Corruzione

Marco Gioia
03 Agosto 2015

I delitti di corruzione sono inclusi nel Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale, dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Inquadramento

I delitti di corruzione sono inclusi nel Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale, dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Si tratta di diverse fattispecie incriminatrici che vanno a costituire un articolato e complesso sistema normativo che comprende le seguenti figure criminose: corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318 c.p.); corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, anche detta corruzione propria (art. 319 c.p.); corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.). Alle norme citate, che descrivono la condotta tipica del pubblico agente (c.d. corruzione passiva), si affianca l'art. 321 c.p. (rubricato “Pene per il corruttore”) che estende, per ciascuna delle ipotesi prese in considerazione, la punibilità alla condotta del soggetto privato che dà o promette un'utilità al pubblico agente (c.d. corruzione attiva).

Inoltre, all'art. 322 c.p., si prevede l'autonoma incriminazione delle varie forme di istigazione alla corruzione, relative alle ipotesi in cui all'iniziativa corruttiva intrapresa da uno dei due soggetti non corrisponda l'accettazione da parte dell'altro.

Infine, attraverso l'art. 322-bis, comma 1, c.p. si è provveduto, tra l'altro, all'estensione delle varie figure di corruzione domestica alle ipotesi di corruzione internazionale, in cui siano coinvolti pubblici agenti appartenenti all'Unione europea, agli Stati membri, e alla Corte penale internazionale. Al secondo comma, si prevede altresì la punibilità delle condotte di corruzione attiva e istigazione alla corruzione in cui l'utilità sia stata data, offerta o promessa da un privato nei confronti di un pubblico agente appartenente ad uno Stato estero o ad una organizzazione pubblica internazionale .

Si segnala, sul versante sanzionatorio, come per tutte le ipotesi di corruzione sia prevista, all'art. 322-ter c.p., la confisca obbligatoria per equivalente del profitto o del prezzo del reato nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti.

La riforma dei delitti di corruzione

L'attuale assetto della disciplina dei delitti di corruzione è il frutto di una radicale riforma attuata mediante la l. 6 novembre 2012, n. 190. Le principali esigenze alla base di tale intervento legislativo sono state individuate, in primo luogo, nella necessità di adeguare il sistema codicistico ai mutamenti del quadro criminologico della criminalità corruttiva ove si è registrato il passaggio dalla corruzione “pulviscolare” alla corruzione “sistemica”. In secondo luogo, la riforma rispondeva all'esigenza di adeguare il nostro ordinamento alle disposizioni contenute in diverse convenzioni internazionali in materia di corruzione (in particolare, nella Convenzione dell'OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 1997, nella Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa del 1999 e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003.

Sul piano dei contenuti, la prima parte della legge in esame è interamente dedicata alla disciplina della prevenzione amministrativa della corruzione.

Per quanto concerne le modifiche in materia penale, che rappresentano il principale oggetto del presente lavoro, le innovazioni apportate dalla legge in esame agiscono su quattro piani di intervento.

  • Il primo concerne direttamente la disciplina della corruzione, con la sostituzione di alcune delle fattispecie già esistenti e l'introduzione di nuove norme incriminatrici. Si tratta, in primo luogo, della surrogazione dell'originaria fattispecie di corruzione impropria susseguente di cui all'art. 318 c.p. con il delitto di “corruzione per l'esercizio della funzione” e, in secondo luogo, dell'introduzione, all'art. 346-bis c.p., della fattispecie di “traffico di influenze illecite”.
  • Il secondo piano dell'intervento legislativo è diretto, invece, a ridefinire gli incerti rapporti tra concussione e corruzione, ridisegnando completamente la relativa disciplina.
  • Un'altra importante modifica introdotta dalla l. 190/2012 riguarda la disciplina del codice civile in materia di diritto penale societario, ove all'art. 2635 c.c., precedentemente rubricato “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, viene introdotta la fattispecie di “corruzione tra privati”.
  • Infine, attraverso la l. 190/2012 si è attuato un generalizzato incremento del carico sanzionatorio sia per i delitti di corruzione che per altri delitti contro la pubblica amministrazione. Tale spostamento verso l'alto delle cornici edittali si spiega, oltre che sulla base della convinzione, fatta propria anche in questo caso dal legislatore, di ottenere mediante l'incremento delle pene una maggiore efficacia deterrente delle previsioni incriminatrici, anche con l'esigenza di rispondere ai ripetuti appelli degli organismi internazionali che denunciavano la durata esigua dei tempi di prescrizione, tale da determinare in un'alta percentuale di casi il proscioglimento per estinzione del reato.

