Cristina Ingrao
25 Settembre 2017

Il diritto a essere liberi dalla tortura e da altri trattamenti disumani e degradanti è oggi un diritto umano tra i più protetti dall'ordinamento internazionale. Esso è, infatti, affermato in numerosi documenti sovranazionali ed internazionali, come la Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 5) del 1948 o il Patto internazionale per i diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976. Nel 1984, poi, il divieto di tortura è stato sancito espressamente da una apposita Convenzione, denominata, appunto, Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti (Cat), ratificata da 157 Paesi nel mondo.
Inquadramento

Il diritto a essere liberi dalla tortura e da altri trattamenti disumani e degradanti è oggi un diritto umano tra i più protetti dall'ordinamento internazionale. Esso è, infatti, affermato in numerosi documenti sovranazionali ed internazionali, come la Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 5) del 1948 o il Patto internazionale per i diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976. Nel 1984, poi, il divieto di tortura è stato sancito espressamente da una apposita Convenzione, denominata, appunto, Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti (Cat), ratificata da 157 Paesi nel mondo.

Il divieto di tortura, definito ormai norma di jus cogens, rientra tra i core rights considerati inderogabili anche in situazioni d'emergenza, così come espressamente previsto anche dall'art. 2, par. 2, di quest'ultima Convenzione, che precisa che nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o minaccia di guerra, di instabilità politica interna o qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura. Tale principio trova conferma anche nel diritto umanitario, ed in particolare nella III Convenzione di Ginevra, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, nell'art. 3 comune a tutte e quattro le Convenzioni, nonché nell'art. 75 del I Protocollo aggiuntivo, rubricato Garanzie fondamentali.

Le previsioni di matrice internazionale impongono, inoltre, agli Stati di assumersi in via diretta degli obblighi di controllo rispetto all'attuazione in concreto delle garanzie previste da tali strumenti normativi. La stessa Cat, ad esempio, prevede all'art. 11 che essi si facciano carico di esercitare una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio, nonché sulle disposizioni relative a custodia e trattamento di persone sottoposte in qualsiasi modo a limitazioni della propria libertà. Il successivo art. 12 introduce, poi, un ulteriore obbligo, complementare al primo, che richiede che venga garantita una indagine imparziale tutte le volte in cui vi sia motivo di ritenere che sia stato compiuto un atto di tortura, così come definito dall'art. 1.

Tale previsione si riscontra anche all'interno delle Convenzioni a tutela dei diritti fondamentali e, in particolare, nella Cedu che, grazie al combinato disposto degli artt. 1, 5 e 13, fonda un obbligo convenzionale di natura procedurale, finalizzato a rendere realmente effettiva la tutela dello Stato nei confronti anche delle vittime di tortura (MARCHI).

Nonostante l'obbligo per gli Stati parte della Cat di considerare la tortura come reato, essa è ancora oggi molto diffusa; in alcuni Paesi è strumento ordinario e sistematico di repressione criminologica o di oppositori politici, in altri si presenta come fenomeno isolato ed eccezionale. In particolare, i governi del mondo la utilizzano ancora per estorcere informazioni, ottenere confessioni, mettere a tacere il dissenso o semplicemente come forma crudele di punizione.

Solo per citare qualche dato, tra il 2009 e il 2014, sono state registrate torture ed altri maltrattamenti in 141 Paesi (fonte Amnesty International) ma è probabile che il numero effettivo sia più alto, tenuto conto del contesto di segretezza nel quale la tortura viene praticata.

L'Italia rientra fra gli Stati che, pur avendo ratificato la Convenzione, non hanno ancora provveduto ad introdurre nel proprio ordinamento il reato di tortura. Negli ultimi anni, però, a fronte, da un lato, della pressione di organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, e, dall'altro, degli interventi della Corte Edu di condanna del nostro Paese proprio per tortura, si sta facendo strada, come si avrà modo di precisare in seguito, seppur faticosamente, la concreta possibilità di introdurre nel nostro sistema giuridico il reato di tortura.

In evidenza

Fra gli strumenti di tortura (fonte Amnesty International):

  • i più comuni: sono elementari e brutali, come la mano, lo stivale, il manganello, ed in generale qualunque cosa possa causare ferite e rottura delle ossa;
  • i più avanzati consistono: nello sparare acqua frizzante nelle narici del detenuto; nell'appendere le vittime con i polsi e le caviglie a una barra in posizione rannicchiata, in modo da causare un grande sforzo ai polsi e alle spalle; nel legare i gomiti dei detenuti dietro la schiena e sollevarli; nel picchiare i detenuti mentre sono sospesi al soffitto agganciati per le mani, spesso con le braccia bloccate dietro la schiena, o ammanettati ai termosifoni o a sbarre di ferro attaccate al muro.
Il reato di tortura. Perché è necessario introdurlo nel nostro ordinamento

In una Carta costituzionale che non conosce altri obblighi di criminalizzazione, il reato di tortura è il solo ad essere imposto e preteso. Eppure, nonostante quanto prescritto dall'art. 13,comma 4, Cost. e dai relativi obblighi internazionali in materia a cui si è fatto cenno, nel codice penale persiste l'assenza di un'apposita fattispecie repressiva.

Il nostro Paese, peraltro, non è esente dalla tortura, come dimostrato ad esempio dai fatti della scuola Diaz del 2001 (v. INGRAO, Violazione del divieto di tortura: l'Italia condannata dalla Corte Edu per i fatti della scuola “Diaz- Pertini”); pertanto, la necessità di introdurre un reato che punisca tali pratiche, anche a seguito delle pronunce di condanna a carico dell'Italia da parte della Corte Edu, si fa sempre più forte.

