Stalking

Andrea Alberico
04 Settembre 2015

L'art. 612-bis è stato introdotto nel codice penale per effetto dell'art. 7 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile 2009, n. 38. La disposizione ha successivamente subito modifiche ad opera dell'art. 1-bis del d.l. 01 luglio 2013, n. 78, convertito in l. 09 agosto 2013, n. 94, con il quale si è provveduto ad aumentare il massimo edittale all'odierna pena di cinque anni di reclusione (invece degli originari 4) ed infine dall'art. 1, comma 3, del d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in l. 15 ottobre 2013, n. 119, che ha modificato il novero delle aggravanti di cui al comma 2. La ‘storia' della nuova incriminazione risulta particolarmente travagliata. È bensì vero, infatti, che è stata introdotta a mezzo di un decreto legge (e dunque per fronteggiare la contingente emergenza dell'aumento di fenomeni ...
Inquadramento

L'art. 612-bis è stato introdotto nel codice penale per effetto dell'art. 7 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile 2009, n. 38. La disposizione ha successivamente subito modifiche ad opera dell'art. 1-bis del d.l. 01 luglio 2013, n. 78, convertito in l. 09 agosto 2013, n. 94, con il quale si è provveduto ad aumentare il massimo edittale all'odierna pena di cinque anni di reclusione (invece degli originari 4) ed infine dall'art. 1, comma 3, del d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in l. 15 ottobre 2013, n. 119, che ha modificato il novero delle aggravanti di cui al comma 2.

La ‘storia' della nuova incriminazione risulta particolarmente travagliata. È bensì vero, infatti, che è stata introdotta a mezzo di un decreto legge (e dunque per fronteggiare la contingente emergenza dell'aumento di fenomeni predatori nei confronti delle donne), ma è altrettanto noto come il primo disegno di legge in argomento fosse stato discusso in Parlamento già nel 2004 (Camera dei Deputati, d.d.l. n. 4891 del 2004, art. 1). Non sono mancate, pertanto, voci che hanno messo in dubbio la legittimità costituzionale del ricorso alla decretazione d'urgenza (Montanara, voce Atti persecutori, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 63).

La fattispecie, in ogni caso, nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto rispondere all'insufficienza del compendio penalistico disponibile a fronteggiare atti, generalmente privi di violenza, connotati però dalla pesante intrusione nella sfera privata della vittima (Valsecchi, Il delitto di “atti persecutori” (il c.d. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1377 ss.), e che, secondo l'indagine criminologia, possono rappresentare il preludio a gesti di violenza fisica. Si tratta, dunque, di atti assillanti, ripetuti, magari apparentemente innocui, che però denotano una potenziale incidenza nelle decisioni di vita di chi li subisce.

Bene giuridico protetto

Nonostante la collocazione sistematica, l'individuazione del bene protetto dalla nuova incriminazione risulta particolarmente complessa. È certo che il legislatore abbia scelto di inquadrare gli atti persecutori nella classe dei delitti contro la persona, ed in specie tra i delitti contro la libertà di autodeterminazione individuale. Non a caso, il delitto in esame segue immediatamente la fattispecie di minaccia, che ivi certamente si iscrive.

Diversamente dalla minaccia, però, la fattispecie in esame richiede la verificazione, alternativa, dei tre eventi di danno puntualmente indicati.

All'uopo, si è dunque sostenuto, con argomentazione convincente, che il delitto di ‘atti persecutori' offenda il bene della serenità psichica dell'essere umano, inteso quale diritto a vivere in tranquillità.

In evidenza

La Suprema Corte sembra condividere questa impostazione, che ha avallato quando chiamata a sindacare sull'eventuale concorso di norme tra il delitto in esame e fattispecie affini quali la violenza privata (art. 610 c.p.) (Cass. pen., Sez. V, n. 2283/2015). Secondo i Supremi giudici, infatti, “È configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l'art. 610 c.p. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l'art. 612-bis c.p. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà”.

Elementi per un'indagine comparatistica

Uno degli argomenti più ricorrenti a sostegno dell'introduzione del delitto di atti persecutori anche nel codice penale italiano è stato quello della presenza di una simile fattispecie già in molti ordinamenti, non solo europei (Cadoppi, Atti persecutori: una normativa necessaria, in Guida dir., n. 19/2009).

Lo stesso termine stalking deriva dal verbo to stalk, espressione comunemente usata oltre Manica nel gergo della caccia, che letteralmente significa “fare la posta”. In italiano si può dunque tradurre questa espressione con un insieme di comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza, controllo, ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima, infastidita e/o preoccupata. Di qui la rubrica della fattispecie come “atti persecutori”.

La storia della repressione dello stalking comincia negli Stati Uniti, ad opera della giurisprudenza.

La prima definizione legislativa, invece, è stata formulata in risposta ad una serie di reati commessi nei confronti di personaggi dello spettacolo (cd. star stalking), culminati nell'assassinio dell'attrice Rebecca Schaeffer, uccisa nel 1989 dal suo stalker, che la molestava da due anni.

