Testimonianza

Angelo Zampaglione
30 Settembre 2015

La disciplina normativa sulla testimonianza è collocata in due differenti settori del codice di procedura penale: i profili statici sono contenuti nel Libro III “Prove” (artt. 194–207) mentre quelli dinamici nel Libro VII “Giudizio” (artt. 497–500). In un sistema di matrice accusatoria – intriso dei principi del contraddittorio, dell'oralità e dell'immediatezza – la testimonianza rappresenta la “regina delle prove” per un duplice aspetto: da un lato, esalta la capacità di condizionamento dialettico delle conoscenze nel processo e, dall'altro, è il mezzo di prova che meglio si presta ai connotati di approfondimento di giudice e contendenti.
Inquadramento

La disciplina normativa sulla testimonianza è collocata in due differenti settori del codice di procedura penale: i profili statici sono contenuti nel Libro III “Prove” (artt. 194–207) mentre quelli dinamici nel Libro VII “Giudizio” (artt. 497–500).

In un sistema di matrice accusatoria – intriso dei principi del contraddittorio, dell'oralità e dell'immediatezza – la testimonianza rappresenta la “regina delle prove” per un duplice aspetto: da un lato, esalta la capacità di condizionamento dialettico delle conoscenze nel processo e, dall'altro, è il mezzo di prova che meglio si presta ai connotati di approfondimento di giudice e contendenti.

Pur non essendo offerta dalle norme alcuna definizione, la testimonianza consiste sostanzialmente nella rappresentazione di una esperienza percettiva acquisita da un soggetto, solitamente estraneo al processo, e poi asserita ed offerta al giudice per consentirgli di ricostruire circostanze e modalità del fatto penalmente rilevanti. È proprio sulla mancanza di interesse nella vicenda processuale che si differenzia la dichiarazione del testimone da quella accusatoria del correo. Preme anticipare che la possibilità di sentire come testimoni il coimputato da giudicare o già giudicato (art. 197-bis), il pentito (art. 192, commi 3 e 4), il congiunto (art. 199) – quali soggetti più o meno interessati alla regiudicanda – mette in crisi la regola.

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Un aspetto essenziale è costituito dal fatto che la veste di “testimone” si assume solo quando, su richiesta di parte o in alcuni casi d'ufficio, il soggetto è chiamato a deporre davanti ad un giudice.

In piena sintonia con il principio del contraddittorio, che costituisce il migliore metodo per la formazione della prova e quindi per la ricerca della verità giudiziale, l'escussione del teste è condotta direttamente dalle parti, secondo uno schema sequenziale che si apre con la parte che ha chiesto ed ottenuto l'ammissione della prova (esame), prosegue con il controesame condotto dalla parte antagonista e continua con un riesame nel corso del quale il primo interrogante può completare l'esame del testimone (c.d. esame incrociato o cross examination). Volgendo lo sguardo al passato, invece, il rapporto con il testimone era rigorosamente mediato dal presidente o dal pretore (al quale le parti potevano solo proporre la formulazione di domande per suo tramite, sempre che lo stesso le ritenesse ammissibili), perché si riteneva che soltanto tale figura giudicante, mossa da un'autentica istanza di giustizia e verità, avrebbe fornito la garanzia che il portato di conoscenze di cui il teste era latore non sarebbe stato piegato agli interessi di parte.

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L'esame incrociato, quindi, si sviluppa in tre momenti: l'esame, il controesame e, infine, il riesame. Ciò che accomuna queste fasi è il rapporto diretto tra parte esaminatrice e fonte di prova, nel senso che le domande sono rivolte al teste direttamente dal pubblico ministero e dal difensore dell'imputato senza l'intermediazione del giudice. Quest'ultimo è il “garante” della legalità dell'esame e della verifica della pertinenza delle domande, anche se in alcuni casi può intervenire direttamente.

Il contraddittorio, per come attualmente inteso nel nostro sistema processuale, è un discorso “quantomeno” tra tre soggetti, le due parti necessarie e il giudice, e quest'ultimo – quale garante della legalità – è chiamato ad assicurare la lealtà e la genuinità dell'esame (art. 499, comma 6, c.p.p.). Il dibattimento costituisce il luogo naturale di formazione della prova per la verifica delle ragioni formulate da accusa e difesa, davanti ad un giudice “terzo ed imparziale” chiamato a ricostruire il fatto sulla scorta della rappresentazione che di esso gli viene fornita.

Oggetto della testimonianza

Il passaggio dal vecchio al nuovo codice ha certamente segnato un mutamento dell'oggetto di prova. Mentre nel codice del 1930, in virtù degli artt. 348 e 299, la testimonianza poteva riguardare qualsiasi fatto che il giudice ritenesse utile per l'accertamento della verità, oggi l'escussione del teste può vertere solo sui fatti oggetto di prova indicati nell'art. 187 c.p.p., ovverosia su quelli che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, nonché sui fatti da cui dipende l'applicazione di norme processuali e, qualora vi sia stata costituzione di parte civile, le questioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede penale.

Di regola, il testimone non può deporre sulla moralità dell'imputato ad eccezione che si tratti di fatti specifici attraverso i quali è possibile qualificare la personalità dell'accusato in relazione al reato e alla pericolosità sociale. Tale divieto, peraltro, trova piena conferma nel terzo comma dell'art. 234 c.p.p. il quale impedisce l'acquisizione di documenti contenenti informazioni sulla moralità in generale delle parti. Da ciò si evince l'intento del legislatore di bandire dal processo un giudizio sull'autore e non sul fatto.

Analogo limite è previsto per la deposizione su fatti che servono a definire la personalità dell'offeso, tranne che nel caso in cui il fatto dell'imputato deve essere valutato in relazione al comportamento della vittima, in quanto quest'ultima potrebbe essere responsabile di aver provocato l'asserito reato.

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Il problema si pone soprattutto nei processi riguardanti delitti di violenza sessuale. Da un lato, occorre scongiurare il pericolo che il difensore dell'imputato “getti fango” sulla persona offesa, abusando dei suoi poteri e dall'altro, va assicurato l'esercizio del diritto alla prova ed alla prova contraria spettante all'imputato che è presunto innocente fino a quando non viene condannato con sentenza irrevocabile. Una soluzione, sensibile ad entrambe le evocate esigenze, è stata fornita dalle leggi n. 66 del 1996, n. 269 del 1998 e n. 228 del 2003, che hanno introdotto un secondo limite concernente i procedimenti per i delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e di tratta di persone indicati nell'art. 472, comma 3-bis, c.p.p., consistente nel divieto di rivolgere domande alla persona offesa sulla vita privata o sulla sessualità, tranne se necessarie alla ricostruzione del fatto.

L'art. 194 c.p.p. al terzo comma sancisce altri due divieti: di deporre sulle voci correnti nel pubblico e di esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.

Con il primo si impedisce l'ingresso nel processo di informazioni difficilmente controllabili, così salvaguardando il diritto di difesa ed, in particolare, il diritto al contraddittorio. Stessa regola è contenuta nell'art. 195, comma 7, c.p.p. che vieta l'utilizzo della deposizione “di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia”. Non dovrebbe rientrare nella categoria delle “voci correnti nel pubblico” il “fatto notorio” che, essendo patrimonio comune a tutti o, comunque a molti, si considera una conoscenza anche del giudice.

Con il secondo divieto si è inteso escludere apprezzamenti personali, salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che, qualora nel corso di una deposizione testimoniale risulti violato il disposto dell'art. 194, comma 3, c.p.p. che appunto vieta al testimone di deporre su voci correnti nel pubblico e di esprimere apprezzamenti personali, non ne deriva la nullità o l'inutilizzabilità dell'intera deposizione, quanto, piuttosto, ove mai essa sussistesse, soltanto di quelle parti di essa nelle quali il teste abbia violato il suddetto divieto e non si sia attenuto all'obbligo di riferire sui fatti determinati (da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, 20037/2014).

Legittimato ad esprimere apprezzamenti e valutazioni personali è il perito, anche detto “dichiarante tecnico”. La differenza tra il testimone ed il perito, infatti, risiede nel fatto che al primo è chiesto solo di riferire sui fatti che sono a sua conoscenza, al secondo sono invece richieste valutazioni sui fatti stessi.

