Collaboratori di giustizia
14 Giugno 2016
Inquadramento
Il fenomeno della collaborazione di giustizia, c.d. pentitismo, si inserisce nel contesto delle fattispecie premiali fondate sul comportamento post delictum. In particolare, il legislatore riconosce valore attenuante alla collaborazione (tanto quella sostanziale, che consiste nell'adoperarsi per evitare che l'attività criminosa prosegua, quanto quella investigativa/processuale, che si estrinseca nel rendere dichiarazioni etero accusatorie o nel consentire il rinvenimento di materiale probatorio) fornita dal reo e finalizzata a contrastare determinati fenomeni criminosi che si caratterizzano per il particolare allarme sociale che suscitano, ovvero per la difficoltà di contrasto da parte delle forze dell'ordine, sia nella fase investigativa che in quella repressiva. La ratio di una simile opzione politico-criminale va rintracciata nella opportunità di contrastare dall'interno determinati ambiti della criminalità plurisoggettiva ovvero associativa attraverso il contributo operativo ovvero informativo degli stessi correi. Il legislatore, dunque, stimola la dissociazione attuosa attraverso l'offerta di un trattamento penale differenziato e particolarmente favorevole. L'esordio della premialità come modello di intervento si ebbe a partire dagli anni '70 in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione. La l. 497/1974, modificando la struttura originaria dell'art. 630 c.p., riconosceva una circostanza attenuante speciale al correo che si fosse adoperato affinché il soggetto passivo riacquistasse la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del pagamento del prezzo della liberazione. L'esperienza maturata in tema di sequestro di persona semplice fu rapidamente estesa anche al sequestro di persona connotato da finalità di terrorismo o di eversione (art. 289-bis c.p.) e, per questo tramite, garantì l'accesso della premialità anche in contesti criminali più estesi, quale il crimine organizzato di matrice eversiva (per effetto degli artt. 4 e 5 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, è riconosciuta un'attenuante speciale ad effetto speciale per tutti coloro, avendo commesso delitti connotati dalla finalità di terrorismo o eversione, si adoperano per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiutano concretamente l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti). Medesima soluzione fu attuata negli anni '90 anche in altri settori dell'associazionismo criminale qualificato. Il d.P.R. 309/1990 in materia di stupefacenti favorisce la collaborazione, lato sensu intesa, attraverso le attenuanti ad effetto speciale di cui ai commi 7 degli artt. 73 e 74. L'ipotesi collaborativa certamente più nota resta però quella introdotta dall'art. 8 d.l. 152/1991 in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso,sulla quale ci concentreremo più diffusamente. Resta da notare come la tendenza alla premialità quale strategia di intervento penale abbia ormai travalicato il già ampio perimetro del crimine tipicamente organizzato, attestandosi quasi come caratteristica sistematica anche nella maggior parte delle fattispecie criminose che, benché costruite in chiave monosoggettiva, si connotano per la tendenziale plurisoggettività operativa (dalla criminalità predatoria all'immigrazione, alla contraffazione) (ampi riferimenti in AMARELLI). Come accennato, l'art. 8 d.l. 152/1991 ha inserito un istituto premiale anche in seno alla legislazione c.d. antimafia. La struttura dell'attenuante è per taluni aspetti particolarmente chiara, per altri necessita di precisazioni. Quanto alla natura giuridica, nessun dubbio si tratti di circostanza speciale ad effetto speciale e di natura soggettiva, come tale non suscettibile di estensione ai concorrenti. Tale ultima conclusione è in realtà confortata più da esigenze di coerenza sistematica che da indicatori testuali. Ed infatti, è bensì vero che la norma richieda l'utilità oggettiva del contributo del pentito (v. infra), ma altrettanto vero che, richiedendo la dissociazione dell'imputato, la circostanza in esame si colloca tra quelle che attengono alle condizioni o qualità personali del colpevole (AMARELLI). Peraltro, sarebbe sommamente irragionevole, diversamente opinando, consentire l'estensione del beneficio ai correi non pentiti, per il semplice fatto che costoro potrebbero essere proprio gli stessi associati dai quali il collaboratore intende dissociarsi e contro i quali fornisce elementi accusatori. La lettura qui patrocinata, peraltro, si dimostra coerente con quanto statuito dalla giurisprudenza delle Sezioni unite sull'affine attenuante di cui all'art. 62, n. 6 c.p., comunemente definita del pentimento operoso. Secondo il massimo organo nomofilattico (Cass. pen., Sez. un., n. 5941/2009), tale circostanza, intervenendo dopo la piena consumazione del fatto di reato, sfugge al regime generale di cui all'art. 118 c.p. e dunque non può estendersi ai concorrenti, a meno che anche costoro non abbiano preso parte alla condotta riparatoria. Ebbene, ci pare che le medesime ragioni possano soccorrere anche con riguardo all'art. 8, che del pari presuppone il perfezionamento della fattispecie criminosa. In punto di disciplina, invece, emerge come il legislatore abbia sostanzialmente equiparato le figure di collaborazione, allineandone gli effetti. Pertanto, il beneficio spetterà in egual misura tanto a chi abbia impedito la prosecuzione dell'attività criminosa, quanto a chi abbia fornito elementi utili agli investigatori per la ricostruzione dei fatti o per la cattura dei responsabili. Particolarmente marcato lo sconto di pena offerto al c.d. pentito. In primo luogo, il riconoscimento dell'attenuante impedisce l'applicazione del precedente art. 7, con ciò risolvendo il legislatore il conflitto di disciplina. Non meno rilevante la pena indicata in sostituzione dell'ergastolo, con la reclusione che può scendere fino a dodici anni di pena minima. A ciò debbono poi aggiungersi i benefici penitenziari indicati dall'art. 16-nonies d.l. 8/1991, conv. l. 82/1991, che comprendono la liberazione condizionale, la concessione di permessi premio e la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare. I presupposti applicativi espliciti
Il riconoscimento dell'attenuante passa attraverso la sussistenza di due requisiti immediatamente evincibili dal dato letterale dell'art. 8, di cui uno di natura soggettiva, l'altro oggettiva, ai quali va aggiunta la condizione della dissociazione dai correi (anche se questa potrebbe essere intesa come un effetto della collaborazione, piuttosto che come suo presupposto). È infatti necessario che il soggetto candidato al beneficio rivesta il ruolo di imputato per aver commesso taluno dei delitti ivi espressamente indicati. Va immediatamente chiarito se la nozione di imputato sia impiegata in senso tecnico processuale. Se così fosse, andrebbe considerato tale solo il soggetto già rinviato a giudizio. Il che porterebbe all'assurda conseguenza che il sistema stesso rallenterebbe l'invito alla collaborazione, dovendo il reo attendere simile effetto processuale. In realtà, attraverso l'interpretazione sistematica è possibile affermare che la nozione di imputato comprenda anche quella di mero indagato. Confrontando l'art. 8 in esame con le disposizioni della l. 45/2001 (su cui v. infra), emerge chiaramente la volontà del legislatore di anticipare la collaborazione (e dunque il riconoscimento dei relativi effetti) alla fase delle indagini preliminari. Anzi, come anche affermato dalla giurisprudenza (v. infra), il termine di inutilizzabilità delle dichiarazioni vale proprio ed esclusivamente per le dichiarazioni rese nella fase delle indagini e non anche per il dibattimento. Esorbita di certo dalla nozione di imputato, invece, la figura del soggetto già condannato in via definitiva. Anche in questo caso, è l'interpretazione sistematica a confortare siffatta conclusione, prevedendo l'art. 58-ter della legge sull'ordinamento penitenziario una speciale disciplina per la collaborazione di tali soggetti. Quanto al presupposto oggettivo, è necessario che l'attenuante sia applicabile ratione materiae. Il candidato al beneficio, in altre parole, deve rispondere di un reato di “ambientazione” mafiosa. Nessun dubbio, stante il richiamo legislativo espresso, sull'applicabilità dell'attenuante ai