Il primo Stato a muoversi verso l'incriminazione fu la California nel 1990, forgiando una fattispecie di pericolo marcatamente incentrata sul disvalore di azione e sull'intenzione criminosa, i cui elementi di tipicità erano rappresentati dalle condotte di pedinamento e molestia, che dovevano essere ripetute e malevole, e di minaccia, qualificata “credibile”.

Nel vecchio Continente, il primo Stato a dotarsi di una fattispecie ad hoc fu l'Inghilterra, con il Protection from Harassment Act del 1997. Questa normativa si segnala per la distinzione tra due fattispecie: la prima è un reato di pura condotta, e consiste essenzialmente in una molestia, l'“harassment”, mentre l'altra è un reato di evento, che si distingue per il richiedere talune delle conseguenze psichiche del pari volute dal legislatore italiano, il “putting people in fear of violence” (letteralmente, gettare le persone nella paura di subire una violenza). Il riferimento alla reiterazione è sbrigato richiedendo che la condotta sia ripetuta attraverso almeno due episodi.

Si segnala, invece, per la diversa scelta nella descrizione del fatto tipico la disposizione tedesca, § 238 StGb, inserita con la 40.a Strafänderungsgesetz del 22 marzo 2007, la quale procede ad un'elencazione casistica delle condotte rilevanti. Il reato è rubricato Nachstellung, ossia persecuzione: “Chiunque perseguita ostinatamente senza autorizzazione taluno, in modo tale da: 1. invadere la sua intimità spaziale, 2. tentare di contattarlo avvalendosi di mezzi di telecomunicazione o comunicazione o di terze persone, 3. rinunciare ad ordinazioni di merci o servizi a nome della persona offesa o indurre terze persone a interrompere i propri contatti con la stessa, mediante l'utilizzazione abusiva dei dati personali di quest'ultima, 4. minacciare la persona offesa o una persona a questa vicina di un danno alla vita, all'integrità fisica, alla salute o alla libertà, o 5. porre in essere una condotta analoga a quelle di cui ai nn. 1-4, e con tali condotte danneggia gravemente la qualità della vita della persona offesa, è punito con la reclusione fino a tre anni o con la pena pecuniaria”.

L'art. 612-bis: natura della fattispecie

Esiste oggi generale accordo in dottrina e giurisprudenza circa la natura abituale impropria del delitto di atti persecutori. Simile conclusione è suffragata dal requisito di tipicità costituito dalla necessaria reiterazione degli atti di minaccia o molestia.

L'assunto è ormai condiviso anche dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen., Sez. V, 11 luglio 2016 (dep. 3 ottobre 2016), n. 41431).

Secondo una posizione rimasta minoritaria, la fattispecie andrebbe ascritta alla figura del reato complesso in senso lato atteso che lo stalking si determinerebbe dalla fusione dei diversi reati di minaccia e molestia, a cui si aggiungono ulteriori elementi di per sé non costituenti reato (cfr. Parodi, Stalking e tutela penale, Milano, 2009). Una simile conclusione non appare meritevole di condivisione. Molteplici, infatti, sono gli argomenti che depongono in senso contrario.

Già il dato testuale dell'art. 612-bis porta a qualificare lo stalking come delitto a fattispecie alternativa, dal momento che ricorre la congiunzione disgiuntiva “o” tra le condotte di minaccia e molestia. Queste ultime, pertanto, non devono necessariamente sussistere insieme, ben potendo l'evento determinarsi in ragione di ripetute minacce, ovvero di ripetute molestie. In tal caso, dunque, mancherebbe in radice quell'elemento di fusione di distinti reati che caratterizza la genesi del reato complesso. Né l'eventuale compresenza di più fatti di molestia e di comportamenti penalmente irrilevanti giustificherebbe la natura eventualmente complessa della fattispecie, a ciò ostando lo stesso dato testuale dell'art. 84 c.p. e la funzione di tipizzazione svolta dal requisito della reiterazione, sconosciuta al reato complesso.

Ancora quanto alla natura del delitto, sin dai primi arresti la giurisprudenza ha riconosciuto negli atti persecutori un reato con evento di danno (a partire da Cass. pen., Sez. V, n. 17698/2010) (cfr. Levita, L'actio finium regundorum della giurisprudenza di legittimità ed amministrativa in tema di stalking, in Ruffo (a cura di), Annali di Diritto Penale Moderno. Opinioni e commenti - III, Napoli, 2012). Al contrario, in dottrina si è cristallizzato un contrasto tra quanti convenivano con la posizione dei giudici (cfr. Valsecchi, cit., secondo cui dai lavori parlamentari “emerge la chiara volontà del nostro legislatore di costruire la nuova fattispecie di atti persecutori come reato abituale di evento e non di mera condotta”) e quanti, invece, ricostruivano la fattispecie come reato di pericolo concreto (tra questi, Maffeo, Il nuovo delitto di atti persecutori (stalking): un primo commento al d.l. n. 11 del 2009 (conv. con modif. dalla l. n. 38 del 2009), in Cass. pen., 2009, p. 2719 ss.; Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, p. 130 ss.). Il contrasto verte sul significato da conferire alla locuzione legislativa “in modo da cagionare” che precede l'elencazione degli eventi alternativamente tipizzati. A nostro avviso, la locuzione tiene luogo del gerundio, e dunque va letta in chiave strettamente causale: è necessario che dalla condotta derivi uno degli eventi selezionati dal legislatore.