Possono, invece, formare oggetto di testimonianza i rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni ovvero le circostanze il cui accertamento sia necessario per valutare la credibilità del teste. La prescrizione è destinata ad operare prevalentemente nel controesame, ma nulla vieta che trovi applicazione anche nell'esame diretto. Saranno ammissibili, se rilevanti, anche domande volte ad accertare la condotta personale del testimone, salvo il limite del rispetto per la persona ex art. 499, comma 4, c.p.p.

L'art. 194 c.p.p. prescrive di esaminare il teste su “fatti determinati”, ricomprendendovi sia quelli principali, riguardanti l'imputazione sia quelli secondari, idonei a qualificare la personalità dell'imputato o della persona offesa. Si intende così evitare che si possano verificare inutili divagazioni o che le dichiarazioni riguardino circostanze talmente generiche da non comportare alcun contributo alla conoscenza ed all'accertamento dei fatti per cui si procede.

La testimonianza indiretta

La testimonianza è “diretta” quando il teste percepisce personalmente il fatto da provare mentre si è in presenza di quella “indiretta” (anche detta de relato o de auditu) nelle ipotesi in cui il teste apprende il fatto da un rappresentazione che altri hanno riferito a voce, per iscritto o con altro mezzo. In altri termini, il rapporto tra fatto oggetto di prova e testimonianza indiretta è “mediato” dalla presenza di una terza persona che ha conoscenza diretta del fatto.

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Diversa dalla testimonianza indiretta è invece la “testimonianza indotta”, caratterizzata dal fatto che il teste si limita esclusivamente ad indicare qualcuno come persona informata sui fatti ma non riferisce alcuna dichiarazione.

La testimonianza indiretta è disciplinata dall'art. 195 c.p.p. e prevede alcune peculiari regole ed una griglia di divieti volti a filtrare le notizie de relato. Innanzitutto, il legislatore cerca di garantire la possibilità di escutere la fonte diretta, circondando di garanzie l'ingresso processuale di un sapere sospetto. In questa prospettiva, è essenziale che il testimone indichi la persona o la fonte (comma 7) da cui ha attinto la notizia, così da consentire alle parti di esercitare il diritto di esaminare nel processo la fonte di prova con obbligo del giudice di provvedere a tanto, pena l'inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato, salvo che risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità l'esame del teste di riferimento (comma 3).

Sul concetto di “impossibilità” di sentire il teste-fonte si sono formati due divergenti indirizzi giurisprudenziali: un primo che, ritenendo tassativa l'elencazione dei casi di impossibilità di sentire il teste di riferimento, consente l'utilizzazione delle dichiarazioni de relato solo nei casi di morte, infermità o irreperibilità della fonte originaria (Cass. pen., 25432/2002); un secondo indirizzo che, non considerando tassativi i casi di cui all'art. 195, comma 3, ritiene possibile la individuazione di altre ipotesi di impossibilità oggettive analoghe a quelle elencate dal legislatore (Cass. pen., 2 ottobre 2003).

Con riferimento alla nozione di “infermità”, è stato rilevato che essa può essere fisica o mentale, permanente o presumibilmente tale (es. un coma che appare irreversibile), ma deve comunque essere del tipo che non permetta una escussione anche al di fuori del sito giudiziario in cui si svolge il dibattimento.

Più complessa invece l'individuazione del termine entro cui la parte interessata deve richiedere l'ascolto del teste di riferimento a causa del silenzio dell'art. 195 c.p.p. e, sul punto, la giurisprudenza sembra essere disunita. Con un primo orientamento è stato affermato che la richiesta può essere avanzata fino all'inizio della discussione finale, in applicazione alla disciplina generale contenuta nel capoverso dell'art. 493 c.p.p. senza, peraltro, dover dimostrare di non aver potuto indicare tempestivamente tale prova, dal momento che solo dopo l'escussione del testimone la parte è in grado di conoscere se le circostanze narrate sono frutto di conoscenza diretta o siano apprese da altri (Cass. pen., Sez. V, 9 maggio 2002 in Ind. pen., 2003, 713). Con un secondo orientamento di segno contrario, è stato affermato che la richiesta di parte, per evitare un eccessivo allungamento dei tempi processuali, deve essere presentata al giudice al momento stesso in cui il testimone riferisce le circostanze apprese da terzi e non può utilmente intervenire dopo che il teste sia stato licenziato o l'udienza istruttoria sia conclusa (Cass. pen., Sez. II, 1 marzo 1996).

Per quanto riguarda la valutazione della testimonianza indiretta, essa va operata congiuntamente a quella del teste diretto ed agli altri elementi di prova, senza alcun obbligo di privilegiare una delle due. In particolare, nel caso in cui nel processo vengano ascoltate entrambe le fonti (indiretta e diretta), si potrebbe profilare il rischio di un contrasto tra le dichiarazioni rese dal teste de relato e quelle rese dal teste di riferimento. Stando ad un primo orientamento giurisprudenziale, il giudice può ritenere attendibili le prime dichiarazioni anziché le seconde, in quanto, da un lato, l'art. 195 c.p.p. non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e, dall'altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il principio del libero convincimento del giudice, cui compete in via esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti da privilegiare. Nella specie, il teste di riferimento aveva, poco credibilmente, parzialmente ritrattato la sua versione originaria dei fatti (Cass. pen., Sez. I, 7 ottobre 2010, n. 39662). Secondo altro e differente indirizzo il giudice dovrebbe valutare solo la testimonianza diretta, rappresentando la testimonianza indiretta un mero elemento indiziario privo di credibile riscontro e dunque inidoneo a fondare un giudizio di colpevolezza (Cass. pen., Sez. I, 4 giugno 1996, n. 6543).

In realtà, ciò che conta veramente è che solo il vaglio del contraddittorio tra le parti e l'obbligo di motivazione del giudice sono in grado di garantire l'attendibilità degli elementi di prova posti alla base della decisione.

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Può inoltre accadere che nella testimonianza indiretta la persona da cui il teste riferisce di aver appreso i fatti (c.d. teste di riferimento) sia a sua volta un teste indiretto ed, in questo caso, sarà ancora più difficile trarre un valore probatorio da un sentito dire “di seconda mano”. Non può negarsi che in tale ipotesi si pone un problema di “contraddittorio” e di “libero convincimento”, in quanto le parti devono avere la possibilità di interrogare il soggetto che ha appreso direttamente il fatto ed il giudice deve poterne valutare la credibilità.

Il legislatore ha previsto anche ipotesi di inutilizzabilità solo per “specifiche situazioni” (comma 6) o per “determinati soggetti” (comma 4). Per quanto concerne il primo aspetto il sesto comma, stabilendo che “i testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati” intende scongiurare possibili elusioni del regime posto a difesa del segreto professionale e di quello di ufficio. Con riferimento, invece, all'inutilizzabilità prevista per determinati soggetti, il quarto comma pone in capo ad agenti e ufficiali di polizia giudiziaria il divieto di testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 c.p.p. cioè quando sono inserite in un atto di sommarie informazioni e 357, comma 2 lettere a) e b) c.p.p. cioè quando sono contenute in verbali di denunce, querele istanze e quando si tratti di verbali di sommarie informazioni o spontanee dichiarazioni rese dall'indagato. Tale comma è stato dapprima investito da una declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., 31 gennaio 1992, n. 24) e successivamente ripristinato e rimodellato dalla legge sul “giusto processo” (l. n. 63 del 2001). Lo scopo di tale divieto è quello di inibire l'introduzione nel fascicolo dibattimentale di precedenti dichiarazioni utilizzabili solo per la valutazione della credibilità del dichiarante mediante le contestazioni.

È vietata, poi, la testimonianza indiretta sulle dichiarazioni dell'imputato, comunque rese, in un atto del procedimento (art. 62), sia da parte di altro testimone o da appartenente alla polizia giudiziaria, al fine di impedire l'ingresso surrettizio nel processo, di elementi non risultanti dalla documentazione formale dell'atto dichiarativo.

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La Corte di cassazione si è pronunciata su una serie di ipotesi, escludendole dal novero della testimonianza indiretta.

Non vi rientrano innanzitutto i fatti riferiti dal teste che, pur non essendo avvenuti quanto meno nella loro totalità sotto la sua diretta percezione, possono tuttavia ricondursi ad un suo patrimonio conoscitivo personale e non derivato.

È stato così chiarito che non può considerarsi forma di testimonianza indiretta la narrazione di un fatto avvenuto solo in parte sotto la percezione diretta del testimone, ma che il soggetto sia in grado di ricostruire per intero, in via di logica conseguenzialità (Cass. pen., Sez. I, 23 marzo 1998).