Recentemente il legislatore è nuovamente intervenuto nella materia con la l. 27 maggio 2015, n. 69, al fine di fronteggiare, mediante un ulteriore inasprimento del regime repressivo, la “nuova emergenza corruttiva”. In particolare, tra le principali innovazioni apportate dalla novella in esame si segnalano: un nuovo e generalizzato aumento delle pene; la previsione di un'attenuante ad effetto speciale per talune ipotesi di ravvedimento operoso e collaborazione processuale (art. 323-bis, comma 2, c.p.); la previsione di un obbligo di riparazione pecuniaria in capo al pubblico agente condannato per taluni delitti contro la P.A. in favore dell'amministrazione di appartenenza (art. 322-quater c.p.), al cui adempimento è subordinata l'eventuale concessione della sospensione condizionale della pena (art. 165, comma 4, c.p.); la subordinazione della ammissibilità della richiesta di patteggiamento per taluni delitti contro la P.A. alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato (art. 444, comma 1-ter, c.p.p.).

Classificazione delle forme di corruzione

Le varie forme di corruzione si distinguono in relazione all'oggetto dell'accordo corruttivo e al momento in cui questo interviene rispetto alla realizzazione dell'attività funzionale oggetto dell'accordo.

Qualora l'oggetto dell'accordo corruttivo consista nella realizzazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio (o nell'omissione o ritardo di un atto doveroso) si è in presenza della più grave figura della corruzione propria (319 c.p.). Qualora, invece, l'oggetto dell'accordo consista nella realizzazione un atto conforme ai doveri d'ufficio si parla di corruzione impropria. A seguito della riforma del 2012 la corruzione impropria è stata sostituita dalla più ampia fattispecie di corruzione per l'esercizio della funzione, che ricomprende tutte le precedenti ipotesi di corruzione impropria e estende la tipicità ai casi in cui non è possibile individuare uno specifico atto quale oggetto dell'accordo corruttivo.

La corruzione si dice antecedente quando l'accordo corruttivo interviene prima della realizzazione dell'atto o dell'esercizio della funzione ed è ad esso finalizzato. La corruzione si dice, invece, susseguente quando l'accordo interviene successivamente alla realizzazione dell'attività funzionale, presentando con questa un legame causale e non finalistico. Nella corruzione susseguente l'accordo corruttivo è volto alla remunerazione di un'attività già eseguita prima e indipendentemente dall'accordo stesso.

Attualmente, sia nella corruzione per l'esercizio della funzione sia nella corruzione propria le ipotesi antecedenti e quelle susseguenti sono equiparate dal punto di vista sanzionatorio, attraverso una scelta politico-criminale fortemente criticata, stante il minor disvalore delle ipotesi susseguenti, ove l'attività funzionale, doverosa o antidoverosa, si è già realizzata prima ed a prescindere dall'accordo corruttivo.

Aspetti comuni dei delitti di corruzione

Le varie figure di corruzione presenti nell'ordinamento italiano, pur presentando delle differenze in ordine a taluni elementi costitutivi e al regime sanzionatorio, presentano una struttura comune che suggerisce la trattazione unitaria di talune questioni.

In tutte le fattispecie incriminatrici in esame, infatti, ad essere punito è l'accordo tra un intraneus (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) ed un extraneus avente ad oggetto l'esercizio di un'attività funzionale da parte del pubblico agente in cambio della promessa o della dazione di un'utilità da parte del privato.

Già da tale breve descrizione della condotta tipica può evincersi come tutti i delitti di corruzione abbiano, sul versante della corruzione passiva, la natura di reato proprio, in quanto realizzabili esclusivamente da soggetti rivestiti delle qualifiche pubblicistiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio definite agli artt. 357 e 358 c.p.

Un ulteriore aspetto comune ai delitti considerati consiste nella irrilevanza, ai fini della consumazione, della effettiva realizzazione, da parte del pubblico agente, dell'attività funzionale oggetto dell'accordo corruttivo. Il delitto, infatti, si consuma già al momento della conclusione del pactum sceleris, ossia nell'istante in cui è accettata la promessa o è ricevuta la dazione: fase in cui, nelle ipotesi di corruzione antecedente, l'atto oggetto dell'accordo non è ancora stato posto in essere dal pubblico ufficiale. Pertanto, qualora per qualsiasi ragione l'attività concordata non venga effettivamente eseguita, tale circostanza dovrà considerarsi alla stregua di un post-factum irrilevante ai fini della valutazione circa il perfezionamento del reato.

