Gioco e scommesse
18 Maggio 2016
Inquadramento
Il gioco e la scommessa, in quanto fenomeni di peculiare rilevanza sociale, costituiscono da sempre oggetto di interesse e di analisi. La disciplina in materia di gioco e scommessa è disseminata sia nella legislazione statale che in quella degli enti locali, attesa la mancata previsione di un'armonizzazione normativa a livello comunitario. Il nucleo centrale della questione prospettata riguarda la necessità di contemperare i diversi valori, tutti di rilevanza costituzionale, che animano il settore dei giochi e delle scommesse. Vengono in rilievo: da un lato, la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica; dall'altro, la tutela della libertà di iniziativa economica privata e del contraente debole. La tematica assume maggiore pregnanza alla luce dei principi comunitari, sicché si proverà ad offrire un quadro attuale della disciplina vigente. Il gioco e la scommessa: elementi comuni e differenziali
Il gioco e la scommessa sono caratterizzati dal requisito dell'aleatorietà, attesa l'incertezza del vantaggio o dello svantaggio economico derivante dallo svolgimento dell'attività. Il gioco implica una competizione fra due o più persone, regolata da norme convenzionali, il cui esito, legato spesso a una vincita in denaro, dipende dalla maggiore o minore abilità dei singoli contendenti e dalla fortuna, mentre la scommessa viene comunemente intesa come la sfida, fra due o più persone, con riferimento alla verità di un fatto, o di un'affermazione, oppure con riferimento al verificarsi di un evento già accaduto ma ignoto ai contendenti o da verificarsi nel futuro. Tuttavia intercorre una netta differenza tra il gioco e la scommessa. Nel gioco, infatti, l'esito della competizione dipende – oltreché dalla fortuna – dalla maggiore o minore abilità del giocatore; al contrario, nella scommessa il comportamento del soggetto non ha alcuna rilevanza circa il verificarsi o meno dell'accadimento da cui dipenderà la vincita o la perdita. Il regime giuridico del gioco e della scommessa
Il gioco. Si è soliti distinguere le sale da gioco da quelle da biliardo. La disciplina (di entrambe) è contenuta: nel r.d. 773/1931 (Tulps); nel r.d. 635/1940 (regolamento Tulps); nel d.l.13 settembre2012,n.158 convertito con modifiche con legge 8 novembre 2012, n. 189; nella l. 388/2000; nel d.l. 29 novembre 2008, n. 185; nella l. 27 dicembre 2002, n. 289; nei Regolamenti comunali – Decreti Direttoriali dell'A.A.M.S. Per sala da giochi s'intende un locale destinato a giochi leciti effettuati mediante: apparecchiature da svago, divertimento ed intrattenimento azionabili mediante gettoni, con comandi manuali o con funzionamento meccanico, elettrico, elettronico, video games, laser games, slot machines; giochi con le carte e simili che non diano diritto a vincite in denaro; sono ammessi tavoli da ping-pong e biliardi purché accessori alla attività principale di sala giochi e non prevalenti rispetto alle altre attrazioni; la sala da biliardo, invece, è un locale ove il gioco avviene con prevalenza dell'uso di biliardi dei vari tipi consentiti e regolamentati (con buche e senza buche, per carambola, per stecca, ecc.). L'esercizio di sale pubbliche da gioco e/o da biliardo necessita: 1) della licenza del questore, ai sensi dell'art. 86 del Tulps; 2) del nulla osta dell'amministrazione finanziaria ovvero dell'Ufficio regionale o sede distaccata dell'Autorità dei Monopoli di Stato (oggi Agenzie delle Dogane e dei Monopoli), preposte alla cura degli interessi erariali e patrimoniali dello Stato nonché alla salvaguardia dei soggetti deboli (si pensi, a titolo esemplificativo, ai minorenni); 3) dell' autorizzazione comunale, che deve tutelare la concorrenza, garantendo al contempo l'ordine pubblico all'interno del comune. Il legislatore, inoltre, impone a tutti coloro che intendono dare avvio ad una sala da biliardo o da gioco – sia essa pubblica, che privata – di esporre una tabella (vidimata dal questore) nella quale sono indicati, oltre ai giochi d'azzardo, quelli che la stessa autorità ritiene di vietare nel pubblico interesse, nonché le prescrizioni e i divieti specifici che ritiene di disporre nel pubblico interesse (ex art. 110 Tulps). Non a caso, infatti, le eventuali trasgressioni sono punite con una sanzione amministrativa pecuniaria o, nei casi più gravi, con la sospensione dell'attività.