Allo stesso modo, non va collocata tra le ipotesi di testimonianza de auditu la deposizione del comandante di un reparto militare, dato che, nella struttura organizzativa delle forze armate, il comandante di un reparto ha una cognizione diretta ed immediata della forza posta a sua disposizione della quale risponde gerarchicamente e sulla quale esercita l'attività di comando (Cass. pen. Sez. I, 31 ottobre 19913).

Capacità e compatibilità a testimoniare

Di regola, nel nostro sistema processuale vige il principio di “universalità dell'obbligo testimoniale”, in virtù del quale tutti i soggetti hanno la capacità a testimoniare (art. 196, comma 1, c.p.p.), vale a dire l'idoneità fisica e mentale a rendere una dichiarazione.

Ne consegue che possono essere escussi anche gli infermi di mente ed i minori, fermo restando però il dovere che incombe sul giudice di verificare in concreto l'idoneità fisica e mentale di tali soggetti chiamati a deporre. Nel compiere tale controllo, è riconosciuta al medesimo la possibilità di ordinare “accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge” (art. 196, comma 2, c.p.p.) e, gli eventuali risultati negativi non producono effetti preclusivi, potendosi comunque liberamente procedere all'acquisizione della testimonianza (art. 196, comma 3, c.p.p.).

Totalmente diversa è la “incompatibilità a testimoniare” che si pone come eccezione al generale obbligo di testimoniare, pur in presenza della capacità di deporre. Tale situazione giuridica trae fondamento dalla posizione assunta dalla persona in uno specifico procedimento o nell'attività svolta in tale ambito. In particolare, il precedente o concomitante esercizio di un'altra attività processuale ha indotto il legislatore a considerare non opportuno che la stessa persona sia chiamata ad assumere una nuova posizione o a svolgere una nuova attività nel corso del medesimo processo.

Le ipotesi di incompatibilità sono indicate nell'art. 197 c.p.p. e possono essere suddivise in due gruppi: nel primo rientrano quelle tra parti private e testimone (art. 197, comma 1 lett. a)-c), c.p.p.) e nel secondo quelle derivanti dalle funzioni svolte nell'ambito del medesimo procedimento (cd. incompatibilità funzionale di cui all'art. 197, comma 1 lett. d), c.p.p.).

Procedendo con ordine, la lettera a) dell'art. 197 c.p.p. stabilisce che non possono essere assunti come testimoni – e vanno quindi ascoltati mediante esame ex art. 210 c.p.p. – gli imputati concorrenti nel medesimo reato o che versano in situazioni assimilate in base all'art. 12, lett. a), anche se i relativi procedimenti non siano riuniti o separati. Tale situazione di incompatibilità viene meno (art. 197-bis c.p.p.) quando nei confronti di dette persone interviene una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condannato di patteggiamento, che li pone al riparo dal rischio di essere processati una seconda volta per il medesimo fatto storico.

Sono altresì incompatibili con la veste di testimoni, secondo quanto previsto dalla lettera b) dell'art. 197 c.p.p., gli imputati in procedimenti avvinti da connessione debole, c.d. connessione teleologica di cui all'art. 12, comma 1, lett. c), o probatoriamente collegati (art. 371, comma 2, lett. b)), fino a quando nei loro confronti non interviene una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento o, anche prima di tale evento, se edotti degli avvertimenti di cui all'art. 64 c.p.p. decidano di rendere dichiarazioni su fatti da cui emerge la responsabilità di altri soggetti.

La lettera c) dell'art. 197 c.p.p. dispone che non possono essere escussi come testimoni le persone che nel medesimo processo abbiano assunto la veste di responsabile civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Tali soggetti vanno pertanto esaminati come parti ai sensi dell'art. 208 c.p.p.

Infine, il secondo gruppo di incompatibilità dell'art. 197 c.p.p. è contemplato nella lettera d) che impedisce di testimoniare a coloro che nel medesimo procedimento abbiano svolto la funzione di giudice, di pubblico ministero o di loro ausiliario; nonché al difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e a quelli che abbiano formato la documentazione dell'intervista o che abbiano redatto la relazione che recepisce le dichiarazioni scritte a norma dell'art. 391-ter.

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Preme segnalare che ai sensi dell'art. 44, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è incompatibile con l'ufficio di testimone la persona imputata del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e la persona che rappresenta l'entenella dichiarazione di cui all'art. 39, comma 2, del medesimo decreto inerente alla responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi.

Obblighi del testimone e privilegio contro l'autoncriminazione

A differenza di quanto avviene per l'imputato, sul testimone grava ha una serie di obblighi previsti dal primo comma dell'art. 198 c.p.p.: a) di presentarsi al giudice; b) di attenersi alle prescrizioni dal medesimo impartitegli per esigenze processuali; c) di rispondere secondo verità alle domande che riceve.

Tale ultimo obbligo è di sicuro il più rilevante, essendo punito per il reato di “falsa testimonianza” il teste falso o reticente (art. 372 c.p.), a meno che abbia posto in essere il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore. Trattasi questa della scusante prevista dall'art. 384 c.p.

In generale, infatti, il legislatore riconosce al testimone il “privilegio contro l'autoincriminazione” (privilege against self-incrimination) che, sostanzialmente, lo esonera dal deporre su fatti e circostanze dalle quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale (art. 198, comma 2, c.p.p.).

Ciò significa che, in questo caso, il giudice non può obbligare il teste a rendere la deposizione e questi può rifiutarsi nonostante il contrario invito del giudice o della parte. Ad ogni modo, qualora il teste dovesse cedere alle insistenze del giudice, le sue dichiarazioni saranno inutilizzabili ai sensi dell'art. 191 c.p.p. e in caso di dichiarazioni mendaci è esente da responsabilità per effetto del disposto dell'art. 384, comma 2, c.p. (Cass., sez. VI, 2 giugno 2001, in Riv. pen., 2001, 250).

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Inoltre, in tale ipotesi, troverebbe comunque applicazione l'art. 63 c.p.p. secondo cui qualora, dalle dichiarazioni rese, emergano indizi di reità a carico del dichiarante per un reato pregresso l'autorità procedente deve interrompere l'esame, ed avvertire il soggetto dell'utilizzabilità delle dichiarazioni contro di lui, nonché della sua facoltà di nominare un difensore. E le precedenti dichiarazioni indizianti non possono essere utilizzate contro il dichiarante (art. 63 c.p.p.), in applicazione del principio nemo tenetur se detegere.

Per quanto attiene alle modalità della deposizione testimoniale, queste sono descritte dalle disposizioni che regolano la testimonianza nel dibattimento (artt. 497 e ss c.p.p.). Nel caso in cui il teste rifiuti di deporre, il verbale verrà trasmesso al pubblico ministero affinché proceda norma di legge (art. 207 c.p.p.).

La medesima procedura è prevista in caso di dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite.

La testimonianza assistita

Nell'ottica di un bilanciamento tra i due opposti interessi, quello del diritto di difesa e quello all'accertamento, il legislatore del 2001, in attuazione del Giusto Processo, ha inserito nel codice di procedura penale l'istituto della testimonianza assistita, disciplinata dall'art. 197-bis c.p.p. È stato così individuato, in un certo qual modo, il giusto compromesso tra la necessità di ricercare la verità processuale riguardo alla fattispecie di reato per cui si sta procedendo e rispetto alla quale la testimonianza assume un ruolo fondamentale nella fase dibattimentale e l'esigenza di garantire un'adeguata difesa ad un soggetto che, assumendo la veste di testimone (con l'implicito obbligo di rispondere e dire la verità), vede compresse le garanzie connesse alla propria posizione di imputato (diritto al silenzio ed alla menzogna).

Al primo comma, la norma in esame stabilisce che l'imputato di un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p. o collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., può essere sempre sentito come testimone assistito se nei suoi confronti sia già stata emanata una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento; trattasi dunque di imputati in procedimenti connessi ma già giudicati.

Al secondo comma, l'art. 197-bis c.p.p. fa riferimento, invece, a quegli imputati in procedimenti connessi (deboli, cioè lett. c) dell'art. 12 c.p.p.) o collegati che, sebbene non siano ancora destinatari di una sentenza irrevocabile, abbiano reso, nel corso dell'interrogatorio, dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri soggetti.