Ciò anche a fronte dell'assenza di strumenti idonei a contrastare le stesse pratiche. Infatti, le norme incriminatrici esistenti nell'ordinamento nazionale in materia di percosse, lesioni personali, violenza privata e abuso di autorità contro persone arrestate o detenute, non consentono di applicare alle persone riconosciute come responsabili pene di severità adeguata alla gravità dei fatti, dal momento che le pene previste per tali reati si collocano in una fascia in cui sono pienamente applicabili quei meccanismi come la sospensione condizionale della pena, l'affidamento in prova ai servizi sociali o, ove possibile, l'indulto o l'amnistia, tradizionalmente considerati come strumenti di “fuga dalla sanzione”, che caratterizzano i reati di gravità medio-bassa e che non appaiono idonei ad esplicare un serio effetto deterrente.

Inoltre, la punibilità a querela della persona offesa che caratterizza taluni di tali reati costituisce un ostacolo al loro accertamento, in relazione al fisiologico timore di rappresaglie avvertito dalle vittime; a ciò si aggiunga il meccanismo della prescrizione, che rischia di travolgere i processi relativi a tali reati, per i quali è generalmente previsto l'ordinario termine di prescrizione di sei anni e che sono spesso caratterizzati da attività di accertamento complesse.

Alla luce di ciò, è evidente l'esigenza di introdurre nel codice penale una norma incriminatrice ad hoc, caratterizzata da un quadro edittale sufficiente ad assicurare un adeguato effetto deterrente nei confronti dei potenziali rei, in maniera tale, in ogni caso, da sottrarre il più possibile i processi al rischio della prescrizione (VIGANÒ).

In evidenza

Ai fini della elaborazione del reato di tortura indicazioni importanti sono fornite dalla Convenzione contro la tortura, adottata nel 1984 dalle Nazioni unite e, come già chiarito, ratificata dall'Italia ma mai trasposta con riguardo allo specifico obbligo di incriminazione (art. 4) delle condotte analiticamente descritte dal suo art. 1, che costituisce una vera e propria norma definitoria di ciò che per il diritto internazionale deve intendersi per tortura.

Ai sensi dell'art. 1 della citata Convenzione, in particolare, costituisce tortura any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanction.

Da tale definizione, pertanto, emerge che soggetto attivo è il pubblico ufficiale o other person acting in an official capacity. L'obbligo di incriminazione, però, è esteso dalla norma anche a soggetti privati che agiscano su istigazione ovvero con il consenso o l'acquiescenza degli agenti pubblici.

L'elemento oggettivo, invece, ruota attorno alla inflizione di grave dolore o sofferenza, fisica o mentale alla vittima, con la precisazione, però, che la definizione non copre il dolore e la sofferenza che necessariamente sono impliciti in una pena legalmente inflitta.

Per quanto attiene all'elemento soggettivo, esso è costruito attorno all'intenzionalità dell'inflizione di dolore e sofferenza, nonché attorno alla presenza di una serie di finalità specifiche che l'agente deve perseguire, fra cui quella di estorcere una confessione o comunque informazioni dalla vittima o da un terzo, o quella di punire la vittima per un atto che abbia commesso o si sospetti abbia commesso.

La definizione contenuta in tale norma, peraltro, è quella fatta propria anche dalla giurisprudenza della Corte Edu in sede di interpretazione del diritto a non essere sottoposti a tortura, di cui all'art. 3 Cedu. Diritto che copre, peraltro, un ambito più ampio di quello occupato dal concetto di tortura, estendendosi anche alle pene e ai trattamenti inumani e degradanti, i quali non sono oggetto di obblighi di incriminazione né ai sensi della Cat (che, al suo art. 16, prevede semplicemente l'obbligo, per ciascuno Stato parte, di prevenire nel suo territorio altri trattamenti inumani e degradanti che non ricadono nella definizione di tortura di cui all'art. 1), né ai sensi della giurisprudenza della Corte Edu, che mai ha richiesto che debbano essere punite le autorità nazionali responsabili della sottoposizione di detenuti a condizioni di sovraffollamento carcerario, che pure la Corte qualifica espressamente come trattamento inumano e degradante. (VIGANÒ),.

Il reato di tortura. Proposte legislative

Coma più volte chiarito, l'Italia ha aderito a numerosi documenti internazionali e sovranazionali (come la Dichiarazione universale dei diritti umani o la Convenzione dell'Onu contro la tortura, o, ancora, la Convenzione europea per la prevenzione della tortura) dai quali emerge in maniera chiara il divieto di tortura.

Più specificatamente, la Convenzione dell'Onu contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ratificata dall'Italia il 3 novembre 1988, impone agli Stati aderenti l'obbligo di considerare reato la tortura. Tuttavia, nonostante ciò, nel nostro Paese ancora oggi non esiste né una norma che recepisca tale disposizione, né il reato di tortura.

In verità, più volte negli anni, si è tentato di introdurre tale fattispecie criminosa attraverso proposte di legge che, per le più varie ragioni, non sono mai giunte all'approvazione definitiva.

Il primo disegno di legge per l'introduzione del reato in discussione nel nostro codice penale è stato presentato nell'aprile del 1989, subito dopo la ratifica della Convenzione; il secondo, invece, risale al febbraio del 1991. Entrambi i testi non sono furono sottoposti al voto dell'assemblea e negli anni successivi la tortura è stata del tutto dimenticata.

Altri tentativi di introduzione del reato si ebbero nel corso della XIII legislatura. In quel periodo vennero presentati vari disegni di legge, tra cui il n. 7283, che, però, si caratterizzava per il fatto di introdurre una circostanza aggravante e non un reato specifico di tortura. Anche in questo caso, nessuna proposta venne mai discussa in aula.

