Chiamata in reità o correità
16 Settembre 2015
Inquadramento
Con l'espressione chiamata in reità o in correità si intende il caso in cui una persona cui non possa riconoscersi la qualità di testimone tout court, bensì quella di coimputato, imputato di reato connesso o collegato (art. 210 c.p.p.) o testimone assistito (art. 197-bis c.p.p.), accusi altri della commissione di un fatto di reato. In particolare, si ha chiamata in correità allorché il propalante abbia rappresentato il proprio coinvolgimento diretto nei fatti delittuosi oggetto dell'imputazione ed ascritto altresì ad altri la compartecipazione in essi; ricorre, invece, una chiamata in reità quando il dichiarante non si sia affermato responsabile del fatto per cui si procede, bensì si sia limitato ad attribuirlo ad altri. Per tali dichiarazioni è prevista una disciplina distinta e più rigorosa rispetto a quella posta per il testimone, proprio perché la genuinità della fonte da cui provengono – ossia un soggetto coinvolto nel medesimo agire criminoso su cui riferisce ovvero in condotte ad esso connesse o collegate – desta più dubbi rispetto a coloro che devono ritenersi estranei a tali ultime condotte contra legem. La disciplina in discorso, com'è noto, è nella pratica molto rilevante, in seno ai procedimenti aventi ad oggetto reati posti in essere dalla criminalità organizzata, per il vaglio delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, le quali per l'appunto, si connotano di frequente come chiamate in reità o correità. La natura delle dichiarazioni
Il vigente codice di rito espressamente prevede che le dichiarazioni provenienti dal coimputato del medesimo reato, o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. e quelle rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., nonché dal soggetto che ricopre la veste di testimone assistito siano “valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità” (art. 192, commi 3 e 4, c.p.p.; cfr. pure art. 197-bis, ult.comma, c.p.p.). La collocazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p. tra le disposizioni generali sulle prove, quantunque non manchino autorevoli opinioni di segno contrario in dottrina, depone nel senso che le dichiarazioni dei soggetti cui si applica la regola di giudizio testé esposta abbiano natura di prova rappresentativa, atta a fondare l'affermazione di responsabilità dell'imputato, ove esse abbiano superato il controllo giudiziale della loro affidabilità che necessariamente richiede una corroboration da trarsi da altri convergenti elementi di prova. È la particolare qualità soggettiva del dichiarante (incompatibile ad assumere la qualità di teste tout court, potendo al più essere escusso, nei casi di cui all'art. 197-bis c.p.p., come teste assistito, alle cui dichiarazioni si applica pure – come anticipato – la disposizione di cui all'art. 192, comma 3, cit.) ad imporre che i fatti da lui rassegnati possano dirsi dimostrati, ossia provati, solo se suffragati nei termini voluti dalla norma de qua.
I criteri di valutazione della chiamata di correo
Il percorso argomentativo che il giudice deve seguire, allorché sia chiamato ad esaminare dichiarazioni provenienti dai soggetti cui si applica l'art. 192, comma 3, c.p.p., è stato oggetto di una compiuta ed approfondita elaborazione giurisprudenziale (e, ovviamente, dottrinale), che ha tratto dal disposto codicistico i criteri ed il metodo che di seguito si espongono. Segnatamente, la dichiarazione accusatoria deve essere verificata sotto il profilo dell'attendibilità intrinseca sub specie della credibilità del dichiarante, cui deve fare seguito il controllo della intrinseca consistenza della propalazione (cfr. Cass. pen., Sez.un., 30 ottobre 2003, n. 45276), alla luce di canoni della spontaneità, costanza, coerenza e precisione, della logica interna del racconto, della mancanza di interesse diretto all'accusa, dell'assenza di contrasto con altre acquisizioni e di contraddizioni eclatanti o difficilmente superabili (sul punto si veda, Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 80, resa nel c.d. maxiprocesso, nonché Cass. pen., Sez. un., 22 febbraio 1993, n. 1653; Id., Sez. I, 12 marzo 1998, n. 5270); e deve essere corroborata, infine, mediante i riscontri esterni da individuarsi in elementi di prova autonomi e diversi dalla chiamata in sé, riferibili all'imputato ed all'incolpazione a lui mossa nei termini che si specificheranno infra (cfr. Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276).