È così possibile scorgere due figure di dichiaranti diverse dall'imputato e dal testimone comune, sulle quali si è concentrata, in questi anni, l'attenzione di dottrina e giurisprudenza: il soggetto che rende esame ex art. 210 c.p.p. ed il testimone assistito ex art. 197-bis c.p.p. Nel primo tipo vanno annoverati gli imputati connessi e collegati non ancora giudicati nonché gli imputati connessi ex art. 12 lett. c) e gli imputati collegati che non abbiano mai rilasciato dichiarazioni da cui emerge responsabilità di altri soggetti. Saranno ascoltati, invece, come testimoni assistiti gli imputati connessi e collegati giudicati con sentenza irrevocabile di proscioglimento, condanna o applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. e gli imputati connessi teleologicamente ex art. 12, lett. c), c.p.p. e gli imputati collegati che, edotti dell'avviso di cui alla lett. c) dell'art. 64, comma 3, c.p.p., abbiano deciso di rendere accuse erga alios. Anche se organizzati in maniera differente, i primi due commi della disposizione in parola riproducono quanto stabilito nelle lettere a) e b) dell'art. 197 c.p.p.

In una visione più generale, quindi, nel nostro ordinamento esistono quattro figure di dichiaranti “non tecnici”: l'imputato, l'imputato connesso o collegato ex art. 210 c.p.p., il testimone assistito ed il testimone comune. Gli imputati connessi e collegati passano da soggetti esaminabili ex art. 210 c.p.p. a testimoni assistiti (art. 197-bis). In entrambi i casi sono escussi con la presenza dei loro difensori e le dichiarazioni rese sono sottoposte al regime di valutazione probatorio di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. (cd. riscontri esterni); sono, inoltre, obbligati a rispondere secondo verità. Ciò che, invece, contraddistingue le due forme di escussione è che nell'esame previsto dall'art. 210 c.p.p. tali soggetti possono avvalersi del diritto al silenzio mentre nella testimonianza assistita sono obbligati a rispondere. Uniche eccezioni a tale regola sono previste nel comma 4 della norma in esame che esonera dall'obbligo di deporre da un lato gli imputati connessi o collegati giudicati “sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei loro confronti, se nel procedimento avevano negato la propria responsabilità ovvero non avevano reso alcuna dichiarazione” e dall'altro gli imputati connessi teleologicamente e i collegati, che abbiano rilasciato accuse nei confronti di altri dopo aver ricevuto l'avviso di cui alla lett. c) dell'art. 64, comma 3, c.p.p. “sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei loro confronti”.

A ben riflettere, è possibile affermare che esiste una “incompatibilità assoluta” a testimoniare dell'imputato connesso forte che dura fino alla sentenza irrevocabile e una “incompatibilità relativa” dell'imputato connesso teleologicamente o collegato che cade ogniqualvolta siano rese dichiarazioni concernenti l'altrui responsabilità.

L'art. 197-bis, comma 5, c.p.p. prevede una garanzia per il testimone assistito: quella della inutilizzabilità delle sue dichiarazioni nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi altro giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette.

Le ipotesi di astensione

Il legislatore prevede due categorie di situazioni che consentono all'escusso di astenersi dal deporre: la prima è costituita dalla testimonianza dei prossimi congiunti e la seconda è stata creata per tutelare i segreti professionali, di ufficio e di Stato.

Innanzitutto l'art. 199 c.p.p., al chiaro fine di salvaguardare la famiglia e di garantire la genuinità della prova, riconosce tale facoltà a quei soggetti che sono legati all'imputato da vincoli familiari. Il concetto di “prossimo congiunto” è ben delineato nell'art. 307, comma 4, c.p. in virtù del quale, agli effetti della legge penale, vi rientrano «gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti». La medesima norma poi specifica che non si comprendono gli affini, quando sia morto il coniuge e non vi sia prole.

Orbene, il prossimo congiunto deve essere preventivamente avvertito della facoltà di astenersi da rendere la deposizione ed, il mancato avvertimento comporta la nullità speciale (Cass. Pen., Sez. V, 12 marzo 2010, in Cass. Pen., 2011, 1886) e la non punibilità dell'eventuale delitto di falsa testimonianza (art. 384, comma 2, c.p.).

Al di là di quanto previsto per il mancato avvertimento della possibilità di non deporre, dovrebbe trattarsi, senza considerare il riferimento di cui alla rubrica, di un divieto probatorio: la sua violazione renderà inutilizzabile la prova ai sensi dell'art. 191, comma 1, c.p.p. (Spangher, “E pur si muove”: dal male captum bene retentur alle exclusionary rules, in Giur. cost., 2001, 2827). Un contrasto giurisprudenziale si è manifestato inoltre sulla necessità o meno di reiterare l'avvertimento anche se il teste viene chiamato più volte a deporre (in senso favorevole, Cass., VI, 16 febbraio 1994, Grandinetti, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 142; contra Cass., II, 9 febbraio 1996, Spanò, in Dir. pen. proc., 1996, 1458).

In evidenza

Tale beneficio non è concesso ai prossimi congiunti in due casi: 1) qualora abbiano presentato denuncia, querela o istanza nei confronti dell'imputato; 2) quando siano essi stessi persone offese dal reato.

Inoltre, il codice, all'art. 199, comma 3, c.p.p. estende la facoltà di astensione a chi è legato all'imputato da vincoli di adozione e prevede una forma di astensione parziale in favore del convivente more uxorio, del coniuge separato e di quello nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l'imputato. In particolare, detta facoltà è circoscritta esclusivamente a quei fatti che si siano verificati o che siano stati appresi dall'imputato nel corso del periodo di convivenza coniugale. Diversamente, tutto quello che il coniuge ha conosciuto dopo la convivenza (anche prima dei provvedimenti che segnano il mutamento di status), esula dalla facoltà di astensione.

Sulla base di una lettura congiunta degli artt. 384, comma 1, c.p. e 199 c.p.p., la Cassazione, riunita nella sua più autorevole composizione, ha stabilito che il prossimo congiunto che, regolarmente avvertito, non si astiene è un testimone a tutti gli effetti, al pari di un terzo estraneo e rende dichiarazioni utilizzabili nel processo, anche in assenza di riscontri (Cass. pen., Sez. un., 14 febbraio 2008, n. 7208). Se in tale ipotesi si applicasse il primo comma dell'art. 384 c.p. si darebbe vita ad una figura di testimone con facoltà di mentire incompatibile con il sistema processuale e il prossimo congiunto sarebbe del tutto deresponsabilizzato.

Esistono poi situazioni in cui il teste ha il potere-dovere di non rispondere alle domande qualora le risposte dovessero comportare la violazione dell'obbligo del segreto. Più specificamente esistono alcune professioni o attività – al cui esercizio sono sottesi rilevanti valori di rango costituzionale – che non potrebbero essere utilmente svolte nell'interesse sociale, ove i soggetti che le esercitano non fossero vincolati al segreto in ordine alle notizie e ai fatti di cui vengono a conoscenza in ragione dell'espletamento dei loro compiti.

Nel nostro sistema processuale, infatti, il segreto muta in base alla qualifica o all'oggetto della testimonianza dei soggetti e può essere professionale, di ufficio e di Stato. È innegabile che essi costituiscono un ostacolo all'attività conoscitiva dell'autorità giudiziaria, alla quale talvolta risulta precluso l'accesso a determinate prove.

Così, i segreti – impedendo che dall'esterno giungano alla magistratura elementi utili per l'adozione dei provvedimenti che essa è chiamata ad assumere – sono posti a tutela di un'ampia e variegata gamma di valori che, per espressa previsione normativa, possono (artt. 199, 200 e 203 c.p.p.) o debbono (artt. 201 e 202 c.p.p.) prevalere sull'accertamento del fatto cui mira il processo penale.

In evidenza

I vincoli di segretezza risultano tutelati anche con riguardo a mezzi di prova diversi dalla testimonianza (cfr., ad esempio, art. 256 c.p.p.) e fuori dal contraddittorio dibattimentale (cfr., ad esempio, artt. 351 e 362 c.p.p.).

Il primo tipo di segreto, quello professionale, si verifica nel momento in cui il teste è chiamato a rendere dichiarazioni su una circostanza appresa dal professionista qualificato “per ragione del suo ministero”e, quindi, non in qualità di comune cittadino.