Altri tentativi si ebbero durante la XIV legislatura, nel corso della quale vennero presentati in Parlamento sette progetti di legge. Dopo il dibattito in commissione Giustizia venne proposto e calendarizzato in aula un testo di legge unificato, il disegno di legge n. 4990 (Pecorella). Tutte le proposte puntavano stavolta a creare un reato autonomo di tortura, sia come reato proprio del pubblico ufficiale, sia in altri casi come reato comune; tuttavia, ancora una volta, la discussione parlamentare non giunse mai a un approdo utile.

L'approvazione alla Camera di un emendamento al disegno di legge n. 4990 che introduceva il requisito della reiterazione delle violenze e delle minacce perché si potesse parlare di tortura, sollevò le critiche di numerose Organizzazioni non governative, perché l'introduzione di una figura di tortura reiterata nel codice penale italiano avrebbe rappresentato un unicum in materia di proibizione della tortura, non essendo il reato previsto in tale forma in nessun ordinamento democratico moderno. Il riconoscimento si sarebbe concretizzato in una sorta di "tolleranza" della tortura quando si fosse tradotta in un unico episodio, tolleranza inammissibile data l'inderogabilità del divieto di tortura sancito dagli strumenti internazionali. Tali critiche portarono all'abbandono del progetto.

Durante la XV legislatura, vennero presentati in Parlamento otto progetti sul reato di tortura. Le quattro proposte di legge presentate alla Camera furono unificate in un unico testo, approvato dall'assemblea nel dicembre del 2006. Tale proposta aveva lo scopo di introdurre nel codice penale due articoli. Il primo, contenente la norma incriminatrice, delineava la tortura come reato comune, con la previsione di un'aggravante se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, anche se non faceva riferimento a ipotesi di istigazione, complicità consenziente o mera acquiescenza rispetto alla commissione del crimine. La norma veniva collocata fra i delitti contro la persona, nell'ambito dei delitti contro la libertà morale, rimarcando così che la tortura si connotava non solo per la lesione dell'integrità fisica, ma anche e soprattutto per una forte componente di vessazione psicologica, sotto la grave forma della sistematica e preordinata umiliazione della vittima.

Si prevedeva che la violenza e le minacce dovessero essere gravi con conseguente difficoltà di valutazione. Il disegno di legge non è stato, però, mai adottato per la chiusura anticipata della legislatura, dovuta ad una crisi di governo.

Nel corso della XVI legislatura sono state avanzate 12 proposte di legge, che miravano tutte ad introdurre il reato di tortura, ma nessuna di esse è mai giunta neppure al dibattito in uno dei due rami del Parlamento.

L'attuale legislatura ha visto sin da subito interessanti proposte di legge in relazione al tema in esame. La discussione dei diversi testi è iniziata al Senato il 22 luglio 2013 per poi dar vita a un testo unificato presentato il 17 settembre alla relativa commissione Giustizia e approvato definitivamente in assemblea il 5 marzo 2014 con voto quasi unanime (in www.amnesty.it).

Il testo è poi passato alla Camera, che ha apportato delle modifiche. Dopo tali emendamenti è passato all'esame presso la Commissione Giustizia del Senato e lo scorso 17 maggio è stato approvato in aula, con ulteriori modifiche. Il disegno di legge torna ora nuovamente all'esame della Camera, per l'approvazione finale.

(Segue). Il testo originariamente approvato dal Senato

Il disegno di legge approvato dal Senato nel marzo 2014 intende proporre l'introduzione di due nuove fattispecie incriminatrici tra i delitti contro la libertà morale del Libro II, Sez. III. del codice penale: l'art. 613-bis, rubricato Tortura, e l'art. 613-ter, rubricato Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

Il primo prevede la pena della reclusione da tre a dieci anni per chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagion(i) acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa; nonché delle aggravanti nel caso di commissione del fatto da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle funzioni o del servizio, in ipotesi di lesioni personali (anche gravi e gravissime) ed in caso di morte della vittima.

Il secondo punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che istiga un altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, escludendo, pertanto, l'applicabilità della disciplina dell'art. 115 c.p.

Da un punto di vista processuale, la riforma prevede anche la modifica dell'art. 191 c.p.p. relativo alle prove illegittimamente acquisite, integrato con l'aggiunta del nuovo comma 2-bis, che impone il divieto di utilizzare informazioni o dichiarazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo contro le persone accusate di tale delitto ed al solo fine di provarne la penale responsabilità.

L'intento perseguito dai promotori del progetto di legge è quello di creare un perfetto coordinamento tra diritto e procedura penale per tutelare anche interessi di rilievo pubblicistico, allineando così il nostro Paese a quanto stabilito dall'art. 15 della Cat. La ratio sottesa alla modifica, infatti, può essere ricondotta a due ordini di considerazioni: da un lato, le informazioni o dichiarazioni assunte mediante tortura non possono essere ritenute sufficientemente attendibili per venire assunte come prova in un procedimento penale; dall'altro lato, la sanzione di inutilizzabilità dovrebbe rimuovere gli incentivi per l'utilizzo di tale pratica, contribuendo così a prevenirla.

Sul piano sostanziale, dunque, l'apparato normativo garantisce il rispetto del diritto del singolo individuo a non essere sottoposto a violenze o minacce quando si trova in una condizione di soggezione rispetto ad un terzo. Sul piano processuale, invece, intende presidiare un interesse collettivo alla integrità del giusto processo, oltre che dell'ordine costituzionale generalmente inteso (MARCHI).

Il testo, quindi, positivamente, introduce un reato specifico di tortura e non richiama il requisito della necessaria reiterazione degli atti di violenza o minaccia perché si possa parlare di tortura.

Quanto, invece, alle criticità, il reato è qualificato come comune e, pertanto, imputabile a qualunque cittadino, anche se prevede l'aggravante nel caso in cui sia commesso da un pubblico ufficiale; questo è stato possibile grazie all'approvazione di un emendamento proposto in fase di discussione che ha modificato il testo originario, che, invece, mirava a qualificare il reato di tortura come reato proprio, oltre che specifico, punibile solo se commesso da un pubblico ufficiale. Un'altra criticità del testo consiste nella non perseguibilità delle condotte omissive.