L'attendibilità intrinseca del dichiarante Anzitutto, dunque, la chiamata in reità o correità richiede un cauto e prudente apprezzamento della personalità di chi la esprime, del suo grado di conoscenza della materia riferita, delle modalità di esternazione delle dichiarazioni (dettagliate, approfondite, con riferimenti precisi a luoghi e persone). Sotto detto profilo, potranno avere rilevo anche i rapporti del dichiarante con le persone accusate (Cass. pen., Sez. I, 22 gennaio 1996, n. 683). Inoltre, occorrerà considerare la costanza del narrato, verificando se le dichiarazioni siano state reiterate senza contraddizione; bisognerà poi apprezzarne la logica interna e la ricchezza di contenuti descrittivi, prestando attenzione anche al fatto che il racconto sia o meno articolato e dettagliato o comunque passibile di controllo, avendo ad oggetto fatti obiettivamente verificabili. Le dichiarazioni, infine, dovranno essere verosimili, cioè non dovranno essere immediatamente percepibili come false.
L'attendibilità estrinseca Dopo aver vagliato l'attendibilità soggettiva del dichiarante il giudice – si è anticipato –, nei casi di chiamata in (cor)reità, deve verificare l'esistenza di elementi esterni di riscontro che ne confermino la c.d. "attendibilità estrinseca": in altri termini, la ricostruzione probatoria dello specifico evento delittuoso oggetto del giudizio richiede altresì autonomi elementi esteriori dotati di specifica idoneità confermativa delle dichiarazioni che riguardano i singoli imputati chiamati. Il che – è bene sottolinearlo – non equivale ad affermare che a carico di ciascun soggetto investito dalle propalazioni accusatorie debbano necessariamente raccogliersi elementi atti a costituire una prova autonoma ed autosufficiente della colpevolezza, a prescindere dalla chiamata di correo: l'art. 192 c.p.p., infatti, richiede che quest'ultima sia affiancata da elementi esterni idonei a confermarne l'attendibilità, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungono il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità (altrimenti sarebbero essi stessi sufficienti a provarne la colpevolezza), complessivamente considerati e valutati, risultino compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi (Cass. pen.,Sez. VI, 19 gennaio 1996, n. 661), e ne costituiscano il necessario completamento. La funzione processuale degli "altri elementi di prova" è invece semplicemente quella di confermare l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, il che significa che tali elementi sono in posizione subordinata e accessoria rispetto alla chiamata in correità, avendo essi idoneità probatoria rispetto al thema decidendum non da soli, ma in riferimento alla chiamata. Altrimenti, in presenza di elementi dimostrativi della responsabilità dell'imputato, non entra in gioco la regola dell'art. 192, comma 3, c.p.p., ma quella generale in tema di pluralità di prove e di libera valutazione di esse da parte del giudice (Cass. pen., Sez. VI, 22 gennaio 1997, n. 5649; Id., Sez. I, 22 settembre 1999, n. 13885; Id., Sez. VI, 20 novembre 2000, n. 3846). Occorre, però, che il riscontro positivo della dichiarazione riguardi il singolo chiamato, ossia sia ad esso riferibile, non potendo detto riscontro automaticamente traslarsi su altre circostanze o altri soggetti, pena – com'è stato rilevato in dottrina – la vanificazione del precetto normativo posto a tutela del singolo. I riscontri esterni alla chiamata di correità richiesti dall'art. 192 c.p.p. devono, cioè, essere individualizzanti, nel senso che devono avere ad oggetto direttamente la persona dell'incolpato e devono possedere idoneità dimostrativa in relazione allo specifico fatto a questi attribuito (Cass. pen., Sez. III, 10 dicembre 2009, n. 3225); il riscontro, in altre parole, deve riguardare non soltanto il fatto reato ma anche la riferibilità dello stesso all'imputato (Cass. pen., sez. I, 20 ottobre 2006, n. 1263), poiché inerisce a “ulteriori specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, non essendo lecito l'estendersi congetturale della valutazione nei confronti del chiamato sulla base di non consentite inferenze totalizzanti” (Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2003, n. 45276). La c.d. valutazione frazionata
