che la clausola non farebbe altro che affermare l'ovvio principio secondo cui, quando non ricorrono i presupposti per l'applicazione della nuova incriminazione, si applica la vecchia, al ricorrere dei relativi elementi costitutivi. Con l'effetto, anch'esso ovvio, che il vecchio art. 434 c.p. non sarebbe stato oggetto di alcuna abolitio criminis con riguardo ai fatti di disastro ambientale e che pertanto, così come voluto dal legislatore, tale incriminazione continuerebbe ad essere applicabile ai processi in corso.

La soluzione più coerente con la sistematica della riforma impone ancora una volta un intervento da parte della giurisprudenza, tale da restringere l'operatività della clausola ai casi in cui il pericolo è derivato da un evento distruttivo che non abbia causato un danno ambientale; viceversa, si applicherà la nuova disposizione qualora l'offesa alla pubblica incolumità sia stata determinata da una compromissione ambientale.

Quanto ai processi in corso per il disastro innominato (si pensi al processo all'Ilva di Taranto), il problema dell'applicabilità del nuovo disastro si risolve – a prescindere dalla clausola di riserva – sulla base dei principi generali di cui all'art. 2 c.p. Essendo la nuova fattispecie punita più gravemente rispetto alla precedente, si applicherà tendenzialmente solo ai disastri successivi alla sua entrata in vigore. Tale regola generale subisce, tuttavia, un'eccezione costituita dalla misura premiale prevista dall'art. 452-decies c.p., la quale, prevedendo nel suo complesso un trattamento più favorevole al reo, potrà trovare applicazione in via retroattiva ai sensi dell'articolo 2, comma 4, c.p.

In conclusione

Da tempo la Corte costituzionale aveva auspicato che il disastro ambientale formasse oggetto di autonoma considerazione da parte del Legislatore penale, anche nell'ottica dell'accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell'integrità fisica e della salute, nella cornice di più specifiche figure criminose. Tuttavia, la soluzione individuata dal Legislatore con l'introduzione dell'art. 452-quater c.p. non sembra aver risolto nessuno dei problemi che derivavano dall'applicazione dell'art. 434 c.p., aggiungendone di nuovi e forse ancor più gravi: primi fra tutti, l'insanabile imprecisione delle tre ipotesi di disastro contemplate dall'art. 452-quater c.p., nonché l'assoluta irragionevolezza dei rapporti fra il nuovo delitto e il disastro innominato, per come regolati dalla clausola di sussidiarietà espressa contenuta nella nuova norma.

Dunque, alla luce delle predette criticità, malgrado la forte portata simbolica della novella, diverse sono le ragioni per cui pare più che lecito dubitare, da un lato, della reale efficacia nella tutela del bene dell'ambiente di questo intervento normativo e, dall'altro, della sua compatibilità con i principi di precisione e di tassatività delle norme incriminatrici sanciti dall'art. 25, comma 2, Cost. Tali problemi difficilmente potranno trovare una soluzione in via interpretativa e rischiano pertanto di mettere seriamente in discussione la compatibilità della nuova fattispecie con la Carta fondamentale.

Guida all'approfondimento

BELL-VALSECCHI, Il nuovo delitto di disastro ambientale: una norma che difficilmente avrebbe potuto essere scritta peggio, in Dir. pen. cont.;

CAPPAI, Un “disastro” del legislatore: gli incerti rapporti tra l'art. 434 c.p. e il nuovo art. 452 quater c.p., in Dir. pen. cont., 14 giugno 2016,11;

CARINGELLA-DE PALMA-FARINI-TRINCI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Roma, 2016;

FARINI-TRINCI, Compendio di diritto penale. Parte speciale, Roma, 2016;

MASERA, I nuovi delitti contro l'ambiente. Voce per il “Libro dell'anno del diritto Treccani 2016”, in Dir. pen. cont., 17 dicembre 2015;

RUGA RIVA, I nuovi ecoreati. Commento alla legge 22 maggio 2015, n. 68, Torino, 2015;

SIRACUSA, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli ‘'ecodelitti': una svolta “quasi'' epocale per il diritto penale dell'ambiente, in Dir. pen. cont..

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