Successione nel tempo di norme penali

Paolo Pittaro
21 Luglio 2016

La disciplina della legge penale nel tempo rientra, nel più ampio contesto, nel principio sulla efficacia della legge nel tempo, quale espressa dall'art. 11, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile (le c.d. preleggi), in forza del quale: "La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Le preleggi, tuttavia, come è ben noto, per quanto di una valenza etica e politica molto precipua, dal profilo strettamente giuridico hanno la forza della legge ordinaria.
Inquadramento

La disciplina della legge penale nel tempo rientra, nel più ampio contesto, nel principio sulla efficacia della legge nel tempo, quale espressa dall'art. 11, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile (le c.d. preleggi), in forza del quale:

La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo.

Le preleggi, tuttavia, come è ben noto, per quanto di una valenza etica e politica molto precipua, dal profilo strettamente giuridico hanno la forza della legge ordinaria. Pertanto, l'art. 11 pur stabilendo il fondamentale principio della irretroattività della legge, può ben essere derogato da una qualsiasi legge successiva, che stabilisca la retroattività di quanto viene a disporre.

Tenendo presente tale asserto e, soprattutto, l'esperienza del precedente regìme autoritario, il legislatore costituente ha delineato, nel quadro di una Costituzione rigida, ossia gerarchicamente sovraordinata rispetto alla legge ordinaria, la quale, quindi, non può derogarvi, alcuni princìpi fondamentali che reggono il settore penale, alla luce di una ratio non di certezza del diritto, ma di “garanzia” del soggetto.

E in tale contesto si colloca l'art. 25, comma 2, della Costituzione che viene a sancire il principio generale della irretroattività della legge penale:

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Tale principio viene inoltre ribadito dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Nessuna pena senza legge:

1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generale di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

Al di là di quanto disposto, in linea generale, dall'art. 11 preleggi, il codice penale viene a disciplinare, ed in modo dettagliato, la successione delle leggi penali nel tempo all'art. 2 c.p.:

1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

2. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

3. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.

4. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

5. Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

6. Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti.

Irretroattività della legge penale incriminatrice

Il primo comma dell'art. 2 c.p. sancisce il principio della irretroattività della legge penale incriminatrice, ripercorrendo (anche se cronologicamente anteriore) quanto stabilito dall'art. 25, comma 2, Cost. Sia la certezza del diritto che la garanzia del singolo sono alla base di tale dettato: in altri termini, violerebbe le regole del gioco che intercorre fra stato-persona e stato-comunità il punire ora per allora, ossia per un fatto che, al momento della sua commissione, non costituiva reato.

Retroattività della legge penale abrogratrice

Il secondo comma dell'art. 2 stabilisce, al contrario, la retroattività della legge penale abolitrice, non essendo possibile punire un fatto che costituiva reato al momento della sua commissione, ma divenuto penalmente lecito ai sensi di una legge successiva. Ai sensi del principio di certezza del diritto la disposizione non sarebbe stata necessaria, in quanto la punizione attiene a un fatto previsto come reato dalla legge del tempo, anche se non viene a contrastare con l'art. 25 cpv. Cost., essendo questo informato non sulla certezza del diritto bensì sulla garanzia del cittadino. Tuttavia, nessuno di questi due princìpi reggono tale disposizione, così come non si tratta di richiamare un generico favor libertatis, rispondendo, invece, la norma al rispetto del principio di eguaglianza (ora anche sancito dall'art. 3 Cost.). Infatti, un soggetto che sta scontando una pena per un fatto previsto come reato nel momento della sua commissione, verrebbe a sentire profondamente ingiusta tale sua condizione rispetto a un soggetto che ora commettesse l'identico fatto ma che, non essendo più previsto come reato dalla legge successiva, sarebbe del tutto lecito.

Pertanto, se il procedimento è pendente, il giudice dovrà prosciogliere l'imputato con la formula perché il fatto non costituisce reato; mentre, se è già stato condannato con sentenza passata in giudicato, di tale condanna ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

In altri termini, se sta scontando una pena detentiva deve essere rimesso in libertà; se deve pagare, anche parzialmente, la pena pecuniaria, non è tenuto a tale pagamento. Ovviamente, se la pena detentiva è stata completamente scontata ovvero quella pecuniaria è stata totalmente pagata, nulla quaestio: non esiste una forma di risarcimento ovvero di ripetizione dell'esborso, in quanto non ci si trova di fronte a un errore giudiziario, da riparare, magari a seguito di revisione del procedimento (art. 643 c.p.p.), posto che il soggetto è stato condannato correttamente alla stregua della legge al momento vigente, nel pieno rispetto della certezza di diritto.