In evidenza

Ancora di recente i Supremi giudici mantengono ferma questa posizione interpretativa, parlando di reato abituale di evento. Secondo Cass. pen., Sez. III, n. 9222/2015Il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di "danno" consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva”.

I requisiti della tipicità: a) “minaccia o molesta”

Come già accennato in precedenza, la condotta consiste in azioni ripetute di minaccia o molestia. Sul piano teorico, non è agevole stabilire se i requisiti in parola vadano intesi quali veri e propri elementi normativi del fatto, e dunque se la condotta assuma una forma vincolata, dovendo l'azione del reo essere già tipica ai sensi degli artt. 612 o 660 c.p. (in senso contrario, Losappio, Vincoli di realtà e vizi del tipo nel nuovo delitto di “Atti persecutori”. “Stalking the Stalking, in Dir. pen. proc., 2010, p. 872, il quale parla della minaccia e della molestia come di sub-eventi, ossia esiti preliminari della condotta).

In realtà, il quesito appare di più immediata soluzione per quanto attiene alla condotta di “minaccia”. Ed invero, qui risulta difficilmente discutibile il rinvio normativo all'art. 612 c.p., stante l'identità semantica. La condotta, dunque, è vincolata ai requisiti della minaccia penalmente rilevante (Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013).

L'assunto è condiviso anche dalla giurisprudenza, secondo la quale il delitto di atti persecutori assorbe quello di minaccia atteso che “gli atti intimidatori rientrano tra gli elementi qualificanti della fattispecie” (Cass. pen., Sez. V, n. 41182/2014).

In evidenza

È bene ricordare che, secondo l'interpretazione tradizionalmente accolta, la minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro ed ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà del soggetto attivo (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2002, p. 150).

Meno pregnante dal punto di vista semantico, invece, il riferimento alla molestia penalmente rilevante ai sensi dell'art. 660 c.p. Il legislatore, infatti, usa la locuzione verbale “molesta” (meno dubbi sarebbero sorti se, ad esempio, si fosse optato per una formulazione del tipo “con condotte reiterate di minaccia o molestia”). Ciò parrebbe sintomatico della scelta di tipizzare piuttosto il risultato della condotta, la quale resterebbe in ultima analisi a forma libera.

Ricordato che per molestia si intende “un'interferenza, momentanea o durevole, nella sfera di tranquillità del soggetto passivo” (Flick, voce Molestia o disturbo alle persone, in Enc. dir., Milano, 1976, p. 702), bisogna prendere atto dell'assenza di interventi specifici della Cassazione sul punto. Esiste, però, un recente arresto – che si riporta nel box che segue – ove la Corte, pur senza affrontare ex professo il tema, nega l'assorbimento della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. all'interno del delitto di atti persecutori.

Sul punto è anche possibile notare come, secondo la più recente giurisprudenza, la nozione di molestie evocata dalla fattispecie di atti persecutori non vada tratta ‘normativamente' dalla disposizione di cui all'art. 660 c.p.: «Ai fini della configurazione del delitto di atti persecutori, le reiterate molestie non devono essere commesse necessariamente in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come invece previsto per la contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. (Fattispecie nella quale la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, con la quale l'imputato era stato assolto dal reato di cui all'art. 612-bis c.p., per avere molestato la moglie con condotte commesse in luoghi e con modalità diverse da quelle previste dal citato art. 660)» (Cass. pen., Sez. V, 14 gennaio 2016 (dep. 24 marzo 2016), n. 12528).

In evidenza

Secondo la Cassazione, “In tema di molestia o disturbo alle persone, la contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. che mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità attuato mediante l'offesa alla quiete privata, integra fattispecie distinta, autonoma e concorrente rispetto al reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. in cui non viene assorbita per la diversità dei beni giuridici tutelati” (Cass. pen., Sez. I, n. 19924/2014). Nel corpo della motivazione è anche possibile leggere che, per le esposte ragioni, “L'intervenuta remissione di querela per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. non ha quindi effetti sul reato perseguibile d'ufficio previsto dall'art. 660 c.p.”.

