Uso legittimo delle armi
05 Febbraio 2016
Inquadramento
L'art. 53 c.p. esclude la punibilità del pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. Ai sensi dell'art. 53 c.p. non è, altresì, punibile, qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. La legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica. Il ricorso alle armi o ad altro mezzo di coazione è giustificato, sulla base del tenore testuale dell'art. 53 c.p., in presenza di talune condizioni:
Fondamento giuridico
Il fondamento giuridico della norma è stato rinvenuto prima nel principio di sovranità e di supremazia dello Stato sul cittadino, poi nella tutela del prestigio della Pubblica Amministrazione e delle persone che esercitano una pubblica funzione. Successivamente, con la caduta del regime autoritario e l'entrata in vigore della Costituzione, si è posta la necessità di un'interpretazione restrittiva conforme ai principi democratici e costituzionali per cui attualmente la sua ratio si riconduce al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, più specificamente, alla necessità di consentire al pubblico ufficiale l'uso delle armi al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio e di tutelare gli interessi cui tendono i suoi doveri funzionali, in particolare quelli relativi alla sicurezza e incolumità dei cittadini. L'uso delle armi, pertanto, si ricollega al potere di coazione dello Stato, tipica espressione della sua sovranità e del connesso principio di esecutorietà degli atti amministrativi. In particolare rappresenta un'ipotesi di esercizio dell'autotutela esecutiva della pubblica amministrazione, attraverso la quale la pretesa dell'Amministrazione viene soddisfatta con il ricorso diretto all'uso della forza per rimuovere l'ostacolo frapposto dal cittadino alla realizzazione degli scopi a cui tende l'Autorità. Parte della dottrina ritiene che l'art. 53 c.p., quando sussistono tutti i requisiti richiesti, conferisce un'autorizzazione al pubblico ufficiale all'utilizzo della forza perché si pone come fonte di attribuzione di un potere in campo amministrativo. Secondo altra parte il principio di determinatezza imporrebbe di rintracciare la fonte del potere non nella scriminante generica, ma in specifiche norme di settore che fissano le competenze dei pubblici ufficiali incaricati dell'esecuzione dei provvedimenti amministrativi. Rapporti con le altre scriminanti
La scriminante ha carattere autonomo e sussidiario. Ciò si evince dalla clausola di riserva riportata in apertura della norma, che estende la liceità dell'utilizzo delle armi e di altri mezzi di coazione fisica da parte del pubblico ufficiale a tutti i casi in cui non sono ravvisabili i presupposti della legittima difesa e dell'adempimento del dovere. La prevalente dottrina ritiene che l'uso legittimo delle armi svolge una funzione integrativa e specificativa rispetto all'adempimento del dovere, perché è lo stesso art. 53 c.p. la fonte dell'adempimento coattivo del dovere funzionale (derivante da norma giuridica). Si differenzia, inoltre, dalla legittima difesa perché il soccorso difensivo è facoltativo (l'art. 52 c.p., infatti, tutela beni individuali) mentre l'uso delle armi, nei limiti previsti, è doveroso (l'art. 53 c.p. protegge, invece, beni superindividuali). I soggetti legittimati
La disposizione è classificata come causa di giustificazione propria perché possono invocarla solo i soggetti specificamente individuati dalla stessa: il pubblico ufficiale e qualsiasi persona che, legalmente richiesta da quest'ultimo, gli presti assistenza. Pertanto per esplicita indicazione legislativa non rientrano nell'ambito di applicazione della disposizione gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità. Secondo l'impostazione prevalente il riferimento ai pubblici ufficiali deve essere inteso in senso restrittivo rispetto alla generale definizione contenuta nell'art. 357 c.p. (ovvero solo nella parte in cui è definita pubblica la funzione che si svolge mediante l'utilizzo di poteri autoritativi). È