Il bene giuridico tutelato

La dottrina dominante, seppure con accenti diversi e in alcuni casi unitamente ad altri beni, per lungo tempo ha identificato l'oggetto di tutela di tutte le fattispecie di corruzione nel prestigio della pubblica amministrazione.

Tale oggetto di tutela ben si confaceva alla concezione autoritaria del rapporto tra individuo e Stato propria del regime fascista, fondata sul dogma dell'autorità, sul primato dello Stato rispetto alla persona e sul dovere di fedeltà dei funzionari, tutti elementi diretti a conferire il carattere della sacralità alle attività statuali.

Tuttavia, nel mutato contesto politico e ordinamentale inaugurato con la Costituzione del 1948, che vuole esattamente rovesciati i termini dei rapporti tra cittadini e autorità prima delineati, il venir meno del fondamento storico e politico su cui si era costruita la tutela del prestigio della pubblica amministrazione ha determinato, in gran parte della dottrina, la necessità di una rifondazione dell'oggetto di tutela dei delitti contro la pubblica amministrazione e, dunque, delle fattispecie di corruzione. In aderenza alla teoria del bene giuridico costituzionalmente orientata, allo stato gran parte della dottrina penalistica italiana individua l'oggetto di tutela dei delitti contro la pubblica amministrazione in generale, e dei delitti di corruzione in particolare, nel buon andamento e nell'imparzialità della pubblica amministrazione: essi rappresentano i valori che, ai sensi dell'art 97 Cost., devono orientare l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione (Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226).

La struttura del delitti di corruzione: reati a concorso necessario o fattispecie monosoggettive

Una questione ampiamente dibattuta è quella relativa alla qualificazione dei delitti di corruzione come reati a concorso necessario, in cui un'unica fattispecie incriminatrice è realizzata da più condotte (nel caso di specie quella del corrotto e quella del corruttore) che devono necessariamente coesistere al fine di integrare il reato, ovvero come autonomi e differenziati reati monosoggettivi di corruzione attiva e corruzione passiva.

L'orientamento attualmente maggioritario in dottrina e giurisprudenza propende per la prima soluzione, rilevando come la previsione di cui all'art. 321 c.p. abbia esclusivamente la funzione di estendere al corruttore le pene previste per il corrotto. Si nota, infatti, come le condotte del pubblico agente e del privato, consistenti, da una parte, nella promessa o dazione di un'utilità e, dall'altra, nell'accettazione della promessa o nella ricezione della utilità, siano sostanzialmente identiche o speculari. I delitti di corruzione, dunque, andrebbero qualificati come reati a concorso necessario, a struttura bilaterale (Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435).

Il diverso orientamento che propende per la qualificazione delle fattispecie di corruzione attiva e passiva come autonomi delitti monosoggettivi, pur essendo minoritario, riceve il sostegno di parte autorevole della dottrina (Balbi; Pagliaro; Spena) che fa rilevare come le condotte di dazione/ricezione e promessa/accettazione non siano identiche, potendosi al più ritenere reciproche e speculari ma intrinsecamente distinte una dall'altra. Tuttavia, contro tale ricostruzione si fa notare come essa produrrebbe il paradossale effetto di rendere ciascun partecipe dell'accordo corruttivo concorrente nel delitto dell'altro, nonché l'eventuale intermediario partecipe in entrambi i delitti di corruzione attiva e passiva, ingenerando una irragionevole duplicazione punitiva.

Ad ogni modo, parte della dottrina e della giurisprudenza, pur aderendo alla tesi che vede nella corruzione un reato a concorso necessario, afferma che la diversità dei comportamenti di corruzione attiva e passiva e la possibile separazione spazio-temporale degli stessi possa determinare, in talune ipotesi, la punibilità di uno solo dei due partecipi dell'accordo. È il caso, ad esempio, in cui per uno dei due soggetti non sia provato il dolo, ipotesi in cui dottrina e giurisprudenza maggioritaria, pur continuando a qualificare il reato come necessariamente plurisoggettivo, ammettono la punibilità di uno solo dei concorrenti (Cass. pen., 10 aprile 1981; contra Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 2013, n. 8426).