La scommessa. Un discorso in parte diverso va fatto con riferimento alle scommesse. Queste ultime, infatti, si distinguono in: 1) scommesse tutelate (si pensi, ad esempio, a quelle dipendenti dall'esito di una gara sportiva) che, comportando la nascita di un'obbligazione civile, consentono l'azione in giudizio per il pagamento della posta promessa (ex art. 1934 c.c.); 2) scommesse vietate ai sensi degli artt. 718 ss. c.p., che generano una responsabilità penale in capo all'agente; 3) scommesse non proibite ma tollerate, che determinano la nascita di un'obbligazione naturale e che, quindi, non attribuiscono alcuna azione (da far valere in giudizio) al soggetto interessato (emblematico, all'uopo, appare l'art. 1933 c.c.); L'art. 88 Tulps precisa che la licenza per l'esercizio delle scommesse può essere concessa esclusivamente a soggetti concessionari o autorizzati da parte di Ministeri o di altri enti ai quali la legge riserva la facoltà di organizzazione e gestione delle scommesse, nonché ai soggetti incaricati dal concessionario o dal titolare di autorizzazione in forza della stessa concessione o autorizzazione. Le licenze vengono concesse solo previa verifica delle capacità tecniche da parte dei soggetti interessati e, soprattutto, mediante procedure di gara aperte alle quali possono partecipare anche operatori con sede in altri Stati membri dell'Ue. Lo Stato, infatti, sanziona penalmente la condotta di coloro che violano la normativa suesposta (ex art. 4 l. 401/1989). La giurisprudenza di legittimità, sul punto, afferma che al fine della configurabilità del reato di esercizio abusivo di scommesse, riferito ad attività gestite dal CONI, è sufficiente che venga posta in essere una qualsiasi attività connessa o finalizzata allo svolgimento di dette scommesse, anche se non gestita in prima persona ed anche se priva dei requisiti della professionalità (Cass. pen., Sez. III, n. 35470/2012). Ed aggiunge che non fa venire meno il rilievo penale della condotta la circostanza che l'attività svolta in Italia sia riferibile alla collaborazione con un “bookmaker” straniero il quale opera in un paese in cui essa non costituisce reato, poiché, a norma dell'art. 6 c.p., essendo stata realizzata nel territorio nazionale parte della condotta criminosa, deve ritenersi applicabile la legge penale italiana (Cass. pen., Sez. IV, n. 20375/2010). Tuttavia, secondo la suprema Corte, il reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommesse (di cui all'art. 4, comma 1,l. 13 dicembre 1989, n. 401) si configura solo in relazione alle manifestazioni di “sorte” di maggiore importanza, per le quali è necessaria l'autorizzazione dell'AAMS, mentre dette attività “minori” non rilevano penalmente in quanto sono soggette a semplice comunicazione preventiva (es. manifestazioni a premio a fini di promozione commerciale; manifestazioni di sorte locali) per le quali, ove si rilevi una violazione di legge, trovano applicazione le sanzioni amministrative previste dall'art. 124 o dall'art. 113 bis del R.D.L. 19 ottobre 1938, n. 133 (Cass. pen., Sez. III, n. 3816/2008). Ciò posto, è doveroso sottolineare che il legislatore, pur contemplando la possibilità (come precedentemente osservato) di affidare in concessione a terzi l'attività di gioco e di scommessa, disegna un sistema fondato sul monopolio – ex art. 43 Cost. – dello Stato (escludendo, quindi, la libertà di iniziativa economica privata). La ragione che giustifica tale assunto si rinviene nella peculiarità degli interessi coinvolti nel settore del gioco e della scommessa “quali le esigenze di contrasto del crimine e, più in generale, di ordine pubblico, di fede pubblica, la necessità di tutela i giocatori, di controllo di un fenomeno che è suscettibile di coinvolgere flussi cospicui di denaro a volte di provenienza illecita (Tar Lazio, Sez. II, 31 maggio 2005 , n. 4296).