Ne cessano, invece, gli effetti della condanna: ossia il soggetto viene a perdere lo status di condannato. Ne consegue, ad esempio, che, se violerà nuovamente la legge penale, verrà considerato come reo primario e non, se del caso, come recidivo (il quale, ex art. 99 c.p., è colui che, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro), ovvero potrà usufruire, sempre se del caso, della sospensione condizionale della pena (la quale, ex art. 164, comma 2, n. 1, non può essere concessa a chi ha riportato un precedente condanna a pena detentiva per delitto).

La legge posteriore abrogatrice, che non considera più il fatto come reato, può ora ritenerlo come giuridicamente lecito, ovvero come illecito amministrativo, anche a seguito della c.d. depenalizzazione, ovvero trasformato in un illecito civile (come nei casi di cui al d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7: Cass. pen., Sez. unite, 29 settembre 2016, n. 46688).

Conversione della pena detentiva in pecuniaria

Il comma 3 dell'art. 2 c.p. non è quello originale del codice ma è stato introdotto dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85. L'opzione logistica, invero, suscita varie perplessità, in quanto l'aver inserito tale nuova disposizione al terzo comma ha fatto slittare di un gradino tutti commi successivi: così l'originale comma 3 è divenuto comma 4; il comma 4 è divenuto comma 5; ed il vecchio comma 5 ora è divenuto il comma 6. Ne consegue la necessità di una pronunciata attenzione nella lettura di un qualsivoglia testo giuridico (sentenza ovvero opera della dottrina) che citi i commi dell'art. 2 c.p., posto che il dettato dal terzo comma in poi cambia a seconda che tale testo sia stato steso prima o dopo della legge n. 85 del 2006. Una diversa tecnica legislativa (ad es.: introdurre un comma 3-bis) avrebbe evitato tale complessità esegetica.

La disposizione contempla l'ipotesi di una condanna a pena detentiva mentre una legge posteriore preveda, per il medesimo fatto, una pena pecuniaria. Anche qui viene in gioco il principio di uguaglianza, posto che il condannato si vede scontare una pena detentiva per un fatto che, se compiuto successivamente, altri sconta con la pena pecuniaria. In tal caso, allora, la pena detentiva complessiva ovvero quella residua ancora da scontare viene immediatamente convertita in pena pecuniaria alla stregua dei parametri di cui all'art. 135 c.p. (allo stato: euro 250 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva).

Ovviamente, se la pena detentiva è già stata eseguita nella sua interezza, la disposizione non si applica: il soggetto è stato punito in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto, nel pieno rispetto della certezza del diritto.

Applicazione della legge più favorevole

L'attuale comma 4 dell'art. 2 c.p. prevede, a differenza dei primi due commi, una costanza di incriminazione pur nel susseguirsi di leggi diverse che disciplinino il medesimo fatto. In tal caso, se in pendenza del procedimento penale, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo: viene dunque a scattare il rispetto del favor rei nel contesto del principio di garanzia del singolo. A differenza del comma 2, tuttavia, il limite è rappresentato dalla sentenza irrevocabile di condanna, non venendo qui in gioco il rapporto fra norma incriminatrice e norma abrogatrice. Trattandosi, invece, di un fatto considerato penalmente illecito da tutte leggi che si sono succedute, ove il reo sia stato condannato sulla base della norma vigente al momento della commissione del fatto con sentenza ormai irrevocabile, vige il principio della certezza del diritto e non può richiamarsi il favor libertatis.

Rimane da chiedersi quale, nella successione delle leggi, debba considerarsi la più favorevole.

Scontata l'usuale ipotesi della norma penale seguita da una norma successiva che, rispetto alla prima, abbassi il minimo e alzi il massimo della pena edittale. Donde la soluzione nel senso che il giudice deve effettuare il confronto fra le due norme in concreto: se nella decisione intenderà orientarsi verso il minimo ovvero verso il massimo della pena edittale, applicando, di conseguenza, quella delle due più favorevole, ossia la seconda che presenta un minimo minore ovvero la prima che presenta un massimo meno elevato.

Ma la conclusione, invero, ha uno spettro più ampio, posto che il giudice non può limitarsi solo al confronto fra il quantum delle pene previste dalle varie leggi, ma deve effettuare un confronto sulla concreta situazione giuridica complessiva del reo, quale derivante a seconda dell'applicazione delle singole norme in esame ed applicare quella più favorevole al reo (cfr., per tutte, Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2016, n 3385; Cass. pen., Sez. III, 25 maggio 2016, n. 14198).