Preme rilevare che la sussistenza del segreto non opera automaticamente ma deve essere eccepita dal soggetto escusso (Cass. Pen., Sez. VI, 11 febbraio 2009, Belluomo, in Cass. pen., 2009, 3910). Tuttavia, all'esito dei necessari accertamenti su quanto eccepito, il giudice può comunque ordinare al teste di deporre.

In ambito di diritto sostanziale, l'art. 622 c.p. punisce chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto.

Va precisato che il segreto non può essere eccepito dal professionista quando sussiste un obbligo giuridico di riferire un fatto-reato all'autorità giudiziaria; si pensi, per esempio, al medico che abbia prestato assistenza alla persona offesa di un delitto procedibile di ufficio e che, abbia, quindi, l'obbligo del referto, che implicitamente rappresenta una giusta causa della rivelazione.

In evidenza

Altro importante aspetto è costituito dal fatto che la facoltà di non rispondere è riconosciuta della legge processuale solo ai cd. professionisti qualificati, tassativamente elencati nell'art. 200 c.p.p., e cioè:

1) I ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano (art. 200, comma 1, lett. a)). Ma limitatamente alle notizie apprese nell'esercizio del ministero ecclesiastico e, quindi, in relazione a funzioni “laiche” nell'ambito di un giudizio ecclesiastico (Cass. Pen., Sez. V, 12 marzo 2004, Trecco, in Cass. pen., 2005, 1615);

2) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai (art. 200, comma 1, lett. b), mod. dalla l. n. 397/2000). A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 87/1997, tale disposizione si estende anche a chi, essendo iscritto nel registro dei praticanti, adempie agli obblighi della pratica forense presso lo studio del professionista con il quale collabora;

3) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria (art. 200, comma 1, lett. c));

4) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale (art. 200, comma 1, lett. d)), come ad esempio i consulenti del lavoro (legge n. 12/1979), i dottori commercialisti, i ragionieri e periti commerciali (art. 1, l. 5 dicembre 1987, n. 507) o gli assistenti sociali iscritti nell'albo professionale (art. 1, l. 3.4.01, n. 119). Trattasi questa di una “categoria aperta”.

In ossequio all'art. 21 Cost., l'operatività della disciplina del segreto investe, seppur solo in parte, anche i giornalisti professionisti, regolarmente iscritti nel loro Albo professionale. A tali soggetti è infatti estesa la disciplina del segreto, limitatamente ai nomi delle persone dalle quali è stata appresa la notizia nell'esercizio della professione. A tal proposito, suscita un certo interesse una pronuncia di legittimità secondo cui andrebbero ricomprese in tale contesto anche le indicazioni relative ai numeri identificativi delle utenze telefoniche di cui il giornalista disponeva nel periodo in cui ha ricevuto le notizie fiduciarie, trattandosi di elementi funzionali rispetto alla identificazione degli informatori (Cass. Pen., Sez. VI, 21 gennaio 2004, in Cass. Pen., 2005, 1543).

La incomprimibile necessità di tutelare il buon funzionamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) ed il dovere che grava sui cittadini cui sono attribuite funzioni pubbliche di adempierle con disciplina ed onore, hanno determinato il riconoscimento, in ambito processuale, del “segreto d'ufficio”. Dunque, tale forma di segreto attiene ai soggetti che in ragione della loro funzione pubblica sono tenuti ad astenersi dal deporre su fatti conosciuti in virtù del loro ufficio. Preme rilevare, che a tali soggetti non è riconosciuta una libera facoltà di astensione bensì, al contrario, hanno l'obbligo di opporre il segreto, tanto è vero che la rivelazione del segreto d'ufficio è punita dall'art. 326 c.p.

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Le nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di un pubblico servizio sono offerte dagli artt. 357 e 358 c.p., cui andrebbe ricondotta anche la figura del giudice penale che abbia partecipato, in camera di consiglio, alla deliberazione collegiale (Cass. pen., Sez. Un., 30 ottobre 2002, Carnevale, in Cass. pen.,2005, 921).

L'obbligo di astenersi viene meno nel caso in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio hanno l'obbligo di riferire all'autorità giudiziaria la notizia di reato.

Come previsto anche per il segreto professionale, se il testimone eccepisce il segreto di ufficio, il giudice ove ritenga che l'eccezione è infondata ordina la testimone di deporre (art. 201, comma 2, c.p.p.).

Il segreto di Stato è disciplinato dall'art. 202 c.p.p. e, come chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 106/2009, la nozione di tale tipo di segreto è di carattere oggettivo, ossia gli atti che vengono in rilievo possono presentare caratteristiche di contenuto e di forma tali da indurre a ritenere che essi, ictu oculi, rivestono connotazioni di per sé coperte da segreto di Stato, in quanto la segretezza è intrinseca all'atto.

Si tratta, in effetti, di una forma particolare del segreto di ufficio, che riguarda “atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all'indipendenza dello Stato rispetto ad altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”.

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Su tali soggetti grava l'obbligo di astenersi dal deporre e, pertanto, di opporre il segreto di Stato.

L'autorità procedente ha l'obbligo di interpello del presidente del Consiglio per chiedere conferma del segreto, nonché di sospendere ogni iniziativa volta ad acquisire e ad utilizzare la notizia o atto oggetto del segreto (art. 202, comma 2, c.p.p.).

Qualora il segreto dovesse essere confermato, si realizza un divieto probatorio ampio che impedisce l'acquisizione e l'utilizzazione delle notizie coperte dal segreto (art. 202, comma 5, c.p.p.), che comporta, in caso di riconosciuta essenzialità della conoscenza di quelle notizie, la definizione del processo con sentenza di non luogo a procedere (art. 202, comma 3, c.p.p.).

Se, invece, non interviene entro 30 giorni dalla notifica della richiesta la conferma del segreto il procedimento riprende il suo corso ed il testimone è chiamato a rendere la deposizione.

Esiste, una ultima forma di segreto, posta a tutela degli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, del personale dipendente dai sevizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica(art. 203 c.p.p.), ai quali è riconosciuta la facoltà di non rivelare i nomi degli informatori, ma in tal caso le notizie riferite de relato non possono in alcun caso essere utilizzate, se non quando sia esaminato l'informatore.

Occorre, da ultimo, precisare che tale segreto non può essere opposto per i fatti che riguardino reati diretti all'eversione dell'ordine costituzionale nonché per i delitti previsti dagli artt. 285, 416-bis, 416-ter e 422 c.p. (l. n. 124 del 2007).

Le regole per l'esame testimoniale

La norma che si occupa di disciplinare le regole dell'esame dibattimentale è l'art. 499 c.p.p. che prevede due divieti: uno assoluto per le domande nocive (comma 2) ed uno relativo per le domande suggestive (comma 3). Le prime sono quelle in grado di compromettere la capacità di rievocare o esporre i fatti del testimone, come ad esempio quelle maliziose, capziose o tendenziose. Le seconde, invece, sono quelle che forniscono informazioni o che danno per accertato un fatto che l'escusso non ha riferito, ovvero che tendono a suggerire o a provocare una risposta secondo l'intento di chi interroga. Queste ultime sono consentite solo in sede di controesame in quanto dirette a saggiare l'attendibilità del teste, a condizione che l'esaminante si riferisca a fatti dei quali il testimone ha una conoscenza personale.

Occorre considerare che nell'esame diretto e nel riesame l'interrogante conosce le informazioni che il teste può riferire ed è quindi ravvisabile un suo interesse di carattere suggestivo volto a dimostrare o ad avvalorare la propria tesi difensiva, pur sempre in un clima collaborativo che comunque facilita la composizione di dichiarazioni ad hoc. È pacifico che tale divieto vale anche per la parte che ha un interesse “omogeneo”, come nel caso di pubblico ministero e della parte civile, ovvero del responsabile civile e dell'imputato.

Nel controesame, invece, dato il clima conflittuale e la finalità vanificatrice dell'opposta ipotesi, tale rischio manca e, anzi, la domanda suggestiva rappresenta uno strumento indispensabile, tanto che essa risulta pregiudizievole quando è necessario dimostrare la veridicità del teste ma si rivela utile per rivelarne menzogne ed errori. Sulla scorta di tali considerazioni, va segnalata la inoperatività di tale divieto nel caso di “teste ostile”, quello che la parte introduce ritenendolo a sé favorevole, ma in sede di esame diretto si riveli poi sfavorevole in maniera sospetta.