Inoltre, rispetto alla prima versione del disegno di legge, è stata eliminata la parte dell'art. 5 che prevedeva l'istituzione di un fondo nazionale per le vittime della tortura.

(Segue). Il testo modificato e approvato dalla Camera

Il testo così redatto è stato poi adottato, previe modifiche, dalla Camera dei Deputati, giovedì 9 aprile 2015. Peraltro, tale adozione è arrivata dopo la sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato l'Italia per le torture commesse dalla polizia alla scuola “Diaz- Pertini”, durante il G8 di Genova del 2001.

Le novità attengono innanzitutto alla pena, che passa da tre a quattro anni di reclusione nel minimo per l'ipotesi di base e vengono previste delle aggravanti nel caso in cui a torturare sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. In tal caso, la pena ora oscilla tra i cinque e i dodici anni di reclusione ma solo se la sofferenza inflitta è ulteriore rispetto all'esecuzione delle legittime misure privative o limitative dei diritti.

Se dal fatto deriva una lesione personale le pene sono ulteriormente aumentate: di un terzo se la lesione personale è grave, della metà in caso di lesione personale gravissima. Se, invece, dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è la reclusione fino a trenta anni. Infine, se la morte è causata da un atto volontario, la pena è l'ergastolo.

Il disegno di legge, poi, prevede delle novità anche per il reato di istigazione alla tortura. Esso vale solo per pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio; la pena è la reclusione da uno a sei anni, indipendentemente dal fatto che il reato di tortura venga poi effettivamente commesso. Ma è ora specificato che tale reato si applica al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 414 c.p. (Istigazione a delinquere). Tale norma riguarda chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati e prevede la sanzione, in caso di commissione di delitti, della reclusione da uno a cinque anni. In forza della clausola di salvaguardia in favore dell'art. 414 c.p., la nuova fattispecie di istigazione a commettere la tortura dovrebbe trovare applicazione solo nel caso in cui abbia luogo "pubblicamente".

Agli effetti della legge penale il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata (art. 266, comma 4, c.p.).

Novità riguardano anche la prescrizione. In relazione alla quale, se prima non interviene il processo, il reato è destinato a estinguersi in venti anni.

È esclusa l'immunità diplomatica con riguardo ai cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale ed è previsto il divieto assoluto di espulsione o respingimento verso Paesi che praticano la tortura.

Infine, qualsiasi dichiarazione o informazione estorta sotto tortura non sarà utilizzabile in un processo. Tali dichiarazioni varranno, però, come prova contro gli imputati di tortura.

(Segue). Il testo proposto dalla Commissione Giustizia del Senato

Il 7 luglio 2015 la Commissione Giustizia del Senato, al cui esame era stata sottoposta la proposta di legge in materia di introduzione del reato di tortura, ha provveduto nuovamente a modificare il disegno di legge in questione. Il testo proposto dalla Commissione Giustizia si caratterizza per un ritorno in parte all'impostazione originaria approvata dal Senato.

In particolare, diminuiscono le pene rispetto al testo voluto dalla Camera. Si torna, infatti, ad un minimo di tre anni di reclusione e ad un massimo di dieci anni (in precedenza dai quattro ai dieci) per "chiunque con reiterate violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa".

Nel caso, invece, dell'aggravante che a commettere tortura sia un pubblico ufficiale, la pena detentiva massima è stata ridimensionata da quindici a dodici anni. Infatti, nel testo approvato dalla Camera si legge che: "se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni"; mentre l'emendamento approvato prevede, invece: se tali fatti sono commessi da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni o da un incaricato di un pubblico servizio nell'esecuzione del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

Al contrario, resta immutato il passaggio che prevede la tortura solo nel caso in cui a subirla sia una persona privata della libertà personale o affidata alla custodia di un soggetto terzo. Un paletto, questo, che non ha mancato di sollevare dubbi già durante l'approvazione alla Camera, in quanto con questo specifico testo i fatti della scuola “Diaz- Pertini” di Genova, per quanto ben inquadrati dalla sentenza della Corte di Cassazione del 2012, e dalla successiva sentenza della Corte Edu dell'aprile scorso, non rientrerebbero nella fattispecie del reato.

Novità sono state previste anche per i respingimenti. Nel testo della Camera, infatti, come già visto, non si poteva attuare l'espulsione o il respingimento verso uno Stato dove lo straniero potesse essere oggetto di persecuzione, tale previsione secondo alcuni avrebbe impedito qualsiasi respingimento. Da qui si è introdotta l'inammissibilità del respingimento o dell'espulsione verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che la persona rischi di essere sottoposta a tortura.

(Segue). Il testo approvato dal Senato

Lo scorso 17 maggio il Senato, con 195 voti a favore, 8 contrari e 34 astenuti, ha proceduto all'approvazione del disegno di legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento. Rispetto al testo proposto dalla Commissione Giustizia del Senato, le cui coordinate sono state esposte nel paragrafo precedente, sono state apportate alcune modifiche.

Il testo, così come adottato, dovrà nuovamente tornare alla Camera per l'approvazione definitiva. A ben vedere, è dal marzo 2014 che il disegno di legge rimbalza tra i due rami del Parlamento.

Il nuovo art. 613-bis, in particolare, prevede al primo comma che "chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona".

Da quanto esposto emerge la conferma dell'innalzamento a 4 anni di reclusione della pena minima e la previsione del limite massimo edittale a 10 anni, così come previsto dal testo approvato dalla Camera. Il riferimento nella parte finale del comma al fatto commesso “mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, invece, è frutto di un'aggiunta avvenuta nel passaggio al Senato.