necessario, infatti, interpretare la norma valorizzando le finalità per cui è giustificato l'uso della coazione. Il disposto dell'art. 53 c.p., pertanto, concerne esclusivamente i pubblici ufficiali per i quali è istituzionalmente prevista la possibilità, per la realizzazione dei doveri funzionali, dell'uso della forza. Si tratta dei pubblici ufficiali che fanno parte della c.d. forza pubblica, che s'individua in tutti quegli organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta su persone e cose ai fini della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e, quindi, vi rientrano, per la tipicità delle loro funzioni rivolte alla tutela diretta di quei beni, gli appartenenti al ruolo della polizia di Stato ai quali non spetta più la qualifica di militari (Cass. pen., Sez. VI, 25 giugno 2009, n. 38119). Sono ricompresi, dunque, nell'ambito della c.d. forza pubblica:
Secondo l'indirizzo maggioritario, infine, l'art. 53 c.p. si applica alla polizia municipale. È stato osservato, infatti, che sebbene quest'ultima ha compiti istituzionali di polizia amministrativa, e non di polizia di sicurezza o di polizia giudiziaria, l'art. 57, comma 2, lett.b) c.p.p., però, riconosce la qualifica di agente di polizia giudiziaria alle guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio e nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e che il loro servizio istituzionale comprende accanto a funzioni tipicamente amministrative anche le funzioni di pubblica sicurezza inerenti alla vigilanza ed al controllo del territorio. Pertanto l'uso legittimo delle armi può trovare applicazione solo nell'ambito dei compiti di ordine pubblico che derivano alla polizia locale da un atto formale (ad esempio: il riconoscimento prefettizio, che autorizza il vigile urbano al porto d'arma per difesa personale, o la precettazione prefettizia, che eccezionalmente attribuisce alle guardie delle province e dei comuni la qualifica di agente di ordine pubblico). In merito Cass. pen., Sez. VI, 25 giugno 2009, n. 38119.
Ai sensi del comma 2 dell'art. 53 c.p. può invocare la scriminante anche qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. In merito alla specifica individuazione di questi soggetti si sono formati due orientamenti:
La richiesta di collaborazione deve precedere l'intervento del privato (non può consistere in una ratifica successiva) e deve essere manifestata in modo esplicito anche senza bisogno di particolari requisiti formali, purché effettuata in presenza dei presupposti sostanziali che autorizzano l'uso della coercizione o delle armi (in questo senso va interpretato l'inciso legalmente contenuto nell'art. 53, comma 2, c.p.). Di conseguenza il privato che presti la propria assistenza di sua iniziativa o che lo faccia a favore di un soggetto che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale (e ciò nonostante faccia uso di armi o di altri mezzi di coazione) non beneficia della scriminante perché è sempre necessario che sussista la competenza del pubblico ufficiale ad intervenire con l'uso della forza. La situazione necessitante
Le condotte descritte dall'art. 53 c.p. sono scriminate in quanto indispensabili a respingere una violenza o a vincere una resistenza dell'autorità o anche – sulla base delle aggiunte introdotte nel testo della norma dall'art. 14, l. 22 maggio 1975, n. 152 - per impedire la consumazione di una serie di delitti contro l'ordine pubblico particolarmente gravi e tassativamente elencati dalla norma stessa. Le prime due situazione legittimanti l'uso delle armi sono la violenza e la resistenza, che devono essere attuali, altrimenti non sussisterebbe la necessità di usare le armi. In merito all'individuazione delle relative definizioni ai sensi dell'art. 53 c.p. si sono formati due orientamenti. Secondo un primo indirizzo il contenuto dei due concetti deve essere interpretato in senso restrittivo per cui si attribuisce rilievo solo alle condotte di violenza e resistenza tali da tradursi in fatti dotati di rilevanza penale ai sensi degli artt. 336 e 337 c.p. In particolare rientrano nella nozione di resistenza tutte le condotte attive destinate ad ostacolare il pubblico ufficiale nell'adempimento del dovere, mentre sono escluse la mera resistenza passiva o la fuga. Secondo un'altra impostazione, invece, i termini sono utilizzati in una accezione generica ed ampia:
In giurisprudenza dapprima si è sostenuto che la resistenza è solo quella che si estrinseca in una condotta violenta o comunque attiva, tale da ostacolare il pubblico ufficiale nell'adempimento del dovere, perché ci si riferiva all'interpretazione del termine data in riferimento all'art. 337 c.p., dove si individua in una condotta aggressiva, minacciosa ed intimidatorio (negano la rilevanza della resistenza passiva e della fuga ai fini della applicazione dell'art. 53 c.p.: Cass. pen., Sez. IV, 15 febbraio 1995, n. 2148; Cass. pen., Sez. I, 28 gennaio 1991; Cass. pen., Sez. IV, 14 marzo 1989; Cass. pen., Sez. I, 16 maggio 1978 specifica che non è riconducibile alla resistenza passiva la fuga armata). Successivamente l'indirizzo è mutato. Si è asserito che quando le modalità di fuga sono tali da porre in pericolo l'incolumità di terze persone l'uso delle armi è legittimo se è opportunamente graduato secondo le esigenze del caso e nel rispetto del principio di proporzione e se non è possibile ricorrere ad un altro mezzo di coazione di pari efficacia ma meno rischioso (Cass. pen., Sez. IV, 7 giugno 2000, n. 9961, dove si asserisce l'irrilevanza della distinzione fra resistenza attiva e passiva e la necessità di dare rilievo (pure in assenza di espressa previsione) al criterio di proporzione, tenendo comunque presente che al pubblico ufficiale, nell'adempimento del proprio dovere, non è riconosciuta – come nel caso della legittima difesa – una opzione di rinuncia o di commodus discessus). Di conseguenza la fuga non impedisce al pubblico ufficiale di usare le armi tutte le volte che l'uso sia necessario, avuto riguardo al criterio di proporzionalità tra gli interessi in conflitto e precisamente tra il rischio di danno al fuggitivo ed a terzi ed il contenuto del dovere di ufficio da adempiere (secondo Cass. pen., 2 maggio 2003, n. 20031 in virtù dell'applicazione dell'art. 2, comma 2, Cedu l'uso delle armi è sempre legittimo per effettuare l'arresto legale di un soggetto in fuga con modalità tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità. La pronuncia, però, è stata oggetto di alcune critiche). Infine la Cassazione con la sentenza 13 ottobre 2003 n. 15271 ha specificato che quando l'uso dell'arma sia finalizzato a bloccare la fuga di malviventi si deve ritenere che sussista la proporzione, ove per le specifiche modalità con le quali i fuggitivi cercano di sottrarsi alla cattura siano ragionevolmente prospettabili in aggiunta all'avvenuta commissione di reati, al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, rischi attuali per l'incolumità e la sicurezza di terzi; verificandosi tale ipotesi, ed accertata quindi la legittimità dell'uso dell'arma, nella specifica forma prescelta dal p.u., non può farsi poi carico a quest'ultimo dell'evento diverso e più grave da lui prodotto, rispetto a quello preventivato, quando tale evento non sia riconducibile a negligenza o imperizia, ma all'ineludibile componente di rischio che l'uso dell'arma in sé comporta. Da ultimo la Cass. civ., Sez. III, 22 maggio 2007, n. 11879, sembrerebbe ritornata sui suoi passi asserendo che siccome il fondamento e la giustificazione della disposizione dell'art. 53 c.p. consistono nella necessità di consentire al pubblico ufficiale l'uso delle armi al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, è da considerarsi legittimo l'uso dell'arma solo in presenza della necessità di respingere una violenza o superare una resistenza attiva, le quali richiedono l'impiego della forza fisica o morale e non sono perciò configurabili nel caso di fuga, che realizza solo una resistenza passiva, se non effettuata con modalità che mettano a repentaglio l'incolumità del terzo.