Il potere del giudice in caso di contrasto tra norme interne e comunitarie
La tematica del potere del giudice penale in caso di contrasto tra norma interna e comunitaria rappresenta uno dei punti nevralgici del sistema. Ai fini di una corretta perimetrazione della portata applicativa dei principi contenuti nel Trattato, è opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dai rapporti intercorrenti tra l'ordinamento comunitario e l'ordinamento nazionale. Sul punto, l'orientamento prevalente – tanto in seno alla giurisprudenza nazionale, quanto in seno a quella comunitaria – afferma che, stante il riconoscimento del principio della primauté del diritto comunitario sul diritto interno, le norme comunitarie direttamente applicabili (si pensi, ad esempio, ai regolamenti o alle direttive self-executing) producono effetti immediati e diretti nell'ordinamento degli Stati membri, non necessitando di alcuna intermediazione normativa di adattamento (Cfr. C.G.E., 5 febbraio 1963, C-26/62 Van Gend & Los; C.G.E., 15 loglio 1964, C-6/64 Costa c/Enel; C.G.E., 9 marzo 1978, C-106/77 Simmenthal). Alla luce del tratteggiato quadro normativo, ci si è interrogati sull'eventuale portata che assume il contrasto che tra una norma interna e una norma comunitaria (originaria o derivata). Ebbene, in tali casi, viene in rilievo il potere disapplicativo ad opera del giudice nazionale della norma di diritto interno. La disapplicazione, come noto, comporta la sospensione dell'efficacia della norma, non già la sua abrogazione. Ed infatti, nel caso in cui il giudice nazionale accerti che una determinata fattispecie è diversamente disciplinata dalla norma nazionale e dalla norma comunitaria, dovrà innanzitutto disapplicare la norma interna, attesa la primautè del diritto comunitario sul diritto nazionale. Tuttavia, qualora sorgessero dubbi sull'interpretazione della norma comunitaria, potrà risolverli sollevando la questione pregiudiziale sull'interpretazione della norma dinnanzi alla Corte di Lussemburgo. Il rinvio pregiudiziale, dunque, risulta un precipitato del principio del primato del diritto comunitario sugli ordinamenti interni. É opportuno precisare che a godere di questo primato sono unicamente le norme comunitarie dotate di efficacia diretta. Rispetto alle norme prive di tale carattere, infatti, è precluso al giudice il potere di disapplicare la norma interna confliggente con la norma comunitaria, sicché egli sarà tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost.
Particolarmente significativa appare la controversia sorta in merito alla punibilità dei soggetti che, anziché rispettare l'attuale normativa nazionale, esercitano l'attività di raccolta, accettazione, prenotazione e trasmissione di proposte di scommesse, in assenza di concessione o autorizzazione rilasciata dallo Stato membro interessato. Prima di addentrarci nel vivo dell'analisi, è d'uopo sottolineare che la nostra legislazione è improntata ad un sistema di controlli di tipo amministrativo così pregnante da collidere, spesso, con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 Trattato. La ratio giustificatrice di tali controlli risiede - ancora una volta - nella peculiarità degli interessi coinvolti nel settore delle scommesse. Più in particolare, il legislatore avverte l'esigenza non solo di tutelare il consumatore, mettendolo al riparo dalle possibili frodi, ma anche di salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica. Come noto, infatti, il settore delle scommesse è preso di mira dalle organizzazioni criminali, che lo utilizzano per riciclare denaro “sporco” e che potrebbero, per questi motivi, mettere in pericolo interessi generali. Il legislatore, infatti, punisce - come precedentemente osservato - la condotta di colui che, sprovvisto di concessione, autorizzazione o licenza ai sensi dell'art. 88 Tulps, esercita abusivamente un'attività di gioco e scommessa (ex art. 4 l. 401/1989). È quanto accaduto – a titolo esemplificativo – in merito al quesito sottoposto alla C.G.Ue. dal tribunale di Ascoli Piceno del se integra reato il fatto di chi, sfornito del titolo abilitativo prescritto dal legislatore nazionale, collabora sul territorio italiano con un bookmaker straniero (con il quale è collegato via Internet) all'attività di raccolta di scommesse di regola riservata per legge allo Stato.
