Termini di custodia cautelare

Valentina Sellaroli
13 Luglio 2015

La disciplina dei termini di custodia cautelare, anche per effetto delle numerose stratificazioni e interpolazioni che ha subito nel tempo, di continuo genera conflitti interpretativi non facilmente risolvibili. L'art. 303 c.p.p. configura una fattispecie di estinzione ipso iure delle misure custodiali che ha carattere complementare rispetto alle altre figure estintive, in quanto è destinata ad operare ove nel frattempo la misura cautelare non sia venuta meno per altra causa.
Inquadramento

La disciplina dei termini di custodia cautelare, anche per effetto delle numerose stratificazioni e interpolazioni che ha subito nel tempo, di continuo genera conflitti interpretativi non facilmente risolvibili. L'art. 303 c.p.p. configura una fattispecie di estinzione ipso iure delle misure custodiali che ha carattere complementare rispetto alle altre figure estintive, in quanto è destinata ad operare ove nel frattempo la misura cautelare non sia venuta meno per altra causa.

Il codice, seguendo le direttive della legge delega, ha accolto il principio della segmentazionedei termini in relazione alle diverse fasi procedimentali e con riguardo ai limiti i durata complessiva, configurando una fitta articolazione di termini autonomi di durata massima della custodia in relazione alle diverse fasi del procedimento ed alla gravità dei reati per cui si procede. L'art. 303 c.p.p. prevede due tipi di termini massimi di custodia cautelare, i termini “intermedi” e i termini “complessivi”. I primi (comma 1) sono autonomi e reciprocamente indipendenti, non essendo cumulabili i termini non esauriti in una fase alla fase successiva. Quelli complessivi (comma 4) riguardano le fasi del procedimento cumulativamente considerati e tengono conto anche di alcune situazioni e, in base alla gravità del reato, collegano l'estinzione della custodia cautelare al mancato passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Esistono infine anche dei termini “finali” (art. 304, comma 6, c.p.p.). Alcuni meccanismi consentono di superare i termini intermedi ma non i termini complessivi. Neppure questi però sono inviolabili: possono essere superati con la sospensione dei termini che, tuttavia, non incide sui termini finali.

I termini intermedi nelle varie fasi

L'art. 303 c.p.p. suddivide l'intera vicenda processuale in quattro fasi assegnando a ciascuna di esse un termine di durata massima della custodia cautelare in relazione al titolo di reato e alla pena edittale.

La prima fase, che va dall'esecuzione della custodia cautelare fino all'emissione del decreto che dispone il giudizio (o del decreto di citazione a giudizio del P.M.) o dell'ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, vede la cessazione ex lege della misura custodiale in tre mesi, sei mesi o un anno a seconda che si proceda per un delitto punito con la reclusione non superiore nel massimo a sei anni, superiore nel massimo a sei anni o punito con la pena dell'ergastolo o con reclusione non inferiore nel massimo a venti anni, ovvero per uno dei delitti indicati nell'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. Per questi ultimi, tuttavia, va precisato che il termine previsto opera solo ove siano realizzate le condizioni di pena edittale previste dall'art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p. e non solo sulla base del mero titolo di reato (Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 1999, n. 1526) e non comunque nel caso in cui questi delitti non siano consumati ma solo tentati.

La seconda fase va dalla data di emissione del provvedimento che dispone il giudizio o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia fino alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado e vede la cessazione della custodia cautelare in sei mesi, un anno, un anno e sei mesi, rispettivamente, se si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, a venti anni oppure superiore a venti anni o la pena dell'ergastolo. Il riferimento è sempre quello della pena legislativamente prevista, non assumendo ancora alcun rilievo la pena determinata in sentenza.

In evidenza

Per alcuni delitti di particolare gravità, previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., è previsto un aumento automatico fino a sei mesi dei termini di durata di qualsiasi misura coercitiva riferibili a questa fase (art. 303, comma 1, lett. b), n. 3-bis). Questo aumento opera secondo un “meccanismo di recupero” che consente di imputare il residuo del termine di alcune fasi a fasi diverse, senza però incidere sul risultato derivante dalla sommatoria dei vari termini delle distinte fasi: l'aumento fino a sei mesi va imputato al termine della fase precedente, se non completamente utilizzato, e va scomputato dal termine della fase del giudizio di cassazione che viene proporzionalmente ridotto. Questo meccanismo di recupero tuttavia, per la sua eccezionalità, non si applica al caso del giudizio abbreviato, per il quale l'art. 303, comma 1, lett. b-bis) prevede in questa seconda fase termini più brevi: tre mesi, sei mesi, nove mesi, sempre in relazione agli stessi segmenti di pena edittale (Cass. pen., Sez. IV, 25 febbraio 2003, n. 19287).