Consumazione

Come si è detto i delitti di corruzione si perfezionano alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la ricezione dell'utilità. Tuttavia, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, contestato da parte autorevole della dottrina (Balbi; Rampioni; Romano), nei casi in cui alla promessa faccia effettivamente seguito la dazione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione. Secondo tale impostazione i delitti di corruzione andrebbero ricostruiti come reati “a duplice schema”: principale e sussidiario. Secondo lo schema principale, il reato si articolerebbe in due condotte legate tra loro e funzionali l'una all'altra: l'accettazione della promessa e il successivo ricevimento dell'utilità, con il quale finisce per coincidere il momento consumativo, versandosi in un'ipotesi assimilabile a quella del reato progressivo. Lo schema sussidiario, invece, si realizzerebbe nei casi in cui alla promessa non segua la dazione, con la conseguente anticipazione della consumazione al momento dell'accettazione della stessa.

In dottrina, si è opportunamente rilevato come tale ardita ricostruzione giurisprudenziale appaia forzare il dato letterale che inequivocabilmente equipara le due condotte come modalità alternative di realizzazione del reato, al probabile scopo di posticipare il termine di decorrenza della prescrizione, in modo da scongiurare il verificarsi dell'effetto estintivo specie nelle frequenti ipotesi in cui, in ottemperanza ad un unico accordo risalente nel tempo, si abbia una pluralità di dazioni successive. Tale finalità, benchè risulti ragionevole sul piano politico-criminale, non può essere raggiunta attraverso una manifesta violazione della legalità formale ma al contrario attraverso un intervento legislativo che, alla stregua di quanto previsto all'art. 644-ter c.p., stabilisca un differente dies a quo dei termini di prescrizione per i delitti in esame.

Istigazione e tentativo

Le ipotesi in cui all'iniziativa di una delle due parti non corrisponda l'accettazione dell'altra necessaria alla conclusione dell'accordo corruttivo sono ricomprese nell'ambito della istigazione alla corruzione di cui all'art. 322 c.p. In tale articolo sono contenute, ai commi 1 e 2, le fattispecie di istigazione alla corruzione passiva (per l'esercizio delle funzioni o propria) in cui l'offerta o la promessa del privato non siano accettate dal pubblico agente e, in seguito alla modifica introdotta dalla l. 26 aprile 1990, n. 86, le corrispondenti ipotesi di istigazione alla corruzione attiva, in cui il pubblico agente sollecita una promessa o dazione di denaro da parte del privato. Tutte le ipotesi di istigazione alla corruzione sono punite con la pena prevista per la figura corruttiva di base, ridotta di un terzo.

Secondo un orientamento dottrinale, le fattispecie di istigazione alla corruzione avrebbero la funzione di rendere punibili condotte altrimenti atipiche di tentativo unilaterale di un delitto a concorso necessario. La natura necessariamente plurisoggettiva del reato comporterebbe la necessità che anche la fattispecie tentata sia realizzata da più persone, non essendo configurabile, in termini generali, un tentativo di concorso ma solo la partecipazione in un delitto tentato. La norma sull'istigazione, dunque, conferirebbe rilevanza penale a condotte che, altrimenti, non sarebbero punibili attraverso la fattispecie tentata derivante dal combinato disposto degli artt. 56 e 318 o 319 c.p. Un differente indirizzo, invece, ritiene che l'istigazione alla corruzione di cui all'art. 322 c.p. sia un'ipotesi di c.d. tentativo eccettuato, in cui il legislatore si limita ad elevare ad autonoma figura di reato un'ipotesi di tentativo, prevedendo per essa un regime sanzionatorio diverso e più severo rispetto a quello previsto dall'art. 56 c.p.

La questione assume rilevanza pratica allorché si tratti di valutare l'ammissibilità del tentativo rispetto a condotte unilaterali di istigazione alla corruzione in atti giudiziari, non ricomprese nell'ambito dell'art. 322 c.p. Solo accedendo alla tesi secondo cui la norma sull'istigazione sia un'ipotesi di c.d.tentativo eccettuato, relativo ad ipotesi già penalmente rilevanti alla stregua delle regole di parte generale, è possibile ammettere la configurabilità del tentativo in relazione ad ipotesi di istigazione alla corruzione non ricomprese nel perimetro applicativo dell'art. 322 c.p. La giurisprudenza ha aderito a tale ultima impostazione ammettendo la configurabilità del tentativo di corruzione in atti giudiziari nelle ipotesi in cui, pur essendo compiuta l'azione tipica con atti idonei e non equivoci (l'offerta o la promessa), l'evento non si verifica (per mancata accettazione) (Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2007, n. 12409).