Nel secondo comma si legge che “se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni”. Viene, pertanto, mantenuta l'aggravante già prevista nelle versioni precedenti della norma nel caso in cui a commettere tortura sia un pubblico ufficiale, ma, rispetto al testo approvato dalla Camera, la pena massima è stata ridotta da quindici a dodici anni di reclusione. È, invece, stato soppresso l'inciso secondo cui “ai fini dell'applicazione del primo e del o secondo comma, la sofferenza deve essere ulteriore rispetto a quella che deriva dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”.

Il terzo comma, poi, precisa che “il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”.

Rimane confermato, inoltre, rispetto alle elaborazioni precedenti, che “se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.

Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo”. Nella versione del testo così come approvato dalla Camera era previsto più genericamente un aumento di due terzi della pena se dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta.

Con riguardo al reato di Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, di cui al successivo art. 613-ter, il testo voluto dal Senato risulta identico a quello adottato in prima lettura dallo stesso Senato. Nella specie, a differenza della disposizione approvata dalla Camera, viene meno la clausola di apertura “fuori dei casi previsti dall'articolo 414” e la pena ritorna ad essere compresa fra sei mesi e tre anni.

In materia di respingimenti viene confermato quanto già previsto nella proposta della Commissione Giustizia del Senato, e cioè, non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura.

I nuovi reati di tortura e di istigazione alla tortura. Analisi

All'approvazione del 17 maggio 2017 da parte del Senato ha fatto seguito, il 5 luglio scorso, la adozione in via definitiva da parte della Camera della legge 110/2017, che introduce nel nostro ordinamento il reato di Tortura, all'art. 613-bis c.p., e quello di Istigazione alla tortura, all'art. 613-ter c.p.

Tali nuove previsioni legislative richiedono qualche riflessione, in quanto se, da un lato, sembrano dare riscontro alle sollecitazioni derivanti dagli accordi internazionali e dalla giurisprudenza della Corte Edu, dall'altro, presentano qualche criticità, su cui appare opportuno soffermarsi.

La fattispecie delineata dall'art. 613-bis c.p., in generale, accoglie una nozione di tortura che si può qualificare a “disvalore progressivo”, in quanto il Legislatore ha inteso inglobare nel nuovo reato sia il fenomeno della c.d. tortura comune, posta in essere da chiunque, sia quello della c.d. tortura di Stato, collocata nel secondo comma della stessa disposizione (MARCHI, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. pen. cont.).

Il primo comma, in particolare, punisce con la reclusione da quattro a dieci anni «chiunque, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che comunque si trovi in condizioni di minorata difesa» ma solo se il fatto è commesso con più condotte o se lo stesso può definirsi trattamento inumano e degradante. Tale previsione rappresenta il nucleo essenziale delle scelte di politica-criminale effettuate dal legislatore nazionale.

La disposizione presenta degli elementi su cui appare utile soffermarsi.

In primo luogo, l'incipit utilizzato dal Legislatore (chiunque) ci consente di qualificare il reato in esame come comune. Tuttavia, esso implica, quale elemento essenziale del disvalore del fatto, che tra la vittima e il soggetto agente vi sia un rapporto qualificato in termini di assistenza, controllo, vigilanza o custodia, idoneo, come tale, ad imporre certi obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della vittima.

Nella disposizione, inoltre, si rinviene la locuzione privato della libertà personale, che sembra accogliere l'obbligo costituzionale di incriminazione ex all'art. 13, comma 4, Cost., relativo alla limitazione della libertà in forza di un provvedimento giurisdizionale.

Lascia, invece, perplessi l'utilizzo nella stessa disposizione della nozione di minorata difesa in termini di caratterizzazione della vittima di tortura, per i contorni sfumati che possiede e che lasciano aperti ampi margini di discrezionalità interpretativa.

Il comma secondo della disposizione, invece, come accennato, disciplina la c.d. tortura di Stato e punisce con la reclusione da cinque a dodici anni il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione, commette i fatti di cui al precedente comma.

Al nostro ordinamento penale mancava soprattutto la previsione di questo tipo di tortura, sotto forma di tortura giudiziaria, punitiva o discriminatoria. Si tratta di ipotesi per cui a livello internazionale da tempo si richiedeva da più parti non solo la criminalizzazione, ma anche la garanzia di una punizione effettiva degli autori.

La condotta descritta prevede il requisito dell'abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti alla funzione e, pertanto, tiene conto del fatto che gli agenti pubblici sono legittimati all'utilizzo della forza, se proporzionata e necessaria per l'espletamento delle proprie funzioni. Lo stesso non si può dire in relazione alla tecnica normativa utilizzata.

Il Legislatore ha, infatti, conferito al capoverso dell'art. 613-bis c.p. una natura difficilmente classificabile dogmaticamente. Nella specie, ad una prima lettura, il rinvio espresso per la descrizione della condotta di cui al comma 1 della fattispecie, potrebbe far propendere per l'introduzione di una aggravante speciale di natura indipendente, legata alla presenza della qualifica. Tale scelta potrebbe, però, esporre il nostro ordinamento alle censure della Corte Edu per la inefficacia, anche sul piano general-preventivo, della sanzione inflitta.

Infatti, se è indubbio che la tortura perpetrata da un rappresentante dello Stato non è solo un qualcosa di diverso, ma rappresenta un quid pluris rispetto a quella del cittadino, il rischio di porre nel nulla il disvalore aggiuntivo connesso alla diversa cornice sanzionatoria è più che concreto se si considera la piena operatività della disciplina del bilanciamento tra circostanza eterogenee, ex art. 69 c.p. (MARCHI, Il delitto di tortura, cit.).

Altre criticità si rinvengono, poi, nel terzo comma dell'art. 613-bis c.p., che recita: «il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti».

Tale precisazione, infatti, se certamente è utile a delimitare l'ambito di punibilità del reato di tortura, rischia di creare dubbi interpretativi, tenuto conto della struttura della fattispecie in cui è inserita.