La terza fase va dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (o dalla sopravvenuta esecuzione della misura) alla pronunzia della sentenza di condanna di appello. In tale fase tuttavia il parametro di riferimento per stabilire i termini di durata non sono più costituiti dalla pena edittale ma da quella irrogata in concreto con la sentenza di primo grado: la custodia cautelare cessa se dall'inizio della fase, senza che venga pronunciata sentenza di appello, siano trascorsi nove mesi, un anno, un anno e sei mesi a seconda che vi sia stata condanna a reclusione non superiore a tre anni, non superiore a dieci anni, superiore a dieci anni o all'ergastolo.

La quarta ed ultima fase, quella del giudizio di cassazione, va dalla pronuncia della sentenza di condanna in appello fino alla pronuncia della sentenza irrevocabile. I termini sono gli stessi che valgono per la terza fase, sempre fatte salve le ipotesi di cui alla lett. b), n. 3-bis dell'art. 303 c.p.p. Tuttavia, nel caso di c.d. "doppia conforme", cioè di doppia sentenza di condanna, o di impugnazione proposta solo dal P.M., che determinano un affievolimento della presunzione costituzionale di non colpevolezza dell'imputato, l'ultima parte dell'art. 303, comma 1, lett. d) pone una eccezione all'applicazione del termine intermedio e rimanda all'operatività esclusiva del termine di durata complessiva.

La perdita di efficacia della custodia cautelare per decorso dei termini di fase si verifica ope legis e va dichiarata di ufficio pur in assenza di richiesta della parte interessata, finanche in fasi successive a quella in cui si è determinata, cioè "ora per allora" (Cass. pen., Sez IV, 12 giugno 2002, n. 27229) sempre che la scadenza dei termini riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo, dovendosi escludere nel caso contrario un interesse concreto dell'imputato ad un provvedimento meramente dichiarativo e non produttivo di alcun effetto sulla libertà (Cass. pen., sez. I, 19 giugno 2002, n. 28095).

La nuova decorrenza dei termini: regressione del procedimento ed evasione

Nel caso di regresso o di rinvio del procedimento ad una fase precedente (annullamento con rinvio, annullamento senza rinvio e trasmissione degli atti al giudice di merito, annullamento pronunciato dal giudice di appello con rinvio al primo giudice, dichiarazione di incompetenza da parte del giudice del dibattimento con trasmissione degli atti al P.M. ovvero declaratoria di incompetenza adottata in sede di udienza preliminare e infine conflitto negativo di competenza tra il giudice che ha disposto la misura ed altro giudice, ove la cassazione intervenga ad affermare la competenza del primo), i termini intermedi decorrono di nuovo dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia (Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 2000, n. 4), purché l'imputato non abbia già maturato il diritto alla scarcerazione. Tuttavia l'intero periodo di custodia cautelare subita dall'imputato fino al momento del rinvio o della regressione non resta inefficace, dovendo essere computata ai fini della durata massima complessiva ex art. 303, comma 4 c.p.p. La stessa regola si applica nel caso in cui si abbia la trasformazione del rito abbreviato in rito ordinario, con regressione alla fase dell'udienza preliminare, per effetto del rinvio che il 441-bis, comma 4 fa alla disciplina del comma 2 dell'art. 303 c.p.p.

In evidenza

Con l'entrata in vigore della l. 332/1995, che ha introdotto dei termini finali insuperabili destinati ad operare anche in caso di sospensione, proroga e congelamento dei termini di durata della custodia cautelare, si è posta la questione di legittimitàcostituzionale dell'art. 303, comma 4, c.p.p. interpretato nel senso che esso non preveda quale causa di cessazione di efficacia della misura, in presenza di regressione del procedimento o di rinvio ad altro giudice, il superamento dei termini finali di cui al comma 6. La Corte costituzionale in un primo momento aveva dichiarato infondata la questione con sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 18 luglio 1998, n. 292). Ma la Cassazione ha continuato ad affermare che in caso di regresso del procedimento, per il computo del doppio del termine intermedio ai fini della scarcerazione, si deve tenere conto anche dei periodi di detenzione imputabili ad altra fase o grado (Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2004, n. 18339). A questo punto la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimitàdell'art. 303, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non consente di computare, ai fini dei termini intermedi di cui al comma 6, i periodi di custodia sofferti in fasi o gradi diversi (Corte cost. 22 luglio 2005, n. 299). Resta tuttavia la voce della dottrina che sostiene che non debbano computarsi i periodi di detenzione concernenti fasi o gradi già esauriti rispetto alla fase o grado cui il procedimento regredisce.

