ConfessioneFonte: Cod. Proc. Pen. Articolo 62
19 Ottobre 2016
Inquadramento
Prova regina nel vecchio ordinamento processuale, la confessione rappresenta l'atto processuale con cui vi è l'attribuzione a sé, in tutto o in parte, del fatto penalmente rilevante, oggetto di contestazione; una sorta di negazione, insomma, della dialettica processuale tra l'accusa e la difesa che si traduce nella sostanziale cessazione della materia del contendere. Sulla scorta dell'esperienza accumulato sotto l'egida del codice di rito del 1930, occorre, preliminarmente, chiedersi quale sia il peso procedimentale di siffatte ammissioni, quindi quali siano le connotazioni del fenomeno, le sue regole e le incidenze, in termini di risultato, sull'esito del processo. Nel codice Rocco la confessione era auspicata, per non dire quasi “cercata” dall'autorità procedente; nell'attuale codice rimane una rilevanza consistente da punto di vista probatorio, non scevro, però, di taluni limiti e precisazioni su cui occorre cimentarsi. Il valore probatorio della confessione
Il genus dichiarazione autoaccusatoria, letto sotto la lente critica del valore dichiarativo, assume dimensioni diverse e sfumature a volte contrastanti. In tutti i casi, la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che la confessionedell'imputato può essere posta a base del giudizio di colpevolezza anche quando costituisce l'unico elemento d'accusa, purché il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di un intendimento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione dell'interessato (cfr., Cass. pen., Sez. I, 12 febbraio 2014, n. 12277; Cass. pen., Sez. VI, 5 marzo 2008, n. 20591). Tanto che, addirittura, la confessione, pur soggetta, come tutte le prove orali, alla verifica di attendibilità, non subisce le limitazioni di cui ai commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p. e non ha quindi bisogno di riscontri esterni (cfr. Cass. pen., Sez. II,3 maggio 2005, n. 21998).
Non è detto, oltretutto, che la valutazione circa l'attendibilità e la credibilità della confessione attenga all'intera dichiarazione resa dall'accusato, considerando che il giudice ben potrebbe in base al principio della scindibilità delle dichiarazioni, ritenere veritiera solo una parte della confessione resa dall'imputato, e nel contempo disattenderne altre parti, allorché si tratti di circostanze tra loro non interferenti sul piano logico e fattuale, e sempre che giustifichi la scelta con adeguata motivazione. Così, si è ritenuto che (cfr. Cass. pen., Sez. V, 26 maggio 2014, n. 47602) sussista, nel nostro ordinamento processuale, un meccanismo per cui la prova dichiarativa – e non solo la confessione – possa essere parcelizzata e valutata in maniera diversa, sotto il profilo della credibilità e attendibilità, in talune parti piuttosto che in altri (in senso conforme, Cass. pen., Sez. IV, 16 giugno 2004, n. 40171; Cass. pen., Sez. I, 21 ottobre 1994, n. 12584, in Cass. pen., 1996, p. 1564; Cass. pen., Sez. I, 4 dicembre 1989, n. 2081. Conforme, per quanto concerne la persona offesa, Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2010, n. 3015; Cass. pen., Sez. III, 26 settembre 2009, n. 40170. Contra, rispetto a quest'ultimo punto, v. Cass. pen., Sez. III, 11 maggio 2010, n. 21640. Conforme, infine, rispetto alla chiamata in correità, v. Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 2006, n. 24466; Cass. pen., Sez. VI, 20 aprile 2005, n. 6221, in Arch. n. proc. pen., 2007, p. 125; Cass. pen., Sez. IV, 10 dicembre 2004, n. 5821; Cass., sez. I, 18 dicembre 2000, n. 468).