La Corte di cassazione, a Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, nn. 23271 e 23272/2004), al fine di conformarsi all'indirizzo ermeneutico suggerito dalla C.G.Ue, ha disposto che le restrizioni eventualmente disposte dalla normativa italiana devono rinvenire il proprio fondamento nei motivi generali e devono, pertanto, giustificarsi in funzione degli obiettivi perseguiti dall'ordinamento nazionale (pena la contrarietà delle stesse all'ordinamento comunitario). Il supremo Collegio ha aggiunto che queste devono, altresì, risultare coerenti e proporzionate allo scopo da realizzare. In base a tali considerazioni, dunque, la giurisprudenza di legittimità, pur riconoscendo che la riduzione delle occasioni di gioco non può assurgere a motivo di interesse generale, ritiene legittime le limitazioni fissate dal legislatore nazionale. Ciò sul presupposto che le scommesse costituiscono un settore particolarmente sensibile, che interferisce con l'ordine e la sicurezza pubblica e che deve, per questo, essere posto al riparo dagli attacchi della criminalità organizzata che, con forza, tenta di impossessarsi della gestione delle predette attività. La controversia, dopo l'intervento della Corte di cassazione riunita nel suo più autorevole Consesso, è stata sottoposta nuovamente all'attenzione della C.G.Ue che si è pronunciata con la sentenza Placanica del 6 marzo 2007 (in cause riunite C- 338/2004, C- 359/2004, C- 360/2004). Più in particolare, nella sentenza Placanica, la Corte di Lussemburgo ha giudicato in contrasto con la libertà di stabilimento e con la libera prestazione dei servizi la legge nazionale nella parte in cui vietava l'esercizio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione e di trasmissione di proposte di scommesse, in particolare sugli eventi sportivi, in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro interessato. Ed ha aggiunto, inoltre, che spetta ai giudici nazionali verificare se la normativa nazionale, in quanto limita il numero di soggetti che operano nel settore dei giochi d'azzardo, risponda realmente all'obiettivo mirante a prevenire l'esercizio delle attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti. La C.G.Ue ha, altresì, sottolineato che gli artt. 43 e 49 del Trattato devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale che esclude, e per di più continua a escludere, dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati. Ebbene il legislatore, sulla scorta delle sollecitazioni sia della Corte di giustizia che della Corte di cassazione, ha apportato delle modificazioni alla normativa nazionale volte a consentire, anche alle società di capitali, la partecipazione alle gare pubbliche in vista dell'ottenimento delle concessioni prescritte dalla legge per l'esercizio dell'attività di raccolta di gioco e scommessa (il riferimento va al d.l.223/2006). Tuttavia, siccome il legislatore non ha – con il provvedimento summenzionato – provveduto a revocare le precedenti concessioni ma si è limitato ad assegnarne delle nuove (da ottenere sempre mediante gare ad evidenza pubblica a cui avrebbero, però, potuto prender parte tutte le società, senza discriminazione alcuna), tali novità normative si sono rivelate scarsamente adeguate. In altri termini, l'ingresso nel mercato risultava una mera fictio iuris in quanto le concessioni, non solo erano di per sé durature oltreché prorogabili, ma erano anche già state rilasciate. In virtù di tali ragioni, la Corte di cassazione, con ordinanza del 10 novembre 2009, n. 2993, ha rimesso ancora una volta la questione alla C.G.Ue, chiedendole se l'avvenuta apertura dei bandi di gara alle società di capitali, e quindi alle società straniere che erano prevalentemente costituite in tale forma, le nuove disposizioni dettate dal decreto Bersani continuassero a favorire illegittimamente gli operatori economici nazionali. La Corte di Lussemburgo, risolvendo la vexata quaestio, con la sentenza Costa e Cifone del 16 febbraio 2012 (C-72/2010, C-77/21010), ha definitivamente riconosciuto l'incongruenza della normativa italiana in punto di attività di raccolta di scommesse sportive con i principi comunitari di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi (rispettivamente disciplinati dagli artt. 43 CE, oggi art. 49 TFUE; art. 49 