Essa, infatti, può apparire superflua, vista la presenza di scriminanti codificate, da sole sufficienti ad escludere l'antigiuridicità della condotta del pubblico ufficiale in occasione dell'esecuzione dei propri doveri istituzionali (si pensi all'adempimento di un dovere, ex art. 51 c.p.). Tuttavia, non può non rilevarsi come la nozione di sofferenze del comma terzo sia diversa e non sovrapponibile rispetto al concetto di acute sofferenze fisiche e verificabile trauma psichico, quali eventi alternativi descritti dal primo comma dell'art. 613-bis c.p.: le prime rispetto ai secondi sono caratterizzate da un livello inferiore di intensità, proprio per distinguerle rispetto alle condotte che possono rilevare ai sensi del primo comma.

Più verosimilmente, il comma in esame va interpretato quale elemento in favore della ricostruzione dei fatti commessi dal soggetto qualificato quale fattispecie autonoma di reato, tenuto conto della scelta legislativa di accogliere due diverse nozioni di tortura nella stessa fattispecie.

A sostegno di tale impostazione si pone anche la formulazione dell'aggravante di cui al comma quarto, che prevede aumenti diversi di pena a seconda della gravità della lesione cagionata alla persona offesa e che fa riferimento alle pene di cui ai commi precedenti. Se il secondo comma ne condividesse la natura ci troveremmo di fronte ad una improbabile aggravante di una aggravante.

Altro aspetto suscettibile di critica del nuovo reato di tortura è quella relativo alla descrizione della condotta.

Per la sussistenza del delitto di cui all'art. 613-bis c.p., in particolare, è necessario che l'agente ponga in essere violenze o minacce gravi, ovvero che agisca con crudeltà. Tali azioni sono valide ad integrare il reato di tortura solo se il fatto è commesso mediante più condotte o se può essere definito trattamento inumano e degradante.

Stando così le cose, l'utilizzo dei termini al plurale violenze o minacce non rende punibile il singolo atto di violenza o minaccia, anche se idoneo a cagionare uno degli eventi descritti dalla fattispecie. In questo modo, il Legislatore, probabilmente alla ricerca di una soluzione di compromesso, ha snaturato il reato, inserendo quale requisito modale espresso la reiterazione delle condotte, tanto da rendere il delitto oggetto di analisi un reato abituale. Tuttavia, tale formulazione palesa una scarsa conoscenza delle forme più moderne di tortura e l'ignoranza di numerosi casi di cronaca che hanno dimostrato, invece, come la tortura spesso venga commessa in un unico contesto spazio-temporale.

L'aggettivo gravi, poi, desta alcuni dubbi per la sua scarsa determinatezza descrittiva, tanto che parte della dottrina aveva suggerito di rinunciare a tale specificazione per prediligere la caratterizzazione, in termini di gravità o particolare intensità, degli eventi causalmente connessi alle pratiche di tortura.

L'unico elemento della fattispecie che lascia margini per qualificare la tortura come reato eventualmente unisussistente, arginando così il problema già evidenziato, è l'agire con crudeltà, che comunque ai fini della propria rilevanza penale deve essere qualificabile anche come trattamento inumano e degradante ove, però, i due aggettivi non sono alternativi, come previsto dall'art. 3 Cedu ma sono, invece, cumulativi.

Anche questa coppia concettuale, purtroppo, presta il fianco a critiche per il forte deficit di determinatezza di cui è portatrice e per la palese confusione tra livelli diversi di disvalore d'azione.

Il concetto di crudeltà, infatti, è conosciuto dall'ordinamento penale solo in termini di circostanza aggravante di carattere soggettivo. La situazione si aggrava se si guarda alla interpretazione che ne fornisce oggi la giurisprudenza di legittimità, che l'ha definita come caratterizzata da «una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo» (MARCHI, Il delitto di tortura, in Dir. pen. cont. cit.).

In tal modo, si chiede all'interprete di identificare la condotta penalmente rilevante analizzando le concrete modalità di azione ma anche facendo ricorso ad un ragionamento indiziario, come strumento per l'indagine sull'atteggiamento interiore dell'agente, da cui desumere la efferatezza, insensibilità o gratuità delle sofferenze inferte, snaturando il suo ruolo.

Per quanto attiene all'evento, invece, il reato di tortura ne prevede due alternativi, ossia acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, che consentono di introdurre nell'ambito di punibilità della fattispecie solo quelle azioni particolarmente violente e deprecabili, legate ad una pratica efferata e disumanizzante, che giustifica il quadro sanzionatorio stabilito dal legislatore.

Se il concetto di acute sofferenze fisiche può destare qualche preoccupazione sempre in termini di determinatezza, perché è idoneo ad introdurre nel processo contenuti emotivi, il vero elemento critico è quello sancito dal verificabile trauma psichico.

In particolare, occorre riflettere sul termine verificabile. Nella specie, se con esso si intende fare riferimento alla necessità di prova in sede processuale, allora la sua portata è ridondante; al contrario, se il concetto di trauma psichico viene inteso come un qualcosa di più rispetto ad un mero disturbo o stato transitorio di shock post-traumatico, allora la prospettiva cambia. Tale aggettivo finirebbe per modificare la propria incidenza sul tipo penale, introducendo nel processo la necessità di provare la sussistenza di un obiettivo riscontro medico del trauma subito a seguito di violenza morale, nei termini quantomeno di disturbo della personalità.

Si apre, pertanto, un doppio orizzonte interpretativo.