L'ultima situazione legittimante l'uso delle armi è stata introdotta con l. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. legge Reale), e concerne il c.d. soccorso difensivo della forza pubblica per impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. Secondo un indirizzo dottrinario il pubblico ufficiale avrebbe potuto invocare la scriminante in caso di strage, disastro ferroviario etc. anche prima dell'aggiunta operata dalla l. 152/1975. La funzione dell'intervento normativo, infatti, sarebbe stata quella di confermare la scriminante, e non di estenderne l'ambito di applicazione, sia perché il soccorso difensivo a tutela di terzi è già previsto dall'art. 52 c.p., sia perchè il concetto di violenza da respingere, integra di per sé, il comportamento esecutivo dei vari delitti specificati espressamente dal legislatore. L'espressione impedire la consumazione, inoltre, sembra implicare che debba essere in atto il tentativo di commettere uno dei delitti specificamente indicati, ma se è in atto un tentativo di commettere uno dei delitti indicati, gli atti univoci e idonei alla consumazione con i quali inizia l'esecuzione del delitto e che costituiscono la materia del tentativo, integrano perfettamente una condotta caratterizzata dalla violenza e, di conseguenza, le aggiunzioni della legge Reale (l. 152/1975) risultano inutili o superflue posto che già il testo originario dell'art. 53 c.p. autorizza il pubblico ufficiale appartenente alla forza pubblica a respingere una violenza in atto. Secondo un'altra impostazione la disposizione assume una funzione autonoma, in base alla quale l'uso delle armi per impedire la consumazione di tali reati dovrebbe essere ammesso in una fase antecedente a quella in cui si ravvisano gli elementi dell'idoneità ed univocità degli atti, propri del tentativo (atti meramente preparatori). Sarebbe, infatti, sufficiente il convincimento, desunto da fatti sintomatici, che la commissione di uno dei delitti indicati sia prossima, anche se non sono ancora stati compiuti gli atti idonei e univoci diretti a commetterlo. L'uso delle armi da parte degli ufficiali della forza pubblica sarebbe dunque legittimato già dal ragionevole convincimento che uno dei delitti specificati stia per essere commesso; ciò perché, data la rilevante gravità dei delitti in questione, anche senza il requisito dell'attualità del pericolo concreto, le esigenze di sicurezza giustificherebbero l'anticipazione dell'intervento armato impeditivo. Tale interpretazione suscita qualche perplessità, in quanto consentirebbe la reazione armata anche in caso di mancanza di un effettivo pericolo. Per una ulteriore orientamento la disposizione introdotta dalla c.d. legge Reale (l. 152/1975) non amplia il novero dei casi a cui è riferibile l'art. 53 c.p. ma si limita ad operare un'anticipata valutazione di proporzionalità, già in astratto, dell'uso delle armi per impedire la consumazione dei delitti più gravi, risolvendo a priori il bilanciamento a favore dell'interesse pubblico al loro impedimento. La reazione necessitata
La condotta giustificata consiste nell'uso o nell'ordinare di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica. La norma richiede che tale reazione sia necessaria e non il frutto di una libera scelta: il pubblico ufficiale non deve avere altra opzione, per adempiere il proprio dovere, che usare il mezzo coercitivo. L'espressione costretto dalla necessità, infatti, significa che il pubblico ufficiale è posto di fronte all'alternativa tra respingere una violenza o di vincere una resistenza e il non adempiere al proprio dovere. Attraverso il termine costretto, inoltre, il legislatore ha voluto chiarire che, in ogni caso, l'uso legittimo delle armi costituisce l'extrema ratio, cui si può fare ricorso soltanto quando il fine di adempiere il proprio dovere non può raggiungersi in altro modo, salvaguardando sempre l'integrità fisica degli individui (es.: ricorrendo all'uso di idranti, lacrimogeni etc.). La scriminante non si configura, pertanto, se gli