CE, oggi art. 56 TFUE). Con tale pronuncia la Corte di giustizia europea si è pronunciata in ordine alla legittimità degli atti per il rilascio delle nuove concessioni emanati in Italia nel 2006 sulla base del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in l. 4 agosto 2006, n. 248. La Corte di Lussemburgo ha verificato se gli stessi, formalmente emanati per dare esecuzione alla normativa europea, nella sostanza, avevano l'obiettivo di favorire i soggetti che già avevano ottenuto in passato le concessioni sulla base di una normativa che illegittimamente aveva escluso le società di capitali straniere. In particolare, la C.G.Ue è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittima applicazione delle sanzioni penali previste dall'art. 4 l. 401/1989 a soggetti che erano stati illegittimamente esclusi dai primi bandi, bandi già ritenuti in contrasto con gli artt. 49 e 56 T.F.Ue. Ebbene la Corte, assumendo quale presupposto la illecita originaria esclusione, ha ritenuto che nei confronti di detti soggetti le sanzioni penali non possono essere applicate perché ciò sarebbe in violazione degli articoli 43 e 49 Trattato Ce, dei principi di parità di trattamento e di effettività. Inoltre, ha ritenuto non conforme al diritto dell'Unione la condotta dello Stato che cerchi di rimediare alle illegittimità connesse ad una precedente legislazione ritenuta non conforme al diritto dell'Unione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, condotta che sembra finalizzata a proteggere le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti. Con specifico riferimento, poi, al diritto penale interno, ha affermato che non possono essere applicate sanzioni penali per l'esercizio di un'attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nemmeno nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato illegittimamente escluso da una gara in violazione del diritto dell'Unione, anche se vi è stata una nuova gara che, tuttavia, non ha rimediato all'illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara. Detta sentenza, stabilisce anche che, in virtù dei principi di parità di trattamento e di certezza del diritto, ed in virtù dell'obbligo dall'obbligo di trasparenza, le condizioni e le modalità di una gara devono essere formulate in modo chiaro, preciso e univoco. Tale valutazione viene poi rimessa al giudice nazionale. La sentenza della Corte di Giustizia, IV Sez., sent. Costa e Cifone, 16 febbraio 2012 è stata recepita in due diverse decisioni intervenute nel corso del 2012. In particolare, Cass. pen., Sez. III, n. 40865/2012 ha stabilito che non integra il reato di cui all'art. 4 della l. n. 401 del 1989 la raccolta di scommesse in assenza di licenza di pubblica sicurezza da parte di soggetto che operi in Italia per conto di operatore straniero (nella specie la “Stanley International Betting Ltd”) cui la licenza sia stata negata per illegittima esclusione dai bandi di gara e/o mancata partecipazione a causa della non conformità, nell'interpretazione della Corte di giustizia CE, del regime concessorio interno agli artt. 43 e 49 del Trattato CE. (In motivazione la Corte ha disapplicato la disciplina di cui all'art. 4 cit. a seguito della sentenza della Corte di giustizia Ce nelle cause riunit eC–72/10 e C – 77/10 Costa e Cifone), mentre integra il reato previsto dall'art. 4 dellale legge 13 dicembre 1989, n. 401 la raccolta di scommesse su eventi sportivi da parte di un soggetto che compia attività di intermediazione per conto di un allibratore straniero (nella specie la “Betrpo”) senza il preventivo rilascio della prescritta licenza di pubblica sicurezza o la dimostrazione che l'operatore estero non abbia ottenuto le necessarie concessioni o autorizzazioni a causa di illegittima esclusione dalle gare. Si segnala poi Cass. pen., Sez. III, n. 18767/2012, la quale precisa che la Corte di giustizia europea non ha affermato in via generale l'illegittimità della normativa italiana in materia di raccolta di scommesse ma che detta illegittimità sussiste solo laddove la legislazione interna ha effettivamente limitato le libertà di stabilimento e di servizi previste dal Trattato Ue (artt. 43 e 49) adottando restrizione non giustificate da esigenze d'interesse pubblico ragionevoli, proporzionate, coerenti e non discriminatorie.