Il primo, basato sul riconoscimento dell'autonomia concettuale dei termini utilizzati, che permetterebbe un'applicazione più estensiva della fattispecie. Questa impostazione, inoltre, permetterebbe di risolvere i problemi connessi alla difficoltà di raccogliere prove sufficienti, se dai fatti all'accertamento è decorso un sensibile lasso di tempo, ma, allo stesso modo, farebbe perdere di specificità il reato di tortura, con il rischio di invertire l'onere della prova circa la sussistenza dell'evento, condizionando la configurabilità del fatto tipo alla prospettiva della vittima.

La seconda interpretazione, più rigorosa, condurrebbe ad una applicazione restrittiva della fattispecie, limitata solo ai casi di disturbi medicalmente accertabili. Questa impostazione, tuttavia, non sarebbe idonea a dare rilievo agli effetti delle più moderne tecniche di tortura, idonee a creare disturbi anche solo transitori, con la possibilità di far ritenere il nostro ordinamento non pienamente in linea con l'obbligo di incriminazione della tortura di matrice internazionale.

Passando, infine, brevemente all'analisi dell'elemento soggettivo, in principio era stato determinato quale dolo specifico, in ossequio ad una frettolosa traduzione della definizione proposta dal Cat, oggi, invece, il reato di tortura per configurarsi richiede il solo dolo generico, al fine di rendere più agile sotto il profilo processuale il raggiungimento della prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

In conclusione, un cenno merita anche la nuova fattispecie di Istigazione alla tortura, di cui al successivo art. 613-ter c.p., che sembra contenere una deroga, per la gravità del fatto-reato, al fatto istigatorio ex art. 115 c.p., non escludendo la punibilità per l'istigazione non accolta, o accolta senza commissione dell'illecito, prevedendo la pena della reclusione, e ritenendo, pertanto, insufficiente l'applicazione della misura di sicurezza.

Le altre novità della legge 110/2017 connesse all'introduzione del reato di tortura

La legge 110 del 2017 ha, poi, previsto una disposizione procedurale che, novellando il codice di rito, stabilisce l'inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l'autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

Inoltre, la riforma coordina con l'introduzione del reato di tortura l'art. 19 del Testo unico immigrazione (d.lgs. 286/1998), prevedendo il divieto di espulsioni, respingimenti ed estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura.

Orientamenti a confronto in relazione alla vicenda della scuola "Diaz - Pertini"

Tribunale di Genova, 13 novembre 2008, n. 4252

Accerta che l'operazione di polizia era stata organizzata come una spedizione punitiva contro i manifestanti e che i fatti posti in essere durante l'irruzione presso la scuola Diaz costituivano una violazione palese e lampante della legge, della dignità umana e del rispetto delle persone. Inoltre, gli organi di polizia non avevano cooperato efficacemente ai fini dell'identificazione dei responsabili e avevano, addirittura, costruito false prove allo scopo di giustificare a posteriori la perquisizione e l'impiego della violenza.

Corte di appello Genova, 18 maggio 2010, n. 1530

Dispone non doversi procedere per l'intervenuta prescrizione di diversi delitti, ma conferma la ricostruzione fattuale offerta dai giudici di primo grado. Secondo i giudici d'appello, infatti, gli agenti di polizia avevano sistematicamente percosso gli occupanti [il plesso scolastico] in un modo sadico e crudele, impiegando anche manganelli non regolamentari”. Inoltre, il tentativo di giustificare a posteriori l'irruzione ha costituito una ”impudente messa in scena” ed il “carattere sistematico e preordinato delle violenze da parte della polizia [...] ha denotato [...] un comportamento consapevole degli operanti.

Corte di cassazione, 5 luglio 2012, n. 38085

Condivide la ricostruzione fattuale operata in precedenza, ma i delitti di lesioni aggravate vengono dichiarati prescritti. Al riguardo, la suprema Corte rileva che la condotta delle forze di polizia non avrebbe potuto essere qualificata come tortura in assenza di una fattispecie penale ad hoc, con la conseguenza, inevitabile, di dichiarare la prescrizione per i delitti contestati.

Corte Edu, 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ric. n. 6884/11

Dichiara fondato il ricorso.

La Corte europea rammentati i tradizionali criteri in forza dei quali si è in presenza di una condotta a tal punto violenta da integrare la nozione di tortura, riprende le ricostruzioni fattuali elaborate dai giudizi nazionali e sottolinea come, in occasione dell'irruzione delle forze di polizia all'interno del plesso scolastico “Diaz-Pertini”, le brutali percosse siano state inflitte al ricorrente in modo totalmente gratuito, tenuto anche conto della mancanza di un nesso di causalità fra il comportamento di quest'ultimo e l'uso della forza da parte della polizia nei momenti immediatamente precedenti l'arresto.

Per la Corte, inoltre, non può giustificarsi in alcun modo l'operato della polizia: nella condotta degli agenti, infatti, non può sicuramente essere ravvisato uno strumento proporzionato al raggiungimento degli scopi di ordine pubblico cui miravano gli operanti. Del resto, depongono in tal senso non solo la finalità punitiva dell'irruzione nel plesso scolastico, ma anche i tentativi delle autorità pubbliche nazionali di giustificare, a posteriori, la perquisizione locale e gli arresti di coloro che si trovavano nella scuola, anche mediante la costruzione di prove false.

Ne consegue che la polizia italiana, attraverso l'adozione di modalità operative non conformi all'ineludibile necessità di rispettare i valori protetti dall'art. 3 Cedu, ha contravvenuto all'obbligo negativo, discendente dalla medesima previsione convenzionale, di evitare comportamenti lesivi del diritto all'integrità personale (CASSIBA).

In conclusione, per la Corte, non vi è dubbio, che l'insieme delle circostanze fattuali indichino che i trattamenti contrari al senso di umanità subiti dal ricorrente debbano essere qualificati come tortura.

Tortura e giurisdizione. Causa Jones c. Regno Unito

Un aspetto fortemente discusso in materia di tortura attiene al profilo giurisdizionale ed alla questione della immunità dello Stato di fronte a una giurisdizione straniera.