La giurisprudenza di legittimità si è occupata anche della rilevante questione circa l'applicabilità o meno al giudice del divieto di porre domande suggestive all'interrogato, approdando – in armonia con altre pronunce di legittimità, tra le quali su tutte Cass., Sez. III, 11 maggio 2011, n. 25712 – ad una duplice conclusione: da un lato, ha affermato condivisibilmente che il divieto di domande suggestive deve estendersi anche al giudice che procede all'esame diretto del testimone e dall'altro, ha stabilito che alla violazione del divieto non conseguono sanzioni processuali, individuando piuttosto un problema di attendibilità della prova, inficiata per l'uso di uno scorretto metodo di escussione (Così, Cass. Pen., Sez. III, 24 febbraio 2012, n. 7373).

Più precisamente, con riferimento al primo aspetto, è stato esteso a tutti i soggetti che intervengono nell'esame testimoniale il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte, compreso al giudice (o al suo ausiliario) sul quale grava il dovere di assicurare sempre e comunque la genuinità delle risposte come previsto dall'art. 499, comma 6, c.p.p.

In termini più generali, l'esame incrociato rappresenta nel sistema processuale italiano l'emblema dell'opzione accusatoria per la sua peculiare evidenza ma, al contempo, pone particolare cautela in ordine al controllo e ai poteri giurisdizionali. Diventa essenziale il ruolo del giudice, la cui opera di controllo e di intervento non può tuttavia svolgersi se non nella misura in cui consente di incanalare il contraddittorio sui binari dell'accertamento. I suoi poteri non possono costituire interferenze probatorie sul diritto delle parti, atteso che deve essere l'esame incrociato ad esaltare il ruolo delle parti nel processo penale e la loro posizione di protagoniste nel momento dell'assunzione della prova.

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Detto altrimenti, il giudice deve essere arbitro della contesa e non più protagonista della vicenda probatoria, come avveniva sotto la vigenza del codice Rocco. Questo compito ne esalta i profili di imparzialità: a lui è affidata la direzione e la vigilanza sulle norme che presiedono l'esame incrociato, in modo che lo stesso si esplichi nella forma di un leale duello dialettico tra le parti nell'assunzione della prova dichiarativa, che non può non riverberarsi sull'effettiva terzietà del giudice.

L'esame incrociato, infatti, intanto è leale, in quanto si rispettino le regole dettate per la sua assunzione; la vigilanza sul rispetto delle regole, anche in termini di intervento ex officio, è dunque affidata al giudice.

Circa il contenuto dei poteri del giudice si è registrata una diversità di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. Il potere di intervento del giudice va inteso come dovere di censura delle domande, dei comportamenti o degli atteggiamenti inibiti dalla norma; si tratterebbe quindi di un potere in negativo, finalizzato ad impedire il travalicamento dei limiti, ma non in positivo, nel senso che non sono legittime ingerenze del presidente dal profilo cosiddetto contenutistico, volte cioè a sostituirsi all'iniziativa delle parti. Sotto questo aspetto il potere del giudice sarebbe residuale, come si desume dall'art. 506 c.p.p. La giurisprudenza di legittimità, invece, è del parere che non vi sia alcuna violazione del diritto di difesa nell'intervento del presidente che chieda precisazioni al teste circa il contenuto di una risposta ad una domanda formulata dal difensore (Cass. Pen., 5 dicembre 1994, Rizzo, Mass. uff., 200241.).

Si è anche affermata la correttezza del principio secondo il quale il giudice può ammettere i testimoni a rendere dichiarazioni spontanee integrative delle risposte date, sia nel corso dell'esame incrociato, che in un momento successivo.

Ciò posto, nell'ipotesi di deroga alla cross examination, come avviene nel caso di testimonianza del minore, legittime sono le domande del presidente volte ad accertare i fatti pur sempre nell'ambito dei confini indicati nel programma istruttorio dalle parti, non essendo il giudice legittimato a seguire autonome vie di prova, suggestive o non. L'esame del presidente, ai fini di una sua corretta esplicazione, deve quindi essere ispirato in sostanza ad una concezione teleologica dell'esame incrociato, in modo da consentirgli di esercitare quella funzione di controllore attribuitagli dal sistema processuale.

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In sintesi, quindi, l'art. 499 c.p.p. individua in generale i criteri cui il giudice si deve attenere per ammettere o vietare le domande delle parti nel corso dell'esame del teste. Il giudice deve assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni (art. 499, comma 6, c.p.p.).

Ultimata l'esposizione delle regole sull'esame testimoniale, resta da svolgere qualche brevissima considerazione sulla conduzione dell'esame, quale primo e forse più delicato momento della cross examination. Occorre prendere atto del fatto che l'imprevedibilità delle risposte rende impossibile immaginare un metodo di conduzione “sicuramente vincente” dell'esame e, pertanto, sta nella abilità e nella capacità di improvvisazione dell'interrogante la riuscita dell'interrogatorio. Tuttavia, potrebbe essere consigliabile: 1) evitare domande multiple, complesse o comunque formulate in modo confuso e variamente interpretabile; 2) proteggere le prove testimoniali favorevoli dalla prevedibile confutazione, rafforzando quanto possibile gli elementi probatori già assunti e prevedendo le mosse dell'avversario che prenderà la parola in sede di controesame; 3) non lasciarsi alle spalle argomenti pericolosi o negativi, essendo preferibile affrontarli in modo riduttivo e risolverli subito in ambito di esame diretto, così da scongiurare il rischio che l'avversario li evidenzi e li gestisca abilmente quando prenderà la parola (nel corso del controesame). Con riferimento a questo ultimo punto, peraltro, la circostanza di aver già interrogato il proprio teste su quell'argomento obbliga sostanzialmente l'avversario a ripetere domande che hanno già avuto risposta e, in queste condizioni, il controesame può facilmente risultare inefficace o persino inconcludente.

La valutazione della deposizione

Alla stregua delle considerazioni svolte, è possibile affermare che le dichiarazioni sono strumenti rappresentativi della realtà, consentendo le medesime di evocare, direttamente o indirettamente, l'immagine del fatto da provare. In sostanza, la prova dichiarativa offre alla valutazione del giudice e delle parti non semplicemente un fatto, ma una esperienza, cioè un fatto così come caduto sotto gli occhi del dichiarante. Così intesa, la testimonianza si concilia perfettamente con il principio del libero convincimento del giudice che governa l'attuale sistema probatorio. Il giudice deve vagliare l'attendibilità e la credibilità del dichiarante, dandone adeguatamente conto in motivazione (art. 111, comma 6, Cost.; art. 192, comma 1, c.p.p.).

Non può sottacersi che la potenzialità probatoria della testimonianza dipende non solo dalla rilevanza del fatto esposto nel corso dell'esame, ma anche dall'attendibilità del testimone; in questa prospettiva, il teste deve essere giudicato in relazione alla sua deposizione nella stessa maniera in cui si giudica l'imputato in relazione al fatto che gli si attribuisce. La giurisprudenza ha affermato che le modalità di valutazione della testimonianza devono mutare in ragione della “qualità della prova”, determinata da una serie di elementi: dal grado di intrinseca attendibilità del deponente, dato dalle sue caratteristiche personali, morali, intellettive e sensitive; dalla presenza o meno di un suo personale interesse alla vicenda processuale; dalle sue capacità di attenzione e di memoria (Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri).

Giova, altresì, segnalare che la giurisprudenza aderisce al principio della “scindibilità” che consente di ritenere al contempo sincera una parte della deposizione ed inattendibile un'altra parte della stessa. Il giudice, peraltro, deve dar conto dell'applicazione di tale principio, con adeguata motivazione che esplichi le ragioni di tale diversa valutazione e del perché il confliggente esito di essa non si rifletta in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova posta a supporto della decisione (Cass. pen., Sez. VI, n. 20037/2014). Il giudice di merito, nel valutare la prova dichiarativa deve comunque partire dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri o da lui ragionevolmente ritenuti tali; così, la testimonianza potrà essere disattesa solo quando esistano elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile il mendacio ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste (Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2003).