Più chiaramente, la regola di giudizio qui in esame impone al giudice di rinunciare a valersi delle notizie fornite da un chiamante in correità, pur se riconosciuto intrinsecamente attendibile, qualora non sia stato acquisito un altro elemento (integrativo) di prova a carico dell'accusato (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 24 agosto 1990, n.11769). Ma non vanifica il contribuito probatorio delle dichiarazioni con riferimento agli incolpati ed alle imputazioni in relazione ai quali i riscontri vi siano e che, nella parte riscontrata e nei confronti dei soggetti oggetto di riscontro, ben potranno fondare un'affermazione di responsabilità. È, in altri termini, perfettamente legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da taluno dei soggetti indicati ai commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p. (e all'art. 197-bisc.p.p.), con attribuzione quindi di piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e solo quelle parti di esse che risultino suffragate da idonei elementi di riscontro (Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 6992; Id., Sez. I, 21 aprile 1997, n. 4495). Non può, infatti, ritenersi consentito, in caso di plurime chiamate di correità provenienti dalla medesima persona nella stessa vicenda processuale, utilizzare gli elementi di riscontro – accertati nei confronti di un imputato – a conforto delle accuse rivolte anche ad altro imputato. Pertanto, se il dichiarante abbia chiamato in correità varie persone per vari reati e se dalle confessioni degli accusati o degli altri elementi di prova sia riscontrata la veridicità di alcune o della maggior parte delle accuse, ciò va considerato ai soli fini del giudizio di intrinseca attendibilità del dichiarante, ma non può valere come altro elemento di prova a conferma di chiamata in correità nei confronti di altro soggetto sprovvisto di riscontri propri, costituendo ciò, altrimenti, palese violazione del principio della valutazione della prova a norma del terzo e quarto comma dell'art. 192 c.p.p. Conseguentemente deve essere attribuita piena valenza probatoria a tutte e soltanto quelle parti della dichiarazione accusatoria che risultano suffragate da elementi di riscontro, idonei perché muniti della capacità rappresentativa suddetta (ossia individualizzanti). Correttamente è stato osservato in dottrina che il principio della c.d. frazionabilità – purché sussista una positiva valutazione di attendibilità intrinseca del dichiarante e di coerenza logica della sua narrazione – è di norma espressione della regola di valutazione della prova posta dall'art. 192, comma 3, c.p.p., che per l'appunto subordina la piena efficacia probatoria della chiamata in (cor)reità all'esistenza dei riscontri esterni: è l'applicazione di detta regola che determina come esito naturale la possibile conferma totale o parziale del narrato, fermo restando però che il riscontro non debba investire tutti i particolari esposti dal dichiarante, quanto rendere attendibile la narrazione dello specifico fatto di reato e consentirne la riferibilità ad uno specifico imputato (o a più specifici imputati), dato che oggetto della valutazione di attendibilità da riscontrare è la complessiva dichiarazione concernente un determinato episodio criminoso, nelle sue componenti oggettive e soggettive (cfr. già Cass. pen., Sez. I, 1 aprile 1992, n. 6784). Maggiore cautela deve aversi, invece, nella valutazione frazionata nel caso di falsità: infatti, vero è che l'accertata falsità su di uno specifico fatto narrato non comporta, in modo automatico, l'aprioristica perdita di credibilità di tutto il compendio conoscitivo-narrativo riportato dal dichiarante; tuttavia, rientra nei compiti del giudice la verifica e la ricerca di un "ragionevole equilibrio di coerenza e qualità" di ciò che viene riferito nel contesto di tutti gli altri fatti narrati, dovendosi avere ben presente che la debole valenza di attendibilità soggettiva deve essere compensata con un più elevato e consistente spessore di riscontro, attraverso il necessario minuzioso raffronto di verifiche di credibilità estrinseca (Cass. pen.,sez. VI, 28 aprile 2010, n. 20514). La natura dei c.d. riscontri
Quanto alla natura dei riferiti ulteriori elementi di prova, su cui deve fondarsi la corroboration della chiamata di correo, la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che i dati di riscontro – non predeterminati dal legislatore né nella specie né nella qualità – possano essere di qualsiasi tipo e natura (Cass. pen., Sez. un., 6 dicembre 1991, n. 1048; Id., Sez. VI, 12 gennaio 1995, n. 2775; Id., Sez. I, 26 marzo 1996, n. 3070). I riscontri, cioè, possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che esso sia indipendente e sempre che abbia la riferita valenza individualizzante (Cass. pen., Sez. I, 20 ottobre 2006, n. 1263). Potrà, perciò, trattarsi di elementi indiziari (a condizione che, all'esito dell'apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale d'insieme, gli indizi si presentino chiari precisi e convergenti per la loro univoca significazione: cfr. Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276), di elementi di prova diretta, nonché di ulteriori chiamate in correità, se esse sono convergenti e dotate di autonomia genetica. Quanto alla convergenza, se – come detto – il riscontro non deve rivestire i crismi di una prova autonoma (bastando che chiamata di correo e riscontro estrinseco si integrino reciprocamente, formando oggetto di un giudizio complessivo: cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13 febbraio 1995, n. 1493), esso deve allora riguardare la complessiva narrazione del dichiarante relativamente all'episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti da lui riferiti (Cass. pen.,Sez. I, 25 febbraio 1997, n. 1801), non potendo pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi di accusa forniti dai diversi dichiaranti e dovendosi verificare la concordanza sul nucleo centrale e significativo posto dal thema decidendum (cfr. Cass. pen., Sez. II, 17 dicembre 1999, n. 3616; Cass. pen., Sez. V, 15 giugno 2000, n. 9001). Quanto, invece, all'autonomia genetica, si è rilevato, sia in dottrina che in giurisprudenza, come debba sussistere l'autonomia dell'esperienza percettiva vissuta dai distinti chiamanti (Cass. pen.,Sez. I, 20 ottobre 2006, n. 1263) e non anche reciproche influenze o condizionamenti ovvero incrementi o aggiustamenti dei contenuti narrativi derivanti dall'ascolto o dalla conoscenza di quanto rassegnato da altri (cfr. Cass. pen., Sez. I, 31 marzo 1998, n. 4807; Cass. pen., Sez. II, 17 dicembre 1999, n. 3616; Cass. pen., Sez. V, 15 giugno 2000, n. 9001) che determinerebbe la c.d. circolarità della prova. In sostanza, quando più chiamate in correità siano convergenti, nei termini sopra chiariti, verso lo stesso significato probatorio, il canone probatorio della c.d. convergenza del molteplice viene ad assumere, per il tramite di quello che è stato definito un reciproco incremento probatorio, la consistenza di una prova in grado di sorreggere una pronuncia di condanna ed il riscontro ad una dichiarazione può essere costituito, anche esclusivamente, da un'altra dichiarazione della stessa natura e di analogo contenuto. Le dichiarazioni de relato
Allorché la chiamata in correità superi il rigoroso vaglio di attendibilità di cui si è dato conto e sia dunque riscontrata può assurgere al rango di prova anche qualora essa si sostanzi in una propalazione de relato. Nel caso di chiamata de relato, però, occorre valutare oltre alla attendibilità del dichiarante ed alla veridicità delle sue affermazioni, anche – sia pure in via mediata – l'affidabilità della fonte primaria e la veridicità delle notizie da essa riferite. Il controllo della fonte primaria demandato all'interprete deve compiersi in ossequio a quanto previsto dall'art. 195 c.p.p., che contempla i principi generali in tema di testimonianza indiretta, operanti pure per la chiamata in correità de relato in forza dell'espresso richiamo di cui all'art. 210, comma 5, c.p.p. In primo luogo, occorre accertare l'attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni de relato, che provino cioè che la fonte di riferimento abbia effettivamente fatto quelle dichiarazioni. Successivamente, occorre riproporsi gli stessi problemi di attendibilità e di veridicità con riferimento al contenuto ed alla provenienza delle medesime notizie. Inoltre, è previsto – ma non è sempre necessario – il controllo diretto della fonte. Ove detta valutazione abbia esito positivo, è ben possibile la corroborazione reciproca fra più chiamate in correità provenienti da diversi soggetti ai fini di cui all'art. 192, comma 3,c.p.p., la quale opera anche nel caso in cui si tratti di chiamate fondate su conoscenza indiretta della condotta attribuita al chiamato, dandosi luogo – in tal caso – soltanto all'obbligo da parte del giudice di una verifica particolarmente accurata dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie e nell'osservanza del disposto di cui all'art. 195 c.p.p. (cfr. Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 1993, n. 11344). In sintesi, come hanno autorevolmente chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, “le accuse introdotte mediante dichiarazioni de relato, aventi ad oggetto la rappresentazioni di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta ma perché appresi da terzi, in tanto possono integrare una valida prova di responsabilità in quanto, oltre che intrinsecamente affidabili con riferimento alle persone del dichiarante e delle fonti primarie, siano sorrette da convergenti e individualizzanti riscontri esterni, in relazione al fatto che forma oggetto dell'accusa ed alla specifica condotta criminosa dell'incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa” (Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276). Invero, “la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse” (Cass. pen., Sez. un., 29 dicembre 2012, n. 20804). Infine, deve tenersi presente che “in tema di valutazione della prova, allorché il chiamante in correità renda dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti-reato commessi dallo stesso soggetto e ripetuti nel tempo, l'elemento di riscontro esterno per alcuni di essi fornisce sul piano logico la necessaria integrazione probatoria della chiamata anche in ordine agli altri, purché sussistano ragioni idonee a suffragare tale giudizio e ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie, quali l'identica natura dei fatti in questione, l'identità dei protagonisti, o di alcuni di essi, e l'inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e continuativo”(Cass. pen., Sez. VI, 24 settembre 2010, n. 41352). |