Il 14 gennaio 2014 la Corte Edu si è pronunciata in materia, nella causa Jones c. Regno Unito, (ric. nn. 34356/06 e 40528/06).

La vicenda traeva origine da un ricorso presentato da quattro cittadini britannici che nel 2000-2001 erano stati arrestati e torturati in Arabia Saudita, nonché falsamente accusati di avere partecipato ad una campagna di bombardamenti a Riad.

Una volta rientrati in patria i quattro intraprendevano azioni legali nel Regno unito, sia nei confronti dello Stato saudita, nella persona del Ministro dell'interno, sia nei confronti degli individui considerati responsabili delle torture subite.

Tuttavia, nessuna delle varie azioni legali, finalizzate al risarcimento del danno, aveva avuto esito positivo. Tutte le denunce presentate, infatti, erano state rigettate sulla base della dottrina della immunità dello Stato. In particolare, secondo i giudici inglesi nessuna delle denunce presentate era accoglibile, in quando lo Stato (l'Arabia Saudita nel caso di specie) gode di immunità davanti alle corti di uno Stato terzo (il Regno Unito nel caso in esame), così come i suoi funzionari.

Avverso tale decisione i quattro britannici proponevano ricorso alla Corte di Strasburgo, per violazione dell'art. 6, par. 1, Cedu, in forza del quale ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.

La Corte europea, però, con la sentenza in commento, non da ragione ai ricorrenti, ritenendo non sussistente una violazione dell'art. 6 della Cedu da parte del Regno unito. In particolare, per i giudici di Strasburgo, l'approccio adottato dalle corti britanniche nei vari gradi di giudizio non sarebbe stato sbagliato, nonostante gli stessi giudici riconoscano che lo stato del diritto internazionale in materia di immunità dello Stato sia in divenire. Attraverso tale decisione, quindi, trova conferma la posizione già assunta dalla Corte Edu nel caso Al-Adsanidel 2011, secondo cui riconoscere l'immunità dello Stato estero non costituisce una restrizione ingiustificata del diritto di adire una corte.

La decisione è stata, però, oggetto di forti critiche. Innanzitutto perché la Corte europea, nell'affermare che nessuna violazione del diritto di adire una corte fosse stata integrata dai giudici inglesi, non ha considerato se vi fossero o meno alternative a disposizione dei ricorrenti.

Come nel precedente del 2011, infatti, i giudici della Corte Edu si sono limitati ad affermare che occorre verificare, in linea di principio, che le limitazioni applicate al diritto di accedere a una corte, in virtù del riconoscimento dell'immunità, non restringano o riducano l'accesso ad un giudice per il ricorrente ma, a fronte di tale affermazione, nessuna analisi è stata condotta per verificare se nel caso di specie vi fossero effettivamente alternative percorribili dai ricorrenti per ottenere un risarcimento per le torture subite in Arabia Saudita.

Un altro aspetto fonte di critiche attiene, poi, alla portata della immunità ratione materiae di cui godono gli Stati davanti alle corti interne degli Stati terzi. Nel caso oggetto di discussione, in particolare, i giudici hanno esteso tale immunità in modo da ricomprendere anche le eventuali responsabilità di funzionari statali.

Anche sotto questo specifico profilo, tuttavia, la Corte afferma che vi è un crescente favore verso le posizioni che riconoscono l'esistenza di una regola speciale o di un'eccezione in diritto internazionale pubblico per i casi concernenti cause civili promosse contro funzionari statali, almeno in materia di tortura.

Argomenti in favore della irrilevanza delle immunità ratione materiae nei confronti dei singoli funzionari statali accusati di avere commesso torture sono ricavabili, peraltro, dalla più recente prassi in materia penale. In particolare, si fa riferimento al fatto che l'immunità (davanti alle corti di uno Stato terzo) non si concilia con il concorrente obbligo dello Stato di esercitare la giurisdizione universale su quel medesimo caso; nonché al significato del riconoscimento del principio della responsabilità penale individuale in campo internazionale. Che la tortura costituisca un crimine internazionale che comporta la responsabilità penale diretta dei suoi autori, anche davanti alle corti nazionali, non può essere messo in dubbio.

Inoltre, non convince il ragionamento dei giudici per cui posto che un atto non può essere compiuto dallo Stato in quanto tale, ma solo da individui che agiscono per conto dello stesso, quando lo Stato può invocare l'immunità, la stessa, ratione materiae, dovrà applicarsi agli atti di tortura commessi dai suoi funzionari. Tale conclusione non è corretta già dal punto di vista del diritto internazionale, il quale non solo riconosce la tortura come un atto attribuibile all'individuo, ma obbliga gli Stati ad identificare e punire i singoli individui responsabili di torture.

Alla luce di ciò appare, pertanto, auspicabile che la Corte possa riesaminare presto la questione in seno alla Grand Chamber, per dirimere le questioni irrisolte e restringere una interpretazione troppo estensiva della portata dell'immunità, che rischia di non tutelare le vittime e lasciare impuniti i colpevoli (MELONI).

Guida all'approfondimento

CASSIBA, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola “Diaz-Pertini”, in Dir. pen. cont.;

CASALE, A proposito dell'introduzione del nuovo delitto di tortura ex art. 613-bis c.p. Il (discutibile) recepimento interno del formante giurisprudenziale europeo e degli accordi internazionali, in Archivio penale;

MARCHI, Luci ed ombre del nuovo disegno di legge per l'introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano: un'altra occasione persa?, in Dir. pen. cont.;

MARCHI, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. pen. cont.

MELONI, Una importante sentenza della Corte EDU in materia di tortura e immunità dello Stato di fronte a una giurisdizione straniera, in Dir. pen. cont.;

VIGANÒ, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la camera dei deputati, in Dir. pen. cont.

Sommario