La valutazione della prova ovvero degli elementi di prova acquisiti mediante l'attività probatoria va eseguita in considerazione di ogni singolo elemento (munito del requisito della certezza) e dell'insieme di essi (in termini di significatività, di coerenza e di convergenza di contesto) in modo che ne derivi una ricostruzione armonica e consonante, idonea ad attingere la “verità”, cioè l'affermazione di realtà del caso concreto prospettato (in ipotesi d'accusa) in termini umanamente accettabili, ragionevolmente condivisibili. Sempre imprescindibile, ai fini della coerenza e della convergenza di contesto, è la fissazione dei dati d'immediata pregnanza reale, perché acquisiti attraverso la diretta sperimentazione della realtà materiale; per tali dati vale l'evidenza della loro oggettività, risultante da attività irripetibili di ricerca e consolidati in verbali d'ispezione, di perquisizione e di sequestro. Nel contesto dichiarativo gli elementi di maggior interesse a sostegno dell'accusa derivano da acquisizioni di matrice autoaccusatoria, funzionanti, secondo le moderne sperimentazioni, come espressione di matrice collaborativa orale. Funzionalmente si qualifica come “prova” (perché, come risultato di prova, sufficiente, se completa, per l'affermazione di responsabilità), allorché la dichiarazione autoaccusatoria (elemento di prova) sia reputata attendibile intrinsecamente, perché certa (processualmente acquisita in termini espliciti), dettagliata (circostanziata nei contenuti) spontanea, coerente e costante (nei modi). La ritrattazione della confessione
Come noto, nel processo civile la revoca della confessione è ammessa solo ex art. 2732 c.c.: in caso di errore di fatto e di violenza. Permane, altrimenti, intatto il valore confessorio originario. In caso di ritrattazione, pari vincolo è assente nel regime probatorio penale, in cui la valutazione giudiziale particolare, fondata sul libero convincimento, travolge ogni automatismo di legge. La confessione non costituisce prova legale, il giudicante può liberamente valutarla. Il giudice penale non è vincolato a criteri di temporalità: non deve far prevalere la seconda dichiarazione sulla prima ritrattata. Viceversa non è vincolato alla prima dichiarazione siccome presuntivamente più genuina – anzi, di sovente viene rilasciata agli organi di polizia giudiziaria, in un luogo ancora distante dalle garanzie del contraddittorio – come meno recente giurisprudenza penale pareva ammettere. Di entrambe le versioni dovrà scandagliare aliunde consensi probatori ed indizi, preferendo quella meglio sostenibile. In pari modo, avrà compito di verificare quanto lo stato di costrizione personale – per, ad esempio, l'applicazione della custodia cautelare – possa aver influito sulla veridicità della prima confessione. Permane l'assenza di ogni automatismo. Se sostenuto da congruo e logico argomentare, il decorso motivazionale è intangibile in sede di legittimità. In questo senso, la giurisprudenza afferma che la confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza dell'imputato nelle ipotesi nelle quali il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di intendimento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione sul soggetto. Quando tale indagine, ovviamente estesa al controllo su tutte le emergenze processuali, nel caso di intervenuta ritrattazione, non conduca a smentire le originarie ammissioni di colpevolezza, dovrà allora innegabilmente riconoscersi alla confessione il valore probatorio idoneo alla formazione del convincimento della responsabilità dell'imputato, anche se costui, dopo aver reso confessione del delitto di omicidio alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari, abbia ritrattato in dibattimento le precedenti dichiarazioni (Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 2008, n. 14623). Il principio si inserisce coerentemente in un quadro giurisprudenziale oramai consolidato. Quanto alla prima parte della massima, sono pacifici i criteri da utilizzare per la valutazione della forza dimostrativa della confessione, essendo stato più volte chiarito che la confessione, pur soggetta, come tutte le prove orali, alla verifica di attendibilità, non subisce le limitazioni di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 192 c.p.p. e non ha quindi bisogno di riscontri esterni (Cass. pen., Sez. I, 13 gennaio 1997, Savi); in tal senso, si è evidenziato che il giudice deve controllare la veridicità, la genuinità e l'attendibilità della confessione, in maniera tale da escludere che vi sia stata una intenzione autocalunniatrice o che l'interessato abbia subito una costrizione (Cass. pen., Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 20591). Ed infatti, nel nostro ordinamento processuale penale, che non conosce le prove legali e si affida al libero convincimento del giudice, la confessione resa nelle forme di