Segue: b) la reiterazione

Altro requisito della condotta scarsamente ‘denso' sul piano dell'esperienza legislativa penalistica è certamente quello della ‘reiterazione' delle condotte. Non sfuggirà come una simile opzione linguistica sia il portato della conformazione del legislatore ad un preciso referente normativo: l'incriminazione adottata nel codice penale dello Stato della California, § 646.9, ove compare il termine “repeatedly” (Alberico, La reiterazione delle condotte nel delitto di atti persecutori, in www.penalecontemporaneo.it).

Come già rilevato, l'elemento in esame ha dato la stura affinchè il reato fosse qualificato abituale. Cionondimeno, ci si è chiesti se sia necessario che le condotte assumano una ripetizione quantitativa significativa, ovvero se basti che ad una prima azione molesta ne segua una successiva (cfr. Lo Monte, L'individuazione delle “condotte reiterate” (art. 612-bis c.p.): tra lacune legislative e discutibili applicazioni giurisprudenziali, in Cass. Pen., 2011, p. 159 ss.). Secondo la Cassazione, “il termine "reiterare" denota la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza”, se ne deve evincere, dunque che “integrano il delitto di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice” (Cass. pen., Sez. V, n. 6417/2010).

In realtà, l'assunto va ben decifrato. È bensì vero che, nell'impostazione accolta, bastano già due sole condotte per aversi ‘reiterazione'; cionondimeno, è necessario che queste, sinergicamente considerate, siano risultate idonee, sul piano causale, a cagionare uno degli eventi tipizzati.

Deve concludersi, dunque, nel senso che il requisito della reiterazione comporti la semplice l'esclusione dalla tipicità di condotte singole di minaccia o molestia, e concorra al giudizio di idoneità dell'azione ai sensi dell'art. 49, comma 2 c.p. In questi termini, secondo un recente arresto di legittimità, “Nel delitto previsto dell'art. 612-bis c.p., che ha natura abituale, l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice” (Cass. pen., Sez. V, n. 51718/2014; in senso conforme, Cass. pen., Sez. V, 8 giugno 2016, (dep. 27 dicembre 2016) n. 54920).

Ulteriore interrogativo che si è posto a margine del requisito della reiterazione è quello concernente il lasso temporale entro cui si devono ripetere le condotte. In particolare, ci si è chiesti se potesse parlarsi di reiterazione a fronte di plurime condotte tenute nella stessa giornata. In un simile caso, infatti, si è dubitato della maturazione di quel lasso di tempo necessario a recare il turbamento oggetto dell'incriminazione. La Suprema Corte, nuovamente orientando il proprio ragionamento alle conseguenze delle condotte, ha statuito che «È configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice» (Cass. pen., Sez. V, 13 giugno 2016 (dep. 15 settembre 2016) n. 38306).

Segue: c) l'evento

Come più volte anticipato, la fattispecie si caratterizza per la necessità che la condotta determini, alternativamente, uno tra i seguenti eventi: 1) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; 2) un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; 3) una alterazione delle abitudini di vita (della vittima).

Va immediatamente precisato che l'enunciato normativo non si segnala per precisione: sin dalla sua introduzione, la dottrina unanime aveva avanzato dubbi sulla legittimità costituzionale della fattispecie per la vaghezza degli eventi e per l'incertezza del percorso probatorio funzionale al relativo accertamento. Puntualmente sollevata, la questione di legittimità costituzionale è stata però respinta dalla Corte.

In evidenza

Corte costituzionale, sentenza 11 giugno 2014, n. 172: “L'art. 612-bis c.p., nella parte in cui impone che le condotte poste in essere dal reo siano “reiterate” e tali da provocare nella vittima uno stato “perdurante e grave di ansia e paura”, ovvero un “fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva”, ovvero da costringere la vittima ad “alterare le proprie abitudini di vita” non contrasta con il principio costituzionale di tassatività e determinatezza di cui all'art. 25, comma 2, Cost. Ed infatti, adottando un metodo di interpretazione integrato e sistemico, il giudice potrà accertare sia la intelligibilità del precetto, sia la verificabilità del fatto nella realtà dei comportamenti sociali. In particolare, il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia, le quali devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla disposizione. Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l'incolumità», trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima. Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo”.