soggetti cui sia contestato il delitto di cui all'art. 416-bis c.p. – nelle sue diverse forme di manifestazione. Meno lineare la disposizione, invece, quando fa riferimento ai soggetti che hanno commesso delitti avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. ovvero alfine di agevolare l'attività delle medesime associazioni. Ed invero, se siffatte condizioni richiamano implicitamente l'art. 7 del d.l. 152/1991, tale rinvio non può che prendere in considerazione il diritto vivente formatosi nell'interpretazione di siffatta norma. Come è noto, per giurisprudenza costante, ai fini dell'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 7 in parola, non è necessario che il reo sia intraneo al sodalizio criminoso (Cass. pen., Sez. VI, n. 2696/2008), né che questo effettivamente esista nella realtà (Cass. pen., Sez. I, n. 5881/2011), né ancora che il contributo prestato abbia prodotto la reale agevolazione della consorteria mafiosa (volendo, ALBERICO). Trasferendo queste conclusioni nel tessuto dell'art. 8 in esame, ne viene surrettiziamente annullata la condizione della dissociazione dai correi. Ed infatti, per aversi dissociazione è comunque necessario che il soggetto sia interno al sodalizio dal quale ‘prende le distanze', possegga, cioè, l'affectio societatis. Nessuna dissociazione, invece, può essere attuata da chi, per definizione, non deve manifestare il vincolo di partecipazione. L'antinomia, comunque, risulta solo apparente. Invero, se si volesse accedere alla diversa prospettiva secondo cui sia sempre necessaria la dissociazione, ne seguirebbe che l'attenuante della collaborazione sarebbe riservata ai soli intranei. Epilogo interpretativo ancor più assurdo ove si consideri che il beneficio verrebbe negato a chi già dimostra ex ante una minore pericolosità sociale e, per definizione, risulta già dissociato in quanto ‘mai associato'. Il richiamo, nel testo dell'art. 8, delle condizioni di operatività del precedente art. 7 d.l. 152/1991 ha fatto sorgere un contrasto interpretativo sulla necessità che tale aggravante sia stata anche formalmente contestata ai danni del soggetto che invoca il beneficio della collaborazione. Nel silenzio della norma, si sono formati due distinti orientamenti nella giurisprudenza di legittimità. Secondo un primo indirizzo – inizialmente incontrastato – La mancanza di una formale contestazione della circostanza aggravante di cui all'articolo 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203, configurabile rispetto ad ogni delitto, punito con sanzione diversa dall'ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, non è ostativa all'applicabilità della speciale attenuante di cui al successivo articolo 8 della stessa legge (Cass. pen., Sez. I, n. 5372/1997; Cass. pen., Sez. VI, n. 30062/2006). A sostegno di questa lettura milita una rilevante argomentazione: il principio della contestazione è un principio di garanzia per l'imputato, che impedisce che il processo possa concludersi con l'affermazione di responsabilità per fatti non menzionati nell'atto di accusa. In ragione di ciò, il giudice, ove anche ritenesse che, in fatto, siano emersi elementi per ampliare la sfera di responsabilità dell'imputato, non potrebbe autonomamente procedere a condanna anche per questi. Un simile principio, dunque, non potrebbe essere impiegato – in malam partem – per privare l'imputato dell'effetto favorevole del riconoscimento dell'attenuante. Ed invero, ove il giudice, in assenza di contestazione, rinvenisse gli elementi costitutivi dell'aggravante di cui all'art. 7, non avrebbe alcun limite legislativo alla concessione dell'attenuante, la quale, per giunta, al comma 2 neutralizza espressamente l'applicazione dello stesso art. 7. Più di recente, invece, la Corte ha invertito questa tendenza, approdando ad esiti diametralmente opposti: La mancanza di una formale contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 - contemplata per i delitti, punibili con pena diversa dall'ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività mafiose - è ostativa all'applicabilità della speciale attenuante, di cui al successivo art. 8 stessa legge (Cass. pen., Sez. II, n. 23121/2009).