legge è un elemento probatorio da valutare senza alcun limite predeterminato e solo dando conto, nella obbligatoria motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; i limiti alla formazione del libero convincimento che pongono i commi 2 e 3 dell'art. 192 c.p.p. sono eccezionali e non suscettibili di applicazione analogica, perché mentre è stabilito per legge che gli elementi di prova ricavabili da chiamate in correità non siano autosufficienti e necessitino quindi di verifiche estrinseche, la confessione ben può costituire prova sufficiente di responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni, purché il giudice nel suo potere di apprezzamento del materiale probatorio prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato ed accompagnato la confessione e dia ragione, con logica motivazione, del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa (Cass. pen., Sez. II, 3 maggio 2005, n. 21998; Cass. pen., Sez. I, 13 gennaio 1997, Savi; Cass. pen., Sez. II, 7 maggio 1996, Mastropiero; Cass. pen., Sez. I, 27 aprile 1995, Ruzzone; Cass. pen., Sez. IV, 3 luglio 1991, Davì; in senso parzialmente contrario, nella giurisprudenza di merito, Ass. Catania, 1° marzo 1994, Fidone, in Foro it., 1996, II, c. 47, che ha richiesto l'applicazione dei criteri di valutazione della chiamata in correità, per la dichiarazione dell'imputato che contiene, oltre ad una confessione di fatti a sé sfavorevoli, attestazioni liberatorie nei confronti di altri coimputati). Per ciò che concerne, poi, la valutazione della ritrattazione di una precedente confessione, si è asserito che, allorquando la chiamata di correo o la confessione siano seguite da ritrattazione, il giudice del merito è tenuto a sottoporre ciascuna dichiarazione a rigorosa analisi critica in modo da comprendere le ragioni che hanno dato luogo all'una e, poi, all'altra, al fine di esplicitare i motivi per i quali ritenga di attribuire prevalenza alla seconda dichiarazione. All'esito di tale indagine, ove il contrasto permanga ed appaia insanabile, legittimamente il giudice del merito può rifiutare di attribuire ogni rilievo probatorio al complesso delle contrastanti dichiarazioni (Cass. pen., Sez. I, 21 dicembre 1994; conf. Cass. pen., Sez. IV, 30 novembre 1993, Nieli). In caso di chiamata di correità, una ritrattazione inattendibile può tradursi, proprio perché tale, in un ulteriore elemento di conferma delle originarie dichiarazioni accusatorie (Cass. pen., Sez. I, 15 aprile 1991, Capece). I meccanismi confessori: la confessione giudiziale
Per confessione giudiziale si intende, sinteticamente, la confessione che avviene per il tramite dello strumento tipico messo a disposizione dal codice di rito penale. In questo senso, la sedes materiae ove la confessione può essere rassegnata è l'interrogatorio della persona indagata (cfr. in dottrina, MARANDOLA), disciplinato, in via generale, dagli artt. 64 e 65 c.p. In tal caso, rileva come l'art. 62 c.p.p. inibisca alle dichiarazioni provenienti dalla persona accusata di formare oggetto di testimonianza. Cosicché, il “recupero”, in sede processuale, delle dichiarazioni confessorie può avvenire per il tramite dell'art. 513, comma 1, c.p.p. su istanza di parte e con utilizzabilità circoscritta alla sola posizione processuale di chi la confessione l'ha resa, con esclusione dell'utilizzabilità nei confronti degli altri coimputati a meno che questi ultimi non prestino il consenso.
A tal riguardo, si è evidenziato come il divieto di testimonianza previsto dall'art. 62 c.p.p. opera solo in relazione alle dichiarazioni rese nel corso del procedimento all'autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore e restano escluse da tale divieto le dichiarazioni, anche se a contenuto confessorio, rese dall'imputato o dall'indagato ad un soggetto non rivestente alcuna di tali qualifiche (Cass., sez. III, 12 febbraio 2014, n. 12236). La ratio dell'art. 62 c.p.p. è riconducibile al coordinamento sistematico con le altre disposizioni che regolano l'assunzione delle dichiarazioni della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato (artt. 350, commi 1 e 3, c.p.p.; art. 350, commi 5 e 7, c.p.p.). Lo scopo, secondo la Corte, sarebbe quello di garantire che delle dichiarazioni in questione faccia fede la sola documentazione scritta, escludendosi l'ingresso di fonti probatorie indirette, ma anche quello di evitare che, attraverso il duplice meccanismo delle dichiarazioni spontanee e della testimonianza de auditu, venga aggirato il diritto al silenzio dell'“inquisito”. Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza 13 maggio 1993, n. 273, in Giur. cost., 1993, p. 1728) per cui il divieto riguarda le dichiarazioni (sulle quali dovrebbe vertere la testimonianza de auditu) rese (anche spontaneamente) in occasione del compimento di ciò che deve qualificarsi come un (qualsiasi) atto del procedimento.