1) Il perdurante e grave stato di ansia e paura: si tratta dell'inciso che aveva riscontrato maggiori favori, in dottrina, in punto di determinatezza/precisione. Ciononostante, non erano mancate criticità quanto alla corretta interpretazione da fornire al concetto, alternandosi la posizione di chi riconosceva nello stato di ansia e paura una vera e propria patologia (già nota nella letteratura medica e denominata Stalking trauma sindrome, STS), da accertare clinicamente, e quella di coloro che, invece, vi individuavano un mero stato emotivo-psicologico, come tale riscontrabile anche mediante prova testimoniale e rimesso al libero apprezzamento del giudice (per una lettura di sintesi, Fiandaca, Musco, Diritto Penale. Parte speciale, vol. II, Tomo I, I delitti contro la persona, 2ª ed., Addenda: Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori (c.d. stalking): d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in l. 23 aprile 2009, n. 38, Bologna, 2009, p. 8). A sostegno della prima impostazione militano sia ragioni di certezza nomologica, sia l'estraneità dei concetti di ‘ansia' e ‘paura' al linguaggio penalistico. Propende per la seconda impostazione, invece, la giurisprudenza, che è recentemente tornata sul tema affermando che «In tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata» (Cass. pen., Sez. V, 2 marzo 2017 (dep. 7 aprile 2017), n. 17795). Detto orientamento si allinea col discorso sviluppato in tema di bene giuridico protetto: tutelando la fattispecie la serenità e l'equilibrio psicologico della vittima, non è necessario procedere al riscontro dell'insorgenza di veri e propri stati patologici, in presenza dei quali si potrebbe configurare altresì la diversa figura criminosa delle lesioni personali ex art. 582 c.p., elettivamente deputata alla tutela dell'integrità fisica (Cass. pen., Sez. V, 17 febbraio 2017 (dep. 14 aprile 2017), n. 18646).

2) Il fondato timore per la propria o altrui incolumità: del pari poco agevole la ricostruzione del concetto di fondato timore. Anche in questo caso sono state avanzate due possibili alternative. Una prima soluzione è quella di leggere l'aggettivo come sinonimo di "ragionevole": più in particolare, il giudice dovrebbe valutare se una persona ragionevole avrebbe provato timore in conseguenza della condotta dell'agente. Secondo una diversa lettura, più orientata sul soggetto passivo del reato, l'accertamento della fondatezza del timore presupporrebbe la prova che la vittima del caso di specie abbia realmente provato timore in conseguenza della condotta dell'agente.

La giurisprudenza sottolinea il carattere “di pericolo” dell'evento in esame. Ci si avvede, infatti, che il fondato timore è lo stato psicologico che, nella mente della vittima, prelude alla possibilità di patire una violenza.

In ogni caso, mancano puntualizzazioni specifiche sull'essenza di tale evento. La Corte costituzionale, nella pronuncia da ultimo evidenziata, ha ritenuto sufficientemente determinato l'inciso normativo in ragione dell'aggettivazione usata dal legislatore: richiedere che il timore sia ‘fondato', infatti, impedisce che diventino rilevanti timori immaginari o fantasiosi della vittima.

3) La modifica delle abitudini di vita: si tratta certamente dell'evento che maggiormente affonda le proprie radici nell'indagine criminologica. L'inciso è però eccessivamente generico, lasciando all'interprete il compito di selezionare quei modelli di vita la cui modifica è tale da peggiorare la condizione esistenziale della vittima. Non efficacemente chiarificatrice la definizione offerta dalla Corte costituzionale, a mente della quale sono abitudini di vita quel “complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo”. Ed invero, aderendo a questo schema, ogni comportamento ripetuto è abitudine di vita (molto critico sul punto Losappio, cit., p. 874).

L'elemento soggettivo

Nessun dubbio sulla necessità del solo dolo generico. Più discutibile, invece, è l'oggetto del formante volitivo del dolo. Se, infatti, non sussistono perplessità sulla necessità che il reo sia consapevole delle condotte persecutorie che pone in essere, e sulla potenzialità delle stesse a causare uno degli eventi, si è discusso da ultimo sulla necessità che un evento sia anche voluto quale specifica conseguenza dell'azione. Se, come visto in precedenza, la fattispecie in esame integra un delitto con evento di danno, ne dovrebbe seguire che il dolo copra anche l'evento.

Di contro la recente giurisprudenza, pur continuando a qualificare il reato di danno, ritiene sufficiente la consapevolezza della idoneità delle condotte alla produzione di uno dei tre eventi, non anche la rappresentazione anticipata del risultato finale (Cass. pen., Sez. V, n. 20993/2013).

Le ipotesi aggravate

La disposizione codicistica contempla, ai commi 2 e 3, due differenti circostanze aggravanti, speciali, di cui una ad effetto comune (comma 2) ed una ad effetto speciale (comma 3). A queste va aggiunta l'ulteriore aggravante speciale, ma ad effetto comune, di cui all'art. 8, comma 3, del d.l. 11/2009, concernente l'istituto dell'ammonimento.

Quanto alla prima ipotesi, la ratio dell'aggravamento sanzionatorio parrebbe risiedere nel fatto che i soggetti indicati dovrebbero essere coloro i quali, secondo l'indagine criminologica, più frequentemente potrebbero incorrere nella condotta vietata.

Con una discutibile scelta sistematica, un recente intervento legislativo (v. box infra) ha aggiunto nel corpo del comma 2 anche l'ipotesi del c.d. cyberstalking, cioè della persecuzione commessa attraverso strumenti informatici o telematici.