La stessa regola si applica nel caso di evasione (art. 303, comma 2). Si tratta di una vera e propria sanzione aggiuntiva che funge da controspinta all'evasione. È tuttavia necessaria una pronuncia giurisdizionale di accertamento dell'evasione ed il termine inizia la sua nuova decorrenza dal momento in cui l'evaso faccia rientro in carcere.

I criteri di computo

I termini di durata della custodia cautelare vanno calcolati in mesi ed anni e dunque scadono nel giorno corrispondente del mese o anno di inizio, con una eccezione alla regola generale dei termini processuali per cui non si computa il giorno di inizio: essendo l'efficacia della misura cautelare in atto dal momento stesso dell'esecuzione della misura, è da quel momento che devono decorrere i termini (Cass. pen., Sez. II, 3 dicembre 2004, n. 49296).

Se non è ancora intervenuta una sentenza di condanna, si ha riguardo alla pena edittale prevista con le ulteriori specificazioni dell'art. 278 c.p.p. (si tiene conto delle circostanze di cui all'art. 63, comma 3, c.p. ma non della continuazione e della recidiva). Nella seconda e nella terza fase invece, si ha riguardo alla sanzione inflitta in concreto, depurata dalle parti relative a reati riuniti in continuazione per i quali la misura non sia applicabile non sia stata applicata. Il riferimento va fatto al reato contestato all'imputato, rilevando dunque il mutamento della qualificazione giuridica del fatto (senza tuttavia alcun effetto retroattivo) ma non la modifica dell'imputazione operata dal P.M. in dibattimento. Coerente è il principio di autonomia delle singole fasi per cui si è ritenuto che la condanna per un reato meno grave (ad esempio per l'esclusione di alcune aggravanti o per il contestuale proscioglimento per il reato più grave) rispetto al quale sono computati i termini intermedi della custodia cautelare sino alla pronuncia della sentenza di primo grado, non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per la fase del giudizio (Cass. pen., Sez. II, 22 giugno 2005, n. 34635). Analogamente deve dirsi nel caso di diversità tra il reato contestato nell'ordinanza cautelare e quello contenuto nel decreto di rinvio a giudizio, essendo questo il reato cui ci si deve riferire per il calcolo della durata dei termini massimi di fase (Cass. pen., Sez. III, 6 dicembre 2002, n. 8128). In base al 278 c.p.p., poi, non si deve tener conto delle circostanze, salvo di quelle ad effetto speciale che siano state effettivamente attribuite e non ancora sub iudice, di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, della circostanza di cui all'art. 61, n. 5, c.p. o di quella di cui all'art. 62, n. 4, c.p. Una volta intervenuta sentenza di condanna, è controverso il criterio in base al quale vanno individuati i termini di fase della misura: facendo riferimento alla pena complessivamente inflitta, tenendo conto di tutte le circostanze e del giudizio di valenza tra le stesse (Cass. pen., Sez. II, 25 gennaio 1990) oppure facendo riferimento alla contestazione del reato ritenuto in sentenza senza riferimento alcuno a tutte le statuizioni della sentenza di condanna che, incidendo solo sulla pena, lasciano inalterata la qualificazione del reato stesso. Queste ultime, insomma, inciderebbero solo sul calcolo della durata massima ai sensi dell'art. 304 c.p.p. (Cass. pen., Sez. un., 5 luglio 2000, n. 24; contra Cass. pen., Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 26722).