Preme segnalare inoltre che, in un processo fondato sulla separazione delle fasi, sull'oralità, sul contraddittorio, sul libero convincimento, diviene aspetto essenziale che la decisione sia emessa dagli stessi giudici davanti ai quali si è svolta l'istruttoria dibattimentale (principio di immediatezza di cui all'art. 525, comma 2, c.p.p.). Influiscono sul libero convincimento del giudice, vale a dire sul giudizio di attendibilità o meno di una prova, anche fattori quali gli sguardi, le sensazioni, la naturalezza del racconto, le contraddizioni e i silenzi del teste; tutti aspetti questi che, indiscutibilmente, non emergono dalla mera lettura di un verbale. Non a caso, infatti, l'esame incrociato è lo strumento privilegiato per l'attuazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, posto che è in grado di far emergere tutti gli elementi utili alla comprensione dei fatti ed alla scelta sulla ricostruzione preferibile.

In evidenza

Attraverso l'esame incrociato, basato sul confronto dialettico, è possibile estrapolare dalla fonte di prova non solo i momenti di conoscenza del fatto, ma anche tutti i dati utili a verificare la genuinità e l'attendibilità della stessa fonte; la conseguenza che ne scaturisce è che il giudice avrà a sua disposizione i migliori punti di orientamento per individuare la possibilità di confluenza tra verità processuale e realtà storica (De Caro, Ammissione e formazione della prova nel dibattimento, in La prova penale, II, Le dinamiche probatorie e gli strumenti per l'accertamento giudiziale, diretto da Gaito, Torino, 2008).

Molto discussa è stata la scelta intrapresa dal legislatore di consentire alla persona offesa dal reato di deporre in qualità di teste ma, evidentemente, è prevalsa la necessità di non rinunziare al prezioso contributo probatorio che tale soggetto è in grado di apportare al processo. Il problema risiede nel fatto che la persona offesa è per definizione interessato all'epilogo del processo e ad accreditare una determinata versione dei fatti. Ciò nonostante va sicuramente apprezzato l'ormai cristallizzato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la testimonianza della vittima necessita, a differenza della deposizione testimoniale tout court, di essere sottoposta ad indagine positiva in punto di attendibilità, attraverso un riscontro della credibilità oggettiva e soggettiva, pur dovendosi escludere l'applicazione delle regole ex art. 192, commi 3 e 4, ossia la necessità di ricorrere ai riscontri esterni (ex multis, Cass. pen., Sez. III, 2345/2010).

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Più specificamente, il giudice nel valutare la deposizione della persona offesa è tenuto a verificare i requisiti di credibilità soggettiva ed oggettiva, evincendosi il primo dalla caratteristiche personali, morali e intellettive del teste, nonché dalla assenza di motivi di rancore o di astio verso l'imputato ed essendo ricavabile il secondo dalla genesi spontanea del racconto, dalla coerenza interna dello stesso e dalla concordanza con altri elementi fattuali acquisiti al processo (Cass. pen., Sez. V, 1666/2014).

In effetti, da questo ormai consolidato approccio giurisprudenziale di moderata cautela, sembrerebbe potersi affermare che la vittima, seppur circondata da un alone di sospetto, è collocata in una “posizione intermedia” tra i dicta resi da una persona estranea ai fatti e le chiamate di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p.

Si è fatto avanti un orientamento di legittimità secondo cui è necessario procedere al riscontro della testimonianza con altri elementi qualora l'escusso avanzi pretese di carattere civilistico all'interno del processo (Cass. pen., Sez. V, 15 maggio 2013, Calabrese, in Guida dir., 2013, 34-35, 69).

Qualche ultima considerazione va doverosamente, riservata alla deposizione del minorenne, soprattutto alla luce degli ultimi interventi normativi in materia. La legge n. 172 del 2012 – allo scopo di fronteggiare tutte le forme di manifestazione del fenomeno della pedofilia – ha dato attuazione alla Convenzione del Consiglio d'Europa (Lanzarote del 25 ottobre 2007) per la protezione di minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale.

Volutamente tralasciando tutte le significative innovazioni (sia di diritto sostanziale che processuale) apportate dalla legge in parola, ciò che interessa in questa sede è la previsione secondo cui è richiesta la necessaria presenza di un esperto in psicologia o psichiatria infantile ogni volta che debbano essere raccolte in fase investigativa (in assenza di contraddittorio, dunque non in incidente probatorio) le dichiarazioni di un minore “in relazione” a reati di abuso, violenza e sfruttamento sessuale. L'esperto deve essere presente non solo quando si escute la vittima del reato, ma in tutti i casi in cui debbano essere raccolte dichiarazioni di minori nell'ambito di procedimenti relativi ai reati indicati nell'art. 351, comma 1-ter, c.p.p. (come modificato dalla legge in parola). In particolare, la legge attuativa della Convenzione ha imposto l'affiancamento dello psicologo o dello psichiatra infantile introducendo il comma 1-ter all'art. 351 c.p.p., il comma 1-bis all'art. 362 c.p.p. ed il comma 5-bis all'art. 391-bis c.p.p. Così, l'intervento dell'esperto è necessario quando le dichiarazioni del minore sono raccolte dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria o dal difensore mentre nessun obbligo è previsto per il giudice che assume tale deposizione nel corso dell'incidente probatorio o in dibattimento. L'autorità giudicante, diversamente dal pubblico ministero e dagli altri soggetti del processo, può valutare caso per caso se la mediazione dell'esperto è necessaria. La ratio di questa diversità di trattamento risiede presumibilmente nel fatto che in dibattimento – così come in sede di incidente probatorio – l'esame è condotto nel rispetto del principio del contraddittorio tra le parti e queste ultime hanno la possibilità di controllare se giudice e controparte formulino domande di carattere suggestivo (o comunque condizionante) ad un soggetto vulnerabile quale è il minorenne. A rafforzare tale tesi, la circostanza che il compito assegnato all'esperto consiste proprio nel fornire un parere sull'avvenuto rispetto delle modalità di escussione del minore; in particolare, lo psicologo o lo psichiatra infantile devono verificare se le domande rivolte al testimone minorenne sono suggestive e se le risposte che ne scaturiscono sono spontanee e genuine.

Appare evidente che, con tale modifica, il legislatore ha cercato di individuare una soluzione che consentisse di “preservare” la genuinità delle dichiarazioni di un soggetto vulnerabile. In questo senso è stato introdotto l'affiancamento di uno psicologo o di uno psichiatra che facilita l'escussione del teste rendendo pienamente utilizzabile la deposizione per la decisione finale e garantendo le necessarie tutele del minore.

Pertanto, fermo restando che alla l. 172 del 2012 va sicuramente riconosciuto il merito di avere esteso il sistema di diritti e garanzie a protezione della vittima di delitti di abuso e sfruttamento sessuale anche allo scopo di evitare i c.d. fenomeni di vittimizzazioni secondarie scaturenti dal contatto del minore con la polizia giudiziaria e/o con il pubblico ministero, occorre evidenziare anche qualche aspetto critico.

Da un lato l'assistenza dell'esperto rappresenta una forma interessante di sostegno del minorenne, quando costui è chiamato a deporre nel corso di procedimenti penali per gravi delitti, ove il tasso di condizionamento del minore è elevato in specie se si tratta di vittima da reato, dall'altro l'inserimento di un numerus clausus di fattispecie penali per cui scatta l'obbligo della presenza del consulente sembra tuttavia frutto di un approccio eccessivamente formalistico. Non può negarsi, infatti, che le stesse esigenze si possono manifestare anche quando il teste minorenne viene escusso in processi aventi ad oggetto altre fattispecie criminose, come per esempio il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) o di atti persecutori (art. 612-bis c.p.).

In secondo luogo, qualche perplessità suscita la circostanza che le predette innovazioni sono indifferentemente dedicate ai minorenni a prescindere dal fatto che siano o meno “victims of crime”, quasi come se il legislatore fosse restio all'idea di fondare lo statuto della vittima e diversificarlo a seconda del livello di vulnerabilità che per i minori è di particolare intensità.

Aspetti critici

Ferma restando l'assoluta indispensabilità della testimonianza per la ricostruzione della vicenda processuale, occorre anche prendere atto che nel processo mnestico, funzionale alla deposizione in dibattimento possono intervenire più fattori di distorsione, anche indipendenti dalla coscienza e dalla volontà del soggetto interrogato, capaci di incidere negativamente sulla deposizione.

Sul punto, lo stesso Carnelutti sosteneva che «se si potesse conoscere il numero e la gravità delle ingiustizie, che il cattivo impiego della testimonianza ha determinato nei giudizi, civili e penali, ci sarebbe da inorridire». Il teste, infatti, può mentire in perfetta buona fede posto che il ricordo non è mai esatto e ciò significa che è sempre approssimativo, il che rende la testimonianza estremamente pericolosa in quanto anche un particolare può assumere sotto il profilo probatorio una importanza fondamentale.