In evidenza

Il secondo comma dell'art. 612-bis c.p. è stato modificato per effetto dell'art. 1, comma 3, d.l. 14 agosto 2013, n. 93 con decorrenza dal 17 agosto 2013 così come modificato dall'allegato alla legge di conversione L. 15 ottobre 2013, n. 119 con decorrenza dal 16 ottobre 2013. Nella nuova formulazione è opportunamente stato espunto l'avverbio ‘legalmente' che accompagnava la qualità di coniuge separato o divorziato, consentendo di applicare la circostanza anche alle separazioni ‘di fatto', non ancora cristallizzate da un provvedimento giurisdizionale. La dottrina (v. Valsecchi, cit., p. 260) aveva evidenziato come già in Commissione Giustizia alla Camera erano emerse perplessità sulla formulazione (oggi previgente) dell'aggravante, ma l'Aula decise di non tenerne conto.

Anche nell'ipotesi circostanziata ricorre la locuzione ‘relazione affettiva', stavolta per selezionare una classe di autori ‘aggravati'. La dottrina aveva molto criticato l'impiego di una simile dicitura, denunciando la difficoltà di circoscriverne il contenuto di senso sul presupposto che ogni rapporto umano genera una relazione di tipo affettivo (Fiandaca, Musco, cit., p. 9, proponevano di limitare la portata della tipicità alle sole relazioni connotate da «rilevante intensità»). È bene segnalare che l'inciso in esame non è stato ‘coperto' dalla già menzionata pronuncia della Corte costituzionale, perché non ricompreso nel quesito oggetto di rimessione.

Secondo alcuni, per ragioni di coerenza interna alla fattispecie aggravata, il concetto di relazione affettiva – seguendo le condizioni di separazione o divorzio – deve essere limitato ai soli rapporti di natura sentimentale, anche a prescindere da una convivenza more uxorio.

Quanto al c.d. cyberstalking, la cui tipicità era già patrimonio interpretativo consolidato (Cass. pen., sez. VI, n. 32404/2010), il legislatore, preso atto della lettura giurisprudenziale, ha deciso di aggravare la pena riconoscendo un maggiore grado di offesa connesso al mezzo impiegato.

Meno problematicità, invece, denota la seconda aggravante (comma. 3), che offre una tutela rafforzata a soggetti che versano in condizioni fisiche da ‘minorata difesa', ovvero che stigmatizza particolari modalità dell'azione, quali l'uso di armi.

Quanto alla circostanza prevista dall'art. 8, comma 3 citato, si tratta di un aggravamento di pena previsto per il soggetto che, già ammonito, persista nella condotta persecutoria. La ragione dell'incremento sanzionatorio correttamente risiede nella particolare pervicacia criminale dimostrata dal reo che, pur invitato ad interrompere condotte pregiudizievoli, si ostina nel perpetrare il fatto di reato, rendendo necessario un trattamento differenziato orientato alla prevenzione speciale negativa.

Non punibilità per particolare tenuità del fatto

Il delitto risulta strutturalmente incompatibile con la nuova ipotesi di non punibilità scolpita dall'art. 131-bis c.p. Sul punto, peraltro, è possibile fare riferimento alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis c.p., non può essere applicata ai reati integrati da condotte plurime, abituali e reiterate, tra i quali rientra il delitto di atti persecutori la cui integrazione richiede la reiterazione della condotta tipica, ostativa ex lege al giudizio sulla tenuità ex art. 131-bis c.p., senza necessità di esplicita motivazione» (Cass. pen., Sez. V, 28 febbraio 2017 (dep. 27 marzo 2017), n. 14845).

Aspetti processuali

Il quarto comma dell'art. 612-bis prevede espressamente che il delitto di atti persecutori sia punito a querela di parte. Solo in alcuni casi eccezionali si è preferito ricorrere alla procedibilità ex officio.

Per segnalare la particolarità della fattispecie, e per testimoniare la significativa cura delle ragioni e dei turbamenti della vittima, il legislatore ha anche deciso di dilatare il termine di proponibilità della querela fino a sei mesi.

Si tratta di una scelta condivisibile, con la quale gli operatori hanno già avuto modo di confrontarsi in materia di reati contro la libertà sessuale (art. 609-septies c.p.). Si è invece omesso il riferimento, pur ivi contenuto, all'irrevocabilità della stessa.

Singolare che il reato sia procedibile a querela nonostante consenta l'applicazione di misure cautelari personali. Anzi, va segnalato come la pena massima sia stata da ultimo aumentata in sede di riforma del sistema cautelare, proprio al fine di mantenere la possibilità di irrogare misure privative della libertà personale.

A corredo della fattispecie incriminatrice, il decreto legge 11/2009 provvedeva altresì a rafforzare il quadro degli strumenti cautelari attraverso l'introduzione nel codice di procedura dell'art. 282-ter, concernente il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima (Marandola, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, p. 967 ss.). La misura, per quanto prima facie possa sembrare ‘ritagliata' sulla fattispecie in commento, in assenza di esplicite indicazioni legislative deve ritenersi applicabile indipendentemente dal titolo di reato contestato. In ogni caso, essa si inserisce nel solco già tracciato in passato dal legislatore con la l. 154/2001 in materia di violenza nelle relazioni familiari, la quale aveva portato all'introduzione dell'art. 282-bis c.p.p., rubricato “Allontanamento dalla casa familiare”.