I termini complessivi e i termini finali

La custodia cautelare non può comunque superare alcuni limiti temporali massimi indipendentemente da quello che accade nel corso delle singole fasi: due, quattro o sei anni a seconda della gravità dell'imputazione, in relazione al reato contestato o al reato ritenuto in sentenza (art. 303, comma 4, c.p.p.). In essi vanno computati sia le eventuali proroghe, sia i tempi "congelati", sia i termini decorsi ex novo ai sensi dell'art. 303, commi 2 e 3 c.p.p., sia quelli decorsi ex novo ex art. 307, commi 2 e 3 c.p.p. Non vi rientrano, in sostanza, solo i tempi in cui opera la sospensione ex art. 304 c.p., restando quindi l'unico confine invalicabile dettato dall'art. 304, comma 6, c.p.p.: quelli indicati dall'art. 303, comma 4, aumentati della metà, ovvero, se più favorevole, nei due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.

Come norma di chiusura, a porre un limite anche agli effetti della sospensione dei termini di custodia cautelare, i termini finali di cui all'art. 304, commi 6 e 7, c.p.p. limitano la durata della custodia, anche nei casi di sospensione, quanto ai termini intermedi, al doppio dei termini fissati dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, c.p.p.; quanto ai termini complessivi ai termini di cui all'art. 303, comma 4, c.p.p. aumentati della metà oppure, se piùfavorevoli, ai due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. Dal primo calcolo va comunque escluso il termine ulteriore previsto dall'art. 303, comma 1, lett. b), n. 3-bis c.p.p. come anche i periodi di sospensione di cui al comma 1, lett. b), dell'art. 304 c.p.p. nonché il congelamento dei termini di custodia per i giorni destinati alle udienze e alla deliberazione della sentenza (art. 297, comma 4, c.p.p.).

Aspetti processuali

In tema di successione di norme processuali nel tempo incidenti sulla durata della custodia cautelare, la protrazione dei termini di durata massima può trovare applicazione nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento, solo se i termini siano ancora pendenti. Il principio dell'ultrattività della legge più favorevole, trova applicazione ogni volta che la modifica legislativa riguarda una norma di natura sostanziale presupposta dalla misura cautelare. È vero che, se risulta con evidenza che debba essere applicata all'indagato una norma più favorevole inequivocabilmente individuabile raffrontando la disciplina sanzionatoria precedente e quella indicata in contestazione, è alla prima che il giudice deve far riferimento nel computare i termini di durata massima della custodia cautelare. Tuttavia, questo principio pare non trovare applicazione nel procedimento incidentale de libertate, ove al tribunale in sede di riesame o di appello, èinibito qualsiasi potere istruttorio o di modifica dell'imputazione formulata dal P.M.

Alla scadenza del termine, il giudice ha l'obbligo di dichiarare anche d'ufficio l'intervenuta estinzione della misura e ordinare l'immediata liberazione della persona. Tuttavia l'avvenuta scadenza del termine massimo non è deducibile davanti al giudice del riesame, la cui cognizione è limitata alle condizioni di legittimità e di merito per l'emissione del provvedimento cautelare. Essa dunque va fatta valere con istanza rivolta al G.I.P. nel corso delle indagini e al giudice competenze nelle varie fasi e nei vari gradi del giudizio, senza che tuttavia rilevi la diversa composizione del collegio rispetto a quello che ha emesso il provvedimento di merito. Se invece la questione della perdita di efficacia della custodia è stata posta al riesame insieme ad altre relative a vizi genetici del provvedimento applicativo della misura, il giudice del riesame potrà valutare direttamente anche la causa di cessazione della custodia (Cass. pen., Sez. I, 10 febbraio 1998, n. 821). L'ordinanza di rigetto della richiesta di scarcerazione per decorrenza termini è impugnabile con appello ex art. 310 c.p.p.

La proroga della custodia cautelare

L'istituto della proroga della custodia cautelare ex art. 305 c.p.p. può essere obbligatoria o facoltativa e si affianca al congelamento (art. 297, comma 4, c.p.p.) e alla sospensione (art. 304, c.p.p.) nonché alla rinnovazione (art. 301, comma 2, c.p.p.) e alla proroga ex art. 301, comma 2-ter, c.p.p. Tutti mirano a mitigare la rigidità dei termini massimi della custodia cautelare. La proroga tuttavia lo fa anche oltre i limiti massimi fissati in via generale per le indagini preliminari dall'art. 303, comma 1, lett. a), c.p.p. È sempre disposta per un tempo determinato e consente di superare solo i termini intermedi, non anche quelli complessivi ex art. 303, comma 4, c.p.p. A differenza della sospensione che è una parentesi di stasi, la proroga è un prolungamento del termine e, nella sua forma facoltativa, riguarda essenzialmente la fase delle indagini preliminari.