ostacoli che si frappongo all'adempimento del dovere sono eliminabili diversamente rispetto all'utilizzo delle armi. L'accertamento del parametro della necessità, che accomuna la scriminante in esame a quelle previste dagli artt. 52 e 54 c.p., attiene da un lato il profilo oggettivo della sussistenza di un collegamento tra la situazione necessitante e l'uso della forza per adempiere il dovere del proprio ufficio, dall'altro quello soggettivo-decisionale, per cui il pubblico ufficiale si è determinato ad agire perché costretto dalla violenza da respingere, dalla resistenza da vincere, ecc. La valutazione dello stato di costrizione da parte del pubblico ufficiale si opera facendo riferimento al fine del perseguimento dell'interesse pubblico, rappresentato dall'adempimento del dovere dell'ufficio. Anche in riferimento alla costrizione si ripropone la questione se si sia in presenza di un presupposto oggettivo, con la conseguenza che non sarebbe necessario che il pubblico ufficiale si senta psicologicamente forzato all'uso delle armi né che si rappresenti necessariamente l'esistenza della violenza o resistenza, o di un requisito soggettivo, destinato ad avere inevitabilmente un riflesso nella psiche dell'agente. Secondo parte della dottrina la previsione del requisito della necessità ed il principio di proporzione comportano anche l'esigenza di una gradualità nella scelta dei mezzi utilizzati: ove siano sufficienti mezzi coercitivi più blandi per assicurare l'adempimento dei propri doveri funzionali, va evitata l'utilizzazione di quelli più drastici (o addirittura delle armi) in quanto, appunto, non necessaria. La stessa espressione armi o altri mezzi di coazione fisica e le ipotesi speciali a cui rinvia il comma 2 dell'art. 53 c.p. implicano il riferimento al principio di gradualità. Inoltre, poiché la necessità è legata all'adempimento del dovere d'ufficio occorre che gli strumenti di coazione siano tali da consentire di opporsi alla violenza o alla resistenza ma non compromettano la realizzazione del compito ascritto al pubblico ufficiale (ad es. il fine di procedere all'arresto di un soggetto in fuga è incompatibile con la sua uccisione). Nel caso in cui si scelga un mezzo “sproporzionato” rispetto alla situazione concreta a causa di un eccesso colposo si applicherà l'art. 55 c.p. Per quanto attiene alla nozione di armi si rinvia all'art. 585, comma 2, c.p. che ne contiene la definizione agli effetti della legge penale. Secondo una tesi, inoltre, tale concetto deve essere inteso in senso restrittivo perché occorre evidenziare il collegamento strutturale tra l'utilizzo dei mezzi lesivi e l'adempimento del dovere. Di conseguenza sarebbero ricomprese nell'ambito di applicazione dell'art. 53 c.p. solo le armi indicate nelle disposizione di servizio della forza pubblica, mentre non sarebbe ammesso l'utilizzo di quelle personali. Infatti, se la titolarità dell'ufficio esclude l'uso delle armi, il pubblico ufficiale non potrà impiegare, ad es., una pistola privata. In merito ai mezzi utilizzati (altri mezzi di coazione fisica), la dottrina ritiene che la genericità del termine usato dall'art. 53 c.p. consente di fare riferimento a qualsiasi mezzo produttivo di effetti lesivi o coercitivi che si caratterizza per un possesso regolare e meno aggressivo e a cui la forza pubblica ricorra per l'espletamento dei suoi compiti istituzionali e a disposizione (rientrerebbero nel campo applicativo della norma lo sfollagente, candelotti lacrimogeni, fumogeni, cani addestrati antidroga o anticontrabbando, il ricorso a “cariche” in servizi di ordine pubblico e i casi in cui le armi non siano utilizzate secondo la loro destinazione naturale ma come minaccia, come nel caso degli spari intimidatori e, in generale, le forme di coazione psichica). L'oggetto materiale sul quale la forza pubblica esercita la sua azione può essere sia un bene materiale sia una persona, identificata nel soggetto che esercita la violenza o la resistenza, ecc. Il fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio
L'utilizzo di armi o di altri mezzi di coazione è ammesso solo se necessario per il perseguimento di finalità attinenti alle funzioni istituzionalmente assegnate al pubblico ufficiale ovvero per eliminare un ostacolo all'assolvimento del dovere da adempiere. Ciò significa che egli deve trovarsi nello svolgimento di un'attività doverosa e non meramente facoltizzata. In dottrina si dibatte se tale requisito debba essere interpretato in senso soggettivo o oggettivo. Secondo il primo orientamento, infatti, tale finalità deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte del soggetto che ricorre all'uso delle armi. Dall'accoglimento di tale impostazione discendono due conseguenze:
Per altra impostazione, invece, l'espressione utilizzata dalla legge deve essere intesa in senso oggettivo, perché sottolinea l'esigenza che l'uso della armi sia strettamente connesso con l'adempimento dei doveri funzionali. Il fine, quindi, costituisce un limite oggettivo-funzionale dell'attività in concreto svolta, non rilevando le personali motivazioni dell'agente. Attraverso il fine la legge circoscrive l'uso delle armi ai soli casi in cui sia funzionale all'adempimento di un dovere e seleziona le azioni delle forza pubblica che possono essere ritenute legittime perché realizzano oggettivamente interessi pubblici. Entrambe le tesi concordano nel ritenere che l'eventuale coesistenza di motivi personali e di quello impersonale relativo al perseguimento del dovere di ufficio rende in ogni caso possibile la applicabilità dell'art. 53 c.p., come anche nel reputare che non sia coperta dalla causa di giustificazione una condotta ispirata esclusivamente a moventi di vendetta e rappresaglia e non caratterizzata anche dalla obiettiva esigenza di adempiere un dovere dell'ufficio. La proporzione
Ai fini dell'operatività dell'art. 53 c.p. è necessario che sussista un rapporto di proporzione fra la condotta del pubblico ufficiale e quella di chi si oppone all'adempimento dei doveri d'ufficio. Anche se non espressamente menzionato dalla norma, infatti, è unanimemente considerato dalla dottrina un requisito autonomo ed implicito della scriminante. La sua previsione si desume dall'ordinamento giuridico in generale e soddisfa da un lato la necessità di dare piena applicazione al principio del bilanciamento di interessi contrapposti alla luce della situazione concreta, immanente all'intero ordinamento giuridico ed in particolare al settore delle cause di giustificazione, dall'altro l'esigenza di superare l'originale vocazione autoritaria dell'art. 53 c.p., rendendolo compatibile con l'attuale sistema costituzionale. La proporzione costituisce un limite generale di operatività della causa di giustificazione superato il quale il diritto di autotutela diventa abuso del diritto. La sua interpretazione ha inciso sull'ambito applicativo della scriminante. In giurisprudenza si sono formati due orientamenti. Inizialmente, infatti, la proporzione, quale requisito di legittimità, si applicava in riferimento al rapporto tra mezzo coattivo impiegato e quello a disposizione e non tra i beni in conflitto. Ciò perché si reputava che il legislatore avesse già valutato come prevalente l'interesse pubblico all'adempimento del dovere da parte dell'Autorità rispetto a quello del privato alla tutela alla sua integrità fisica. Successivamente la Cassazione ha mutato l'indirizzo e ha chiarito che la proporzione non attiene solo alla legittimità dell'operato del pubblico ufficiale ma anche alla gradazione nell'uso delle armi, poiché il destinatario del predetto uso non è sempre il soggetto che oppone violenza o resistenza. Nel concetto di proporzione rientra, infatti, anche l'utilizzo persuasivo o intimidatorio dell'arma o la direzione dei colpi verso cose o mezzi di cui tale soggetto si avvale per realizzare la condotta da reprimere. L'applicazione del criterio della proporzione è risultato fondamentale soprattutto nei casi di resistenza passiva o di fuga. In considerazione di quest'ultimo si è ritenuta