Quel che è certo è che, a fronte di un margine edittale che consente anche la custodia cautelare, il giudice avrà a sua disposizione uno strumento aggiuntivo per perseguire al meglio il dovere di proporzionalità di cui all'art. 275, comma 2, c.p.p.

L'art. 282-ter c.p.p. si segnala per la precisione normativa: il comma 1 vincola il giudice all'individuazione di luoghi determinati di cui è vietata la frequentazione, in modo da consentire al ristretto una conoscenza puntuale degli spazi di movimento a sua disposizione e di quelli, invece, preclusi. Quanto alla persona offesa, il diritto di ricevere comunicazione del provvedimento la porrà in una situazione di vigilanza circa il rispetto dell'ordine da parte del (presunto) persecutore.

Dalla lettura combinata del comma 1 e del comma 4 deriva che, difettando l'ordinanza cautelare delle prescrizioni opportune, la stessa potrà essere denunciata, per invalidità, al Tribunale della Libertà, ovvero potrà esserne chiesta la revoca/modifica ai sensi dell'art. 299 c.p.p.

Stesso giudizio positivo merita la puntualizzazione di cui al comma 3, che attiene ai mezzi di comunicazione, i quali sovente diventano l'arma preferita dello stalker. L'inibizione delle comunicazioni, inoltre, può aver un “effetto sollievo” immediato per la vittima che, specie nelle ipotesi di approccio fisico blando, vedrà finalmente e repentinamente cessare le molestie in suo danno.

In forza della modifica apportata al comma 3 dell'art. 299 c.p.p. dal citato d.l. 14 agosto 2013, n. 93, anche la richiesta di revoca della misura in esame – proveniente dall'indagato – deve essere notificata, a pena di inammissibilità, al difensore della persona offesa, ovvero, in mancanza, alla persona offesa stessa.

In evidenza

Secondo Cass. pen., Sez. unite, 29 gennaio 2016 (dep. 16 marzo 2016), n. 10959 «La disposizione dell'art. 408, comma 3-bis, c.p.p., che stabilisce l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con "violenza alla persona", è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 c.p., in quanto l'espressione violenza alla persona deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario».

Misure cautelari reali

Innovando rispetto ad un precedente orientamento contrario, la più recente giurisprudenza ammette il sequestro della vettura utilizzata per commettere il delitto di atti persecutori.

Ed invero se secondo Cass. pen., Sez. III, 9 febbraio 2011 (dep. 8 marzo 2011), n. 8987 il sequestro poteva essere disposto, non essendo la vettura strutturata funzionalmente alla commissione del delitto, da ultimo sono intervenuti due arresti conformi secondo i quali «È legittimo il sequestro preventivo dell'automezzo utilizzato per commettere il reato di atti persecutori, in presenza dell'uso reiterato e sistematico di esso, finalizzato a produrre uno degli eventi previsti dall'art. 612-bis c.p.» (Cass. pen., Sez. V, 24 ottobre 2016 (dep. 16 gennaio 2016) n. 1826; in senso conforme Cass. pen., Sez. V, 11 aprile 2017 (dep. 30 maggio 2017), n. 26891)).

Interessante la situazione di fatto oggetto del giudizio di legittimità: nel primo caso gli automezzi in sequestro erano stati utilizzati dall'imputato, in numerose occasioni, nel corso del tempo, per impedire alla persona offesa l'utilizzazione delle aree immobiliari di sua proprietà e di quelle sulle quali aveva diritto al parcheggio, intralciando l'attività commerciale gestita dalla vittima e provocando a quest'ultima un perdurante stato d'ansia. Nel secondo, invece, l'indagato aveva reiteratamente utilizzato l'autovettura, oggetto di sequestro, per impedire l'accesso all'esercizio commerciale della persona offesa, intralciandone l'attività e provocandole un perdurante stato d'ansia.

L'ammonimento

L'art. 8 del d.l. 11/2009 disciplina l'istituto dell'ammonimento: la persona offesa, fino a quando non è sporta querela, può esporre all'autorità di pubblica sicurezza i fatti in base ai quali ritiene di poter essere esposta ad atti persecutori, chiedendo che il Questore adotti nel confronti del presunto autore un ‘avviso orale' con cui lo inviti a tenere una condotta conforme alla legge.