In particolare, quindi, al di là della ipotesi penalmente rilevante in cui il dichiarante decida consapevolmente di mentire, vanno considerati altri fattori che possono indiscutibilmente condizionare la genuinità dell'elemento di prova che scaturisce dalla testimonianza: le condizioni, i termini e i limiti cui è soggetta la serie di operazioni mentali compiute da un individuo nel momento in cui percepisce stimoli sensoriali, li immagazzina, elabora e recupera, per poi comunicare in sede processuale determinati contributi informativi.

A ciò, deve poi aggiungersi che tutto quello che entra nel circuito mnestico è soggetto ad interpretazione, con la inevitabile conseguenza che possono entrare in gioco anche i bisogni e le emozioni del soggetto escusso.

Ma cosa più importante, pur volendo ipotizzare che l'originario processo di “metabolizzazione” della traccia avvenga senza alcuna interferenza o contaminazione, il materiale mnestico è soggetto ad una spontanea ed incontrollabile attività ricostruttiva che può causare modificazioni anche sostanziali nella competenza cognitiva dell'individuo interessato e, quindi, nella rappresentazione mentale del fatto.

Studi scientifici hanno rilevato che, nella escussione di soggetti minorenni, la deposizione potrebbe addirittura essere inquinata da fantasie, rielaborazioni errate o suggestioni anche involontarie.

Queste considerazioni vanno poi inevitabilmente calate nel nostro processo che fatica a garantire una concreta attuazione del principio della “ragionevole durata”. Ne consegue che il rischio che il deponente fornisca un contributo probatorio “non del tutto genuino” aumenta vertiginosamente. Se la prova infatti viene assunta a distanza di anni dal fatto, si corre seriamente il pericolo che i protagonisti, invece di ricordare lucidamente quanto hanno realmente visto o sentito, finiscano con il leggere un copione, come avviene nel caso degli agenti della polizia giudiziaria che leggono l'informativa e la ripetono pedissequamente.

In conclusione, fermo restando le considerazioni sin qui svolte, è comunque innegabile che la prova testimoniale, fondata sul metodo della cross examination, costituisce la più efficace fonte di convincimento processuale.

Casistica

Valutazione della testimonianza resa dalla persona offesa

Il controllo sulle dichiarazioni della persona offesa, considerato l'interesse del quale può essere portatrice, deve essere più rigoroso in specie se trattasi di minore e l'esame concerna fatti che possono interagire con i delicati aspetti della personalità come in materia di reati contro la libertà sessuale (Cass. pen., Sez. V,1666/2014).

In tema di violenza sessuale, la testimonianza della persona offesa vittima di siffatto reato, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova, purché la relativa valutazione sia sorretta da un'adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e dei risultati acquisiti (Cass. pen., Sez. III, 39405/2013).

Valutazione della testimonianza de relato

La testimonianza de relato è inutilizzabile solo quando sulla richiesta di parte il giudice non chiami a deporre il teste diretto, ma quando il teste diretto, chiamato, non abbia risposto, non sussiste più alcuna limitazione al valore probatorio delle testimonianze indirette, che devono essere configurate, al pari di ogni altra prova storica, come rappresentazione dello stesso fatto che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata attraverso il testimone indiretto e non come prova logica o indizio, dal quale desumere un fatto diverso. (Cass. pen., Sez. III, 529/2014; Cass. pen., Sez. III,9801/2006).

Testimonianza de relato e rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello

Sono utilizzabili, senza alcuna violazione dell'art. 195, comma 1, c.p.p., le dichiarazioni "de relato" qualora nel giudizio di primo grado la difesa non si sia avvalsa del diritto di esaminare la fonte della testimonianza indiretta; d'altra parte, la facoltà riconosciuta alla parte di richiedere nel giudizio di appello l'integrazione dell'istruttoria dibattimentale non può valere a consentire l'esercizio tardivo del diritto di accesso alla fonte del testimone indiretto e, pertanto, detta richiesta deve essere valutata secondo i criteri posti dall'art. 603 c.p.p. (Cass. pen., Sez. V, 50346/2014).

Deposizione della polizia giudiziaria

La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale del comma 4 dell'art. 195 c.p.p., ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), c.p.p., e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non sono state osservate. (Corte cost., 3 luglio 2008, n. 305).

Il divieto di testimonianza indiretta previsto per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dall'art. 195, comma 4, c.p.p. non si applica nell'ipotesi in cui il verbalizzante riferisca sulle attività di indagine svolte da altri ufficiali o agenti di P.G. nello stesso contesto investigativo. (Fattispecie di testimonianza resa in ordine a dati reperiti mediante l'accesso a banche dati, in parte diretto ed in parte mediato dall'intervento dei Comandi militari, per la quale la Corte, in applicazione del principio, ha affermato che questi ultimi non avevano esposto proprie precedenti percezioni sensoriali, ma si erano limitati a trasmettere dati oggettivi nella loro disponibilità e cui l'ufficiale di polizia giudiziaria non poteva accedere direttamente). (Cass. pen., Sez. II, 23005/2015).

Imputato in procedimento connesso o collegato assolto irrevocabilmente per non aver commesso il fatto

La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dei commi 3 e 6 dell'art. 197 bis c.p.p., nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l'assistenza di un difensore e l'applicazione della disposizione di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197 bis c.pp. nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” divenuta irrevocabile. (Corte cost., 21 novembre 2006, n. 381).

Dichiarazioni dell'indagato “archiviato” in procedimento collegato

Le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti principi:

1) non può assumere l'ufficio di testimone, senza il previo avviso di cui alla lettera c) del comma 3 dell'articolo 64 c.p.p. e senza il rispetto delle norme che regolano l'assunzione delle dichiarazioni del «testimone assistito», il soggetto che cumuli in sé le qualità di persona offesa dal reato e di imputato nei cui confronti non sia stata emessa sentenza irrevocabile (di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento), in un procedimento connesso a sensi della lettera c) del comma 1 dell'articolo 12 c.p.p., o relativo a un reato collegato a norma della lettera b) del comma 2 dell'articolo 371 del codice di procedura penale;

2) può assumere l'ufficio di testimone, senza il previo avviso di cui alla lettera c) del comma 3 dell'articolo 64 c.p.p. ma con il rispetto delle norme che regolano l'assunzione delle dichiarazioni del «testimone assistito», la persona offesa che sia anche imputata o indagata in un procedimento connesso a sensi della lettera c) del comma 1 dell'articolo 12 c.p.p. o relativo a un reato collegato a norma della lettera b) del comma 2 dell'articolo 371 c.p.p. dopo che nei suoi confronti sia stata emessa sentenza irrevocabile, salvo che tale sentenza sia di proscioglimento «per non aver commesso il fatto», nel qual caso non sussistono, come si è sopra accennato, i limiti di cui ai commi 3 e 6 dell'articolo 197-bis del codice di procedura penale;

3) la disciplina limitativa della capacità testimoniale di cui all'articolo 197, comma 1, lettere a) e b), all'articolo 197-bis e all'articolo 210 del c.p.p. non è applicabile alle persone sottoposte a indagini nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione perché nei confronti di questi soggetti non è mai stata elevata una imputazione. (Cass. pen., Sez. Un., n. 12067/2009).

Inosservanza del divieto di domande suggestive

In tema di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande suggestive di cui all'art. 499 c.p.p. in mancanza di una sanzione processuale, rileva soltanto sul piano della valutazione della genuinità della prova, che può risultare compromessa esclusivamente se inficia l'intera dichiarazione e non semplicemente la singola risposta fornita alla domanda suggestiva, ben potendo il giudizio di piena attendibilità del teste essere fondato sulle risposte alle altre domande. (Cass. pen., Sez. III., 4672/2014).

Falsa testimonianza e cause di esclusione della punibilità

In tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, a condizione che tale timore attenga ad un rapporto di derivazione del danno dal contenuto della deposizione, rilevabile sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto non applicabile la causa di esclusione della punibilità in relazione alla falsa testimonianza resa da due operai nel processo a carico del loro datore di lavoro per il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con riferimento all'occupazione di altro dipendente, non risultando dagli atti processuali alcuna situazione indicativa del pericolo per gli imputati di perdere il rapporto di lavoro in conseguenza di una corretta deposizione). (Cass. pen., Sez. VI., 16443/2015).

Sommario