La proroga obbligatoria riguarda il caso in cui sia disposta perizia sullo stato di mente dell'imputato: i termini di custodia sono prorogati per il tempo necessario all'espletamento della perizia. Questo tipo di proroga vale anche nel processo a carico dei minorenni (Cass. pen., Sez. I, 3 ottobre 2001, n. 36854) e riguarda sia la perizia, purché d'ufficio, e non la sola consulenza tecnica del P.M. ai sensi dell'art. 360 c.p.p., volta ad accertare l'imputabilità del soggetto, sia quella volta ad accertare la capacità di questi a partecipare coscientemente al processo ex art. 70 c.p.p. come anche la compatibilità dello stato fisico e mentale con il regime carcerario (Cass. pen., Sez. III, 1 luglio 2002, n. 31600). L'ordinanza del giudice ha carattere meramente dichiarativo, quindi può accompagnare o seguire il conferimento dell'incarico, e nessun margine di discrezionalità è possibile. È sufficiente un qualche tipo di contraddittorio, anche scritto, e non è necessario osservare alcuna forma procedimentale particolare. Non può coprire tuttavia eventuali ritardi imputabili al perito nella consegna dell'elaborato peritale, sebbene il termine non scada con la consegna dell'elaborato nella cancelleria del giudice, bensì con l'espletamento dell'esame del perito in contraddittorio tra le parti.

La proroga facoltativa della custodia cautelare può essere concessa nel caso in cui, nel corso delle indagini, sussistano gravi esigenze cautelari che rendano indispensabile il protrarsi della custodia ovvero per nuove indagini disposte ai sensi dell'art. 415-bis c.p.p. La natura eccezionale di questo istituto spiega i limiti precisi posti dall'art. 305, comma 2, c.p.p.: possibilità di chiederla una sola volta e impossibilità di superare i termini di cui all'art. 303, comma 1, di oltre la metà. Questo perché possa essere concessa, devono persistere gravi esigenze cautelari, collegate alla proroga richiesta, che deve avere carattere di indispensabilità, ed agli accertamenti da compiere, particolarmente complessi. Non esiste peraltro alcun collegamento tra il termine di durata delle indagini preliminari e quello della custodia cautelare, per cui la scadenza del primo non comporta la decadenza dalla potestà di chiedere la proroga del secondo (Cass. pen., Sez. V, 6 dicembre 1991), ma questa richiesta deve essere presentata in prossimità della scadenza del termine di custodia ed in tempo utile per la decisione. Può essere avanzata anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio e dopo l'emissione del decreto che lo dispone. Non è pacifico se il criterio della gravità delle esigenze cautelari (che non esclude una eventuale attenuazione rispetto ad una iniziale massima gravità) sia compatibile con la presunzione di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. ovvero questa presunzione qui non operi per via del principio di specialità. Di sicuro il P.M. deve specificare espressamente gli elementi di giudizio che consentono di connotare come gravi le esigenze cautelari sussistenti, tanto quelle di natura probatoria quanto quelle di cautela (Cass. pen.,Sez. un., 11 luglio 2001, n. 34537), e come necessari e complessi gli accertamenti da esperire. Questi in particolare, devono essere non facili nèbrevi e in particolare devono essere rivolti a provare un fatto, non solo a valutare elementi probatori già acquisiti (ad es. la trascrizione di intercettazioni telefoniche già svolte).

Il giudice, sentito il P.M. e il difensore, provvede con ordinanza appellabile: può fissare una udienza di comparizione delle parti davanti a sé o stabilire modi e tempi di integrazione di un contraddittorio cartolare. In ogni caso, la mancata indicazione dei motivi che giustificano la proroga, determina il rigetto della richiesta del P.M. Possibili argomenti di contestazione della fondatezza della richiesta del P.M. sono la contestazione della complessità degli accertamenti prospettati ovvero la loro compatibilità con lo status libertatis dell'indagato, ovvero la dimostrazione della negligenza del P.M. nella conduzione delle indagini come infine la possibilità del difensore di opporre la già verificata consumazione dei termini massimi di custodia, circostanza che non renderebbe possibile una proroga. L'ordinanza di proroga non è soggetta all'obbligo della motivazione negli stessi termini del provvedimento originariamente applicativo della misura (Cass. pen., Sez. I, 3 giugno 1993) ma deve solo esporre i motivi che hanno indotto il giudice a ritenere valide le ragioni addotte dal P.M.