Dall'atto alla funzione: la corruzione per l'esercizio della funzione

Tra le principali innovazioni apportate dalla l. 190/2012, vi è certamente quella della introduzione del delitto di “corruzione per l'esercizio della funzione”, che va a sostituire la fattispecie di corruzione per atto dell'ufficio, precedentemente prevista dall'art. 318 c.p.

Attraverso tale modifica normativa, per la prima volta si introduce nel nostro ordinamento un delitto di corruzione che esplicitamente prescinde dal riferimento ad un atto dell'ufficio quale oggetto dell'accordo corruttivo. A tale elemento, infatti, il legislatore sostituisce i più ampi concetti di funzioni e poteri del pubblico agente, al cui esercizio è riferita la dazione o promessa di denaro o altra utilità da parte del privato. Si sarebbe inteso, in questo modo, ricomporre la frattura che si era venuta a creare tra il diritto di fonte legislativa e il “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale, che già da tempo interpretava in modo sostanzialmente analogico il concetto di atto d'ufficio, ritendo che rientrassero nell'ambito di applicazione dell'art. 319 c.p. anche gli accordi conclusi in relazione all'esercizio della funzione (Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 1992).

Attraverso la sostituzione dell'elemento costitutivo dell'atto con i più generali concetti di funzioni o poteri dell'agente pubblico, la nuova fattispecie sembra essere stata resa idonea a ricomprendere nella sua sfera precettiva fatti estremamente diversi tra loro, anche sotto il profilo del disvalore. Infatti, oltre alle ipotesi in cui l'oggetto dell'accordo sia costituito da un atto dell'ufficio, che certamente rientra nel concetto di esercizio della funzione, il nuovo art. 318 c.p. si presta ad essere applicato sia ai c.d. “pagamenti a futura memoria”, effettuati al fine di conquistarsi una generica benevolenza del pubblico ufficiale, sia a quelle ipotesi di corruzione in incertis actis ove l'accordo corruttivo abbia ad oggetto l'asservimento continuativo di tutte le funzioni svolte dal pubblico agente agli interessi del privato.

In evidenza

In questo senso si è espressa la recente giurisprudenza di legittimità ove si è affermato che attraverso la nuova norma il legislatore ha introdotto «una fattispecie di onnicomprensiva "monetizzazione" del munus pubblico, sganciata in sè da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio» (Cass. pen., Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 19189).

In senso contrario, la dottrina maggioritaria ritiene che la nuova fattispecie, nonostante l'ampiezza dell'ambito di applicazione, non sia tale da ricomprendere anche la mera accettazione indebita di doni, ma sia pur sempre necessaria la sussistenza, sia pure attenuata, di un legame sinallagmatico nell'accordo corruttivo, ove la dazione della utilità da parte del privato avvenga in vista della realizzazione di un'attività funzionale da parte del pubblico ufficiale.

Inoltre, l'attuale fattispecie non conferisce, almeno esplicitamente, alcuna rilevanza al carattere antecedente o susseguente dell'accordo corruttivo, così da prestarsi a ricomprendere entrambe le forme di corruzione (Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226), benché le stesse presentino un contenuto di disvalore del tutto differente.

I rapporti con la corruzione propria

La novella in esame modifica profondamente il nesso tra le due figure di corruzione di cui agli artt. 318 e 319 c.p., caratterizzato precedentemente da reciproca alterità e attualmente, invece, da un rapporto di genere a specie. Infatti, il concetto di esercizio della funzione è tale da ricomprendere sia l'esercizio legittimo sia quello illegittimo della funzione, anche a prescindere da una formale estrinsecazione di tale esercizio in un atto dell'ufficio. La fattispecie di corruzione propria, dunque, possiede un duplice connotato di specialità rispetto al reato di cui all'art. 318 c.p., in primo luogo con riguardo al modo di esercizio della funzione, che deve concretizzarsi in un atto, e in secondo luogo rispetto alla qualificazione antidoverosa dello stesso.

In evidenza

Sul punto, la Cassazione ha recentemente chiarito come i fatti “caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti – alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato – nella fattispecie prevista dall'art. 319 c.p., devono ora, dopo l'entrata in vigore della l. 190/2012, essere ricondotti nella previsione del novellato art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio. Pertanto, alla luce di tale orientamento giurisprudenziale l'asservimento della funzione dovrà essere ricondotto nell'ambito applicativo di cui all'art. 318 c.p.sempre che esso non si sia concretizzato nell'accordo per l'adozione di uno o più atti, specificamente individuati, contrari ai doveri d'ufficio, nel qual caso troverà applicazione, in forza del principio di specialità, la fattispecie di cui all'art. 319 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226).