La definizione del gioco d'azzardo, penalmente rilevante, è contenuta nell'art. 721 c.p. ai sensi del quale sono giochi d'azzardo quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria. La concezione di gioco d'azzardo fatta propria dal nostro codice penale, dunque, richiede la contemporanea sussistenza di due diversi elementi: da un lato, lo scopo di lucro; dall'altro, l'aleatorietà (come, d'altronde, è stato sottolineato anche dalla giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., Sez. III, 17842/2012). Ebbene, dall'interpretazione letterale della norma, è possibile desumere che il fine di lucro ricorre in tutti quei casi in cui l'obiettivo del giocatore è quello di trarre un guadagno economicamente apprezzabile e valutabile. Quanto invece all'aleatorietà, essa si giustifica atteso che il gioco d'azzardo consiste nello scommettere un bene (di solito, denaro) sulla verificazione di un evento futuro e, quindi, incerto. Sul punto, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 236/1995) ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sul presupposto che la disposizione summenzionata offre all'interprete precisi parametri di riferimento che dovranno, poi, essere valutati in concreto. Il giudice, infatti, dovrà tenere non solo in debita considerazione il caso tipologico sottoposto al suo esame, ma anche valutarlo alla luce delle concrete regole di esperienza. Per questi motivi, dunque, sarà da ritenere d'azzardo il gioco nel quale la possibilità di vincita è davvero remota in quanto lo stesso si basa esclusivamente sulla sorte o è condizionato dalla fraudolenta abilità del compartecipe. In pratica si avrà gioco d'azzardo ogni volta che il partecipe non possa influire sulla vincita e sulla perdita perché queste dipendono interamente o quasi dalla sorte o dall'abilità dell'altro partecipe. L'accertamento del reato di esercizio di giochi d'azzardo richiede non solo la prova dell'effettiva esistenza di mezzi atti ad esercitarlo ma anche: da un lato, la prova dell'effettivo svolgimento di un gioco; dall'altro, ove si tratti di apparecchi automatici da gioco di natura aleatoria, la prova dell'effettivo utilizzo dell'apparecchio per fini di lucro. Infatti, secondo la suprema Corte, non è sufficiente accertare che lo stesso sia potenzialmente utilizzabile per l'esercizio del gioco d'azzardo, essendo necessaria la prova del suo effettivo utilizzo (Cass. pen., Sez. III, n. 16660/2007). Inoltre, laddove le apparecchiature vengono fraudolentemente alterate, la condotta rileva anche ai sensi dell'art. 640-ter c.p. (Cass. pen., Sez. V, n. 27135/2010). Circa il rapporto fra la fattispecie di cui all'art. 110 Tulps (che, come precedentemente osservato, punisce le eventuali trasgressioni alla normativa dettata dal legislatore in tema di giochi e scommesse) e quella di cui all'art. 718 c.p., la suprema Corte ha affermato che le stesse possono concorrere (Cass. pen., Sez. III, n. 42375/2007). Casistica
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