giustificata la reazione armata quando la violenza nei confronti dell'autorità fosse particolarmente grave o comunque tale da mettere in pericolo la vita o l'incolumità dell'agente di forza pubblica o di terzi (ad es. nel caso di fuga accompagnata da uso delle armi da parte del fuggitivo). Nell'ipotesi di semplice fuga non accompagnata da uso delle armi da parte del fuggitivo si è, invece, escluso, in ogni caso, che si possa sparare con lo scopo di uccidere (c.d. colpo mirato) ed è stato ritenuto proporzionato solo un uso dell'arma finalizzato a bloccare la fuga senza determinare rischi particolarmente elevati per l'incolumità del fuggitivo o di terzi (ad es.: sparare alle gomme dell'auto, mirare alle gambe del fuggitivo ecc.). I casi particolari di uso legittimo delle armi
Il terzo comma dell'art. 53 c.p. stabilisce che la legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l'uso dell'arma o di altro mezzo di coazione fisica. Secondo un orientamento la disposizione ha una disciplina autonoma rispetto a quelle dei primi due commi per cui in queste ipotesi non è necessario che ricorrano i requisiti di respingere una violenza o di vincere una resistenza. Per un atro indirizzo, invece, le norme che disciplinano i casi richiamati delineano situazioni di adempimento del dovere a cui si applica l'art. 53 c.p. Si ritiene che il criterio della proporzione dovrebbe comunque operare anche negli altri casi di uso delle armi ai quali rinvia all'art. 53,ultimo comma, c.p. e che sono contenuti nella legislazione speciale. Tra i casi in cui la legge consente l'uso delle armi, rientrano:
In merito alla legittimità di ricorrere alle armi nell'ambito di un istituto penitenziario si distingue tra vigilanza interna ed esterna. Nel primo caso l'art. 41, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 stabilisce che nel carcere è consentito solo l'uso della forza fisica ma non delle armi, per fronteggiare atti di violenza, impedire evasioni o vincere resistenze, anche passive, agli ordini impartiti. Gli agenti penitenziari in servizio possono portare armi solo in casi eccezionali e su autorizzazione del direttore (art, 41, comma 4, l. 354/1975). Nel secondo si ritiene applicabile l'art. 169, comma 1, n. 3 del r.d. 30 dicembre 1937, n. 2584, Regolamento per il Corpo degli agenti di custodia degli istituti di prevenzione e di pena, in base al quale l'agente è legittimato ad usare le armi in due casi:
L'eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi presuppone l'esistenza di tutti gli elementi e di tutte le condizioni della scriminante reale (che esclude l'antigiuridicità) o putativa (che esclude il dolo) e consiste nell'oltrepassare per errore i limiti imposti dalla necessità, concretandosi nell'eccesso nell'uso dei mezzi (Cass. pen., Sez. I, 30 settembre 1982). L'esimente putativa dell'uso legittimo delle armi può ravvisarsi quando l'agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che ove fosse stata realmente esistente egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi. Non si applica, invece, quando l'errore non investe i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione o una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificante, ma si risolve in un errore di diritto, sfociante nell'erronea ed inescusabile convinzione che la situazione (nella specie: un uomo in fuga) nella quale l'agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante, giacché diversamente si finirebbe con il considerare inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale, posto dall'art. 5 c.p. secondo cui l'ignoranza (inescusabile) della legge non scusa. (Fattispecie in cui un carabiniere, allo scopo di arrestare la fuga di un ciclomotorista che non aveva ottemperato all'invito di fermarsi, aveva esploso vari colpi d'arma da fuoco in direzione delle gomme del veicolo ed uno di tali colpi, rimbalzando, aveva attinto il conducente cagionandone la morte, Cass. pen., Sez. IV, 5 giugno 1991). Casistica
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