Aspetti processuali

Con riferimento al rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all'art. 521 c.p.p., la giurisprudenza di legittimità ha costantemente sostenuto che “tra la corruzione propria ed impropria v'è un rapporto di continenza con la conseguenza che la contestazione della prima lascia un ampio margine per la qualificazione giuridica del fatto, in sede di decisione, senza che con ciò venga compromesso il principio di correlazione, di cui all'art. 521c.p.p. tra imputazione e sentenza” (Cass. pen., Sez. VI, 21 marzo 1996, n. 6004).

Tuttavia occorre segnalare come, proprio in materia di corruzione, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano per violazione dell'art. 6, par. 3, lett. a), Cedu, in quanto la Cassazione aveva riqualificato d'ufficio il fatto nel più grave delitto di corruzione in atti giudiziari, diversamente da quanto avvenuto nei precedenti gradi di giudizio senza aver previamente informata l'imputato della possibilità di tale riqualificazione. Ciò in quanto “L'imputato ha diritto ad essere informato della natura e dei motivi dell'accusa formulata a proprio carico, ivi compresa la qualificazione giuridica del fatto reato, e del diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la difesa” (Corte Edu, Sez. II, Sent., 11 dicembre 2007, n. 25575/04, Drassich c. Italia).

Casistica

Atto d'ufficio

La contrarietà dell'atto ai doveri d'ufficio non costituisce elemento materiale della fattispecie di corruzione propria antecedente (art. 319 c.p.), ma ne qualifica il dolo, caratterizzando la finalità della condotta (Cass. pen., sez. V, 13 dicembre 1993).

In tema di delitti di corruzione, l'atto d'ufficio non deve essere inteso in senso strettamente formale in quanto esso è integrato anche da un comportamento materiale che sia esplicazione di poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata e presupponga la necessità di una congruità tra esso, in quanto oggetto dell'accordo illecito, e la posizione istituzionale del soggetto pubblico contraente (Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36859).

Bene giuridico

Il bene giuridico protetto dalle disposizioni riguardanti i delitti di corruzione, di cui agli art. 318, 319 e 320 c.p., partecipa del principio fissato dall'art. 97 della Carta costituzionale; infatti, tali fattispecie rappresentano una delle espressioni confliggenti con l'esigenza che sia assicurato il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione della cosa pubblica (Cass. pen., sez. I, 25 agosto 1991).

Struttura del delitti di corruzione

Nel delitto di corruzione, che è a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale, è ben possibile il concorso eventuale di terzi, sia nel caso in cui il contributo si realizzi nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolva in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari (Cass. pen., sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435).

Consumazione

Il delitto di corruzione si configura come reato a duplice schema, principale e sussidiario; secondo quello principale, il reato viene commesso con due essenziali attività, strettamente legate tra loro e l'una funzionale all'altra: l'accettazione della promessa e il ricevimento dell'utilità, con il quale finisce per coincidere il momento consumativo, versandosi in un'ipotesi assimilabile a quella del reato progressivo; secondo lo schema sussidiario, che si realizza quando la promessa non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione della promessa che identifica il momento di consumazione del reato (Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 2007, n. 35118).

Istigazione e tentativo

È da ritenere astrattamente configurabile l'ipotesi di tentativo con riguardo al reato di corruzione in atti giudiziari previsto dall'art. 319-ter c.p. ((Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2007, n. 12409).

Corruzione per l'esercizio della funzione

Il nuovo art. 318 c.p., invero, lungi dall'abolire, in tutto o in parte, la punibilità delle condotte già previste dal vecchio testo dell'articolo, ha al contrario determinato un'estensione dell'area di punibilità in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell'ufficio, oggetto di retribuzione, il più generico collegamento, della “dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all'esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due comi del precedente testo dell'articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (quest'ultimo non più necessariamente – a seguito della contestuale modifica dell'art. 320 c.p.pubblico impiegato), così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all'area dell'art. 319 c.p., una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio” (Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 19189).

Rapporti tra corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione propria

In tema di corruzione, la fattispecie di cui all'art. 319 c.p. (nel testo introdotto dalla l. 6 novembre 2012, n. 190), è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella prevista dall'art. 318 c.p., in quanto mentre questa punisce la generica condotta di vendita della funzione pubblica, la prima richiede, invece, un preciso atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio (Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226).

Sommario