Trattandosi di misura invocabile solo fino a che non sia sporta querela, deve ritenersi che la stessa possa poggiare su fatti che non abbiano ancora raggiunto i crismi della tipicità. In quest'ottica l'ammonimento finisce per collocarsi in una posizione ben antistante le stesse misure cautelari, assumendo un carattere essenzialmente monitorio. L'organo di polizia, infatti, non è tenuto a compiere alcuna valutazione sul panorama indiziario posto alla sua attenzione, dal momento che solo “se necessario” assumerà ulteriori informazioni rispetto a quanto narrato dall'istante. Né è tenuto a valutare l'eventuale lesione del bene giuridico, ovvero la concreta offensività della condotta.

In evidenza

Molto incerta la natura giuridica dell'istituto. Da parte di alcuni si è detto che l'ammonimento parrebbe somigliare alle misure di prevenzione di cui alla l. 1423/1956, normativa che, appunto, contiene l'avviso orale coadiuvato dall'invito a tenere una condotta conforme alla legge (in tal senso, Marandola, cit., p. 963). Secondo altri (Tar Liguria – Genova, sentenza n. 31/2010), invece, l'ammonimento non sarebbe altro che un provvedimento amministrativo, simile all'avviso orale, il quale ultimo rappresenta il presupposto per l'emanazione della misura di prevenzione (art. 4, l. 1423/56).

Pochi dubbi che l'ammonimento rientri nella definizione generalmente data di misure di prevenzione, quali insieme di provvedimenti applicabili a soggetti considerati a vario titolo socialmente pericolosi e finalizzati a controllarne la pericolosità in modo da prevenire la commissione dei reati, e dunque applicabili indipendentemente dalla commissione di un reato. Certamente, però, la misura in commento non partecipa del procedimento applicativo delle misure di prevenzione, il che lo colloca più genericamente tra i provvedimenti di pubblica sicurezza.

Casistica

Misure cautelari e successione di leggi

- La nuova disciplina contenuta nell'art. 280, comma 2, c.p.p. (introdotta dalla legge 9 agosto 2013, n. 94, che ha convertito con modificazioni il d.l. 1° luglio 2013, n. 78), la quale ha innalzato da quattro a cinque anni il limite minimo del massimo edittale necessario per disporre la custodia cautelare in carcere, è applicabile anche ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore; tuttavia, avendo il medesimo intervento legislativo elevato nella stessa misura anche il massimo edittale previsto per il delitto di atti persecutori, la misura custodiale in carcere per tale reato, applicata con ordinanza emessa in data anteriore alla riforma, deve ritenersi tuttora efficace. (Cass. pen., Sez. V, n. 31839/2014).

Natura giuridica

- Il carattere del delitto di atti persecutori, quale reato abituale a reiterazione necessaria delle condotte, rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estende la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine di sei mesi per la sua proposizione, previsto dal quarto comma dell'art. 61-bis c.p. (Cass. pen., Sez. V, n. 20065/2015).

Querela e procedibilità

- Ai fini della proposizione della querela per il delitto di atti persecutori, il termine inizia a decorrere dalla consumazione del reato, che coincide alternativamente con "l'evento di danno" consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con "l'evento di pericolo" consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto. (Cass. pen., Sez. V, n. 17082/2015).

- È idonea ad estinguere il reato di atti persecutori anche la remissione di querela effettuata davanti a un ufficiale di polizia giudiziaria, e non solo quella ricevuta dall'autorità giudiziaria, atteso che l'art. 612-bis, comma 4, c.p., laddove fa riferimento alla remissione "processuale", evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli art. 152 c.p. e 340 c.p.p. (Cass. pen., Sez. V, n. 2301 2015).

- Il delitto di atti persecutori è procedibile d'ufficio se ricorre l'ipotesi di connessione prevista dal comma 4 dell'art. 612-bis c.p., da intendersi nel senso di necessaria interferenza fattuale edì investigativa tra il reato procedibile d'ufficio e quello di stalking. (Cass. pen., Sez. V, 3 febbraio 2017 (dep. 31 agosto 2017), n. 39758).

Rapporti con altre figure di reato

- l delitto di atti persecutori può concorrere con quello di lesioni personali. (Cass. pen., Sez. V, 19 gennaio 2017, (dep. 1 marzo 2017), n. 10051).

- Il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di "danno" consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva. (Cass. pen., Sez. III, n. 9222/2015).

- È configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l'art. 610 c.p. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l'art. 612-bis c.p. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà. (Cass. pen., Sez. V, n. 2283/2015).

- Il delitto di atti persecutori, avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di diffamazione anche quando la condotta diffamatoria costituisce una delle molestie costitutive del reato previsto dall'art. 612-bis c.p. (Cass. pen., Sez. V, n. 51718/2014).

- Il delitto di atti persecutori assorbe quello di minaccia ma non quello di ingiuria, perchè, mentre gli atti intimidatori rientrano tra gli elementi qualificanti della fattispecie, le ingiurie sono a questa estranee ed incidono su un bene della vita diverso da quello tutelato dall'art. 612 bis cod. proc. (Cass. pen., Sez. V, n. 41182/2014).

Sommario