Meno dubbi, invece, accompagnano l'esclusione della previa ammissione al programma di protezione dai requisiti impliciti di applicazione dell'attenuante. È singolare, però, come la stessa Corte di cassazione giustifichi tale conclusione rilevando come si tratterebbe di un requisito non previsto espressamente dalla norma, e rimesso a valutazioni che non sono proprie del giudice competente, ma di altra autorità (nella fattispecie, la Direzione Distrettuale Antimafia) (Cass. pen., Sez. I, n. 10715/2010). Soddisfatti i presupposti applicativi, è compito del giudice stabilire se il contributo del pentito sia meritevole di apprezzamento ai fini della riduzione della pena. È lo stesso dato normativo, infatti, a improntare un nesso teleologico tra la collaborazione e la limitazione dell'attività criminosa altrui. Pur attraverso una formula linguistica che non si segnala per precisione ed immediatezza del messaggio, il legislatore richiede infatti che il collaboratore di adoperi per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori. Ne segue che il contributo prestato deve denotare una effettiva utilità nell'azione di contrasto delle associazioni mafiose da parte dell'autorità giudiziaria. La nozione di ‘effettiva utilità' del contributo necessita di chiarimenti. In primo luogo, la giurisprudenza, valorizzando la ratio della diminuzione di pena, richiede che il soggetto fornisca un concreto contributo alla difesa sociale contro il sodalizio mafioso. Tale requisito, nella sua affermazione, soffre la già denunciata scarsa precisione della formulazione dell'enunciato normativo. L'art. 8, infatti, richiede che il collaboratore si adoperi per impedire la prosecuzione dell'attività criminosa, anche attraverso l'aiuto nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti, ovvero l'individuazione o la cattura dei colpevoli. Ci si è chiesti, dunque, se il contributo assurga al crisma della concretezza quando sia coerente con entrambi tali effetti, ovvero se ne basti uno solo. Tutto ruota, evidentemente, attorno al significato che si attribuisce alla congiunzione. I primi orientamenti di legittimità avevano riconosciuto valore congiuntivo – linguisticamente coerente – all'inciso anche. Si richiedeva, dunque, tanto una proficua collaborazione investigativa per la ricostruzione dei fatti, o la individuazione e cattura dei responsabili, quanto una cooperazione per la cessazione dell'attività criminosa. Più recentemente, invece, si è attestato un opposto orientamento secondo cui la congiunzione avrebbe valore disgiuntivo, dovendosi leggere la stessa come un ovvero (Cass. pen., Sez. VI, n. 10740/2011). Non sfuggirà come tale lettura, benché determini effetti in bonam partem, si ponga in aperto contrasto con il dato letterale e con le regole grammaticali. A nostro sommesso avviso, il legislatore ha impiegato la congiunzione in modo improprio, non con valore congiuntivo, ma piuttosto rafforzativo, di specificazione. Intendiamo dire, in altre parole, che la congiunzione serva a specificare una delle modalità attraverso cui si può certificare che il soggetto si sia adoperato per evitare la prosecuzione dell'attività criminoso. Ne segue che l'inciso anche tiene luogo di ad esempio. Secondariamente, il contributo deve essere specifico e pertinente. Deve, cioè, essere innovativo rispetto a quanto è già a disposizione dell'autorità giudiziaria per debellare l'attività criminosa e deve concernere proprio i fatti per cui è processo.