Quest'ultima espressione non evoca una mera dimensione temporale ma piuttosto un collegamento funzionale tra dichiarazioni e un “atto” del procedimento; al riguardo, si è precisato che l'art. 62 non pone coordinate temporali ma designa dei contesti procedurali (CORDERO). Dunque, il limite di cui all'art. 62 c.p.p. sarebbe, oltre che limitato al contesto procedurale, anche soggettivamente delimitato, riferendosi alle sole dichiarazioni rese all'Autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore nell'ambito dell'attività investigativa. In senso conforme, si rinvengono i precedenti di Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2003, n. 6085; Cass. pen., Sez. II, 2 dicembre 2008, n. 4439. Non mancano pronunce di senso contrario, per cui l'art. 63 c.p.p., comma 2, sembra porsi oltre la tutela del nemo tenetur se detegere, per garantire l'attendibilità delle dichiarazioni volte ad inserirsi nel procedimento in maniera tale da condizionare le indagini ed eventualmente il convincimento del giudice, nel più ampio contesto degli artt. 188, 189 e 191 c.p.p. che impongono la tassatività e la legalità del sistema probatorio (Cass. pen., Sez. I, 11 febbraio 2014, n. 18120). Segue: la confessione stragiudiziale
La confessione stragiudiziale, invece, avviene con strumenti probatori diversi dall'interrogatorio, sebbene possano essere, comunque, inquadrabili negli altri strumenti probatori sanciti dal codice di rito (un esempio è la dichiarazione confessoria resa su un documento che entra nel processo penale ai sensi dell'art. 234 c.p.p.). La regola è che “la confessione stragiudiziale dell'imputato assume valore probatorio secondo le regole del mezzo di prova che la immette nel processo, e quanto alla prova dichiarativa occorre distinguere il caso in cui sia riferita dal testimone, con applicazione della regola di valutazione propria delle prove testimoniali, da quello in cui sia riferita dal chiamante in reità o correità, con applicazione della regola della necessità di riscontri esterni” (cfr. Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 2011, n. 17240).
Inevitabile che si ponga l'interrogativo in ordine alla capacità dimostrativa della confessione resa con strumenti aliunde rispetto a quello prestabilito dal codice. La Cassazione risponde a questo quesito – e non poteva essere altrimenti – affermando che la confessione stragiudiziale può essere assunta a fonte del libero convincimento del giudice quando, valutata in sé, nonché nel contesto dei fatti e nel raffronto con gli altri elementi di giudizio, sia possibile verificarne la genuinità e la spontaneità in relazione al fatto contestato (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13 dicembre 2011, n. 23777).
Questione controversia è se valgono, anche per la confessione stragiudiziale, i divieti sanciti dagli artt. 62 e 513, comma 1, c.p.p. In tal senso, si è provvidenzialmente affermato che le dichiarazioni confessorie o le ammissioni contenute in un documento proveniente dall'imputato non incontrano il limite alla loro utilizzabilità stabilito dall'art. 63, comma 1, c.p.p., in quanto la norma si riferisce solo alle dichiarazioni rese, dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, nell'ambito delle indagini, anche se queste ultime non riguardano la persona del dichiarante (Cass. pen., Sez. III, 23 novembre 2011, n. 46767). Si è, ulteriormente, precisato (Cass. pen., Sez. VI, 24 aprile 2009, n. 21289), che le dichiarazioni accusatorie rese da un coindagato, contenute in un block notes, possono essere acquisite ex artt. 234 e 237 c.p.p. e utilizzate ai fini nel procedimento di riesame, ma non posseggono, quanto al contenuto, la valenza probatoria delle dichiarazioni erga alios disciplinate dall'ordinamento, se non sono accompagnate da alcuna illustrazione da parte del loro autore in sede di interrogatorio. Più in generale, si è sostenuto (Cass. pen., Sez. V, 26 ottobre 2004, n. 46193) che, in tema di prova documentale, può essere acquisito ex art. 234 c.p.p. anche il verbale di un atto processuale quando questo sia stato formato al di fuori del procedimento nel quale poi si intenda acquisirlo ed afferisca al fatto oggetto di conoscenza giudiziale. Ne consegue che possono ritenersi documenti acquisibili il verbale di una deposizione testimoniale, il processo verbale di constatazione della polizia giudiziaria, la sentenza non irrevocabile, l'ordinanza di custodia cautelare, l'ordinanza di convalida dell'arresto o del fermo; pur se con l'avvertenza che da tali atti non può trarsi la prova dei fatti in essi descritti ma possono ricavarsi elementi di giudizio – solo relativi ai fatti documentati in essi rappresentati – che il giudice, in base al suo libero convincimento, può utilizzare anche in senso favorevole all'imputato e comunque nell'ottica del perseguimento del fine primario del processo penale e cioè l'accertamento della verità (In dottrina, v. CONTI,; FANUELE)
CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 2003, p. 248; CONTI, Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Cedam, 2007, p. 242 ss.; FANUELE, Documenti fonografici rappresentativi di dichiarazioni e disciplina della testimonianza indiretta, in Cass. pen., 2002, p. 2425 ss.; MARANDOLA, L'interrogatorio di garanzia. Dal contraddittorio posticipato all'anticipazione delle tutele difensive, Padova, 2006. Bussole di inquadramentoPotrebbe interessarti |