Quando il contributo si estrinseca nelle forme del supporto probatorio, deve rivestire anche il carattere della decisività, o meglio deve intervenire fornendo elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti, l'individuazione o la cattura dei responsabili. L'aggettivazione in parola non pare avere valenza autonoma ed ulteriore rispetto agli esiti interpretativi cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità. Il contributo risulterà decisivo, dunque, se pertinente e se idoneo ad introdurre nuovi elementi conoscitivi nel panorama investigativo/probatorio, ovvero se utile a consolidare ipotesi investigative o rilievi indiziari. Per le medesime ragioni, però, non è necessario che il contributo si risolva effettivamente nella condanna dei correi, ovvero nella loro cattura: ciò condizionerebbe l'operatività del beneficio ad eventi sopravvenuti, non dominabili da parte del collaboratore. Ne segue che il giudizio sull'effettività del contributo non va declinato in chiave strettamente causale, ma piuttosto prognostica, valutandone dunque l'idoneità ex ante: il giudice riconoscerà lo sconto di pena quando vi sia la ragionevole possibilità che, in forza del contributo offerto, si possa determinare la cessazione dell'attività criminosa. Per mera completezza, giova precisare che nessun rilievo assume il formante motivazionale/soggettivo della collaborazione. La stessa va apprezzata esclusivamente per i risultati che genera. Le condizioni processuali. La l. 45/2001 e il verbale illustrativo
Il ricorso ai collaboratori di giustizia quale fonte privilegiata – e talvolta esclusiva – nei processi di criminalità organizzata, se si è reso necessario per sopperire alle difficoltà operative nella repressione di tali fenomeni criminosi, non ha però mancato di suscitare perplessità sulla attendibilità e sulla genuinità del propalato di tali soggetti, comunque segnati da un passato criminale importante. Come è stato anche di recente ricordato (CISTERNA), il tema della chiamata di correo ha appassionato dottrina e giurisprudenza fin quasi a divenire motivo di polemica politica (cfr. DOMINIONI; SILVESTRI). La necessità di ancorare a regole più certe la collaborazione, di scandirne i tempi e soprattutto la necessità di sanzionare eventuali abusi, ha imposto al legislatore di approntare un sistema procedurale idoneo a consentire la tempestiva verificabilità delle dichiarazioni. Con questo spirito, la l. 45/2001, art. 14, ha inserito l'art. 16-quinquies nel d.l. 8/1991, in virtù del quale la collaborazione, per essere efficace (rectius, utilizzabile) e proficuamente valutata ai fini dello sconto di pena, deve intervenire in un lasso di tempo predeterminato e vertere su ogni circostanza di cui il pentito è a conoscenza. Più in dettaglio, il pentito, manifestata la volontà di collaborare con la giustizia, procede alla redazione del verbale illustrativo della collaborazione, che deve ultimare e sottoscrivere nei centottanta giorni successivi (art. 16-quater della medesima legge) (cfr. FUMO; CISTERNA), all'interno del quale, seppur in forma ancora generica, deve indicare tutti i fatti criminosi di cui è venuto a conoscenza. Secondo il gergo della prassi, il verbale costituisce la traccia orientativa della collaborazione, nel senso che fotografa gli episodi di cui il pentito ha conoscenza certamente diretta, e non per effetto di contaminazioni. Inoltre, l'art. 16-quater postula anche la spontaneità delle dichiarazioni, prescrivendo che il collaboratore, oltre a rispondere alle domande che gli vengono rivolte dagli inquirenti, riferisca autonomamente sugli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente. Infine, secondo il comma 4 dell'articolo 16-quater, Nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, la persona che rende le dichiarazioni attesta, fra l'altro, di non essere in possesso di notizie e informazioni processualmente utilizzabili su altri fatti o situazioni, anche non connessi o collegati a quelli riferiti, di particolare gravità o comunque tali da evidenziare la pericolosità sociale di singoli soggetti o di gruppi criminali.
Infine, il comma 3 dell'art. 16-quater prescrive anche specifiche modalità di documentazione del verbale illustrativo, imponendo, a pena di inutilizzabilità, il ricorso alla fono o videoregistrazione, in modo da consentire l'eventuale confronto tra quanto dal collaboratore narrato e quanto effettivamente verbalizzato.
Casistica
ALBERICO, L'ambito di operatività della presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, ex art. 275, comma 3 c.p.p., al vaglio delle Sezioni unite, in Dir. pen. cont.; AMARELLI, L'attenuante della dissociazione attuosa, in Palazzo – Paliero (a cura di) Trattato teorico-pratico di diritto penale, vol. XII, Torino, p. 201 ss.; CISTERNA, voce Collaborazione di giustizia, in Dig. disc. pen., 2014, p. 1 ss.; DOMINIONI, La valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, in La legislazione premiale. Atti convegno in ricordo di Nuvolone, Milano, 1987, p. 171 ss.; FUMO, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, tra velleità di riforma e resistenze del sistema, in Cass. pen., 2003, p. 2910 ss.; SILVESTRI, La valutazione della chiamata in reità e correità, in GAITO – SPANGHER (diretto da) Il processo penale, Torino, 2013, p. 831 ss. |