Così, ad esempio, se la prima legge prevede il fatto come delitto e la seconda come contravvenzione, sarebbe affatto erroneo ritenere la seconda più favorevole. Tenendo presente, invece, quanto disposto dall'art. 42 c.p., si dovrà vagliare se il delitto è stato commesso con dolo ovvero con colpa. Se commesso con dolo, la norma più favorevole sarà quella che prevede la contravvenzione, posto che per dolo viene punito sia il delitto che la contravvenzione. Se, invece, il soggetto ha commesso il fatto con colpa, posto che il delitto viene punito solo a titolo di dolo, sarà allora la prima legge ad essere la più favorevole, contemplando la non punizione. A meno che, ovviamente, nel singolo caso in esame la norma non preveda la punibilità anche nel delitto colposo, nella quale ipotesi, la norma più favorevole sarà quella contravvenzionale. Parimenti, il confronto potrebbe fondarsi su altri parametri, ma con il medesimo giudizio complessivo in concreto (ad es.: reato procedibile d'ufficio o a querela di parte ed a seconda chela querela sia stata presentata o meno; applicabilità della sospensione condizionale della pena o meno, e via dicendo).

Leggi eccezionali e temporanee

L'attuale comma 5 dell'art. 2 c.p. contempla la disciplina delle leggi eccezionali e di quelle temporanee. Le leggi eccezionali (da non confondere per mera assonanza con quelle di cui all'art. 14 delle preleggi) sono quelle emanate in relazione a realtà contingenti eccezionali (ad es.: terremoti, carestie, epidemie ecc.), mentre le leggi temporanee sono quelle prevedono esse stesse il tempo limitato della loro vigenza.

In tal caso la norma sancisce che non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti, da intendersi come quelli originali, ossia gli attuali commi 2 e 4. In altri termini, non vige il favor rei ovvero il favor libertatis, e si applica sempre e comunque la legge vigente al momento della commissione del fatto (certezza del diritto).

Essendo le leggi eccezionali e quelle temporanee atti che presentano sin dall'inizio una vigenza limitata, essendo le prime destinate ad essere abrogate con il cessare dell'accadimento eccezionale e le seconde nel tempo da esse stesse stabilito, da un lato è corretto concludere che la politica criminale del legislatore abbia deciso per la loro indiscussa applicazione nel lasso di tempo considerato. Dall'altro lato, se, come appare molto probabile, presumere che tali leggi siano di una pronunciata severità, per giocoforza al tempo della loro cessazione i fatti in precedenza contemplati verrebbero puniti di meno con le norme successive: di tal che, se dovessero applicarsi i capoversi precedenti, sin da subito il reo potrebbe contare sulle più benigne norme successive, ritendendo quasi conveniente commettere il reato.

Talvolta, si è parlato, in questo caso, di “ultrattività” della legge penale: una considerazione erronea, non trattandosi di una norma che viene applicata dopo la cessazione della sua vigenza, bensì ad un fatto di reato commesso proprio al tempo della sua vigenza, alla stregua, invece, del princìpio tempus regit actum.

La medesima disciplina vale anche nell'ipotesi di più leggi eccezionali ovvero temporanee in successione fra di loro, non essendo richiamabile, anche in questo caso, le disposizioni dei capoversi precedenti.

Il caso del decreto legge non convertito

L'attuale comma 6 dell'art. 2 c.p. presenta una irrisolta problematicità, contemplando il caso del decreto-legge non convertito o convertito con emendamenti. Nel delineare la fattispecie il codice si riferiva ovviamente alla disciplina del decreto-legge allora vigente. E, per l'appunto, l'art. 2 della legge 31 gennaio 1926, n. 100 (recante Sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche) affermava che il decreto-legge veniva a decadere ex nunc, ossia nel momento del rifiuto (da parte di una od ambedue le Camere) o di mancata conversione (entro il previsto termine dei due anni). Pertanto, veniva a configurarsi una classica successione di leggi nel tempo: legge previgente, decreto-legge, nuova (o precedente) legge, ove le varie scansioni si susseguivano senza soluzione di continuità. Donde il dettato del comma 6 (all'epoca: comma 5) dell'art. 2 c.p., il quale sancisce che quanto disposto da tutti i commi precedenti vale altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti.

Il quadro è nettamente cambiato con la Costituzione repubblicana, il cui art. 77, comma 3, afferma che i decreti-legge perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione: in altri termini essi decadono non ex nunc, come nella precedente normativa, bensì ex tunc, ossia tamquam non essent. Non ci si trova, allora, di fronte ad una regolare scansione normativa, ma caratterizzata da un vuoto fra due norme: legge precedente, vuoto determinato dal decreto legge non convertito, precedente legge.

Non essendo, pertanto, applicabile il comma 6 dell'art. 2, quid iuris?

La Corte costituzionale è intervenuta con la sentenza 22 febbraio 1985, n. 51, la quale ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma quinto [ora: sesto], c.p. nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nei commi secondo e terzo [ora: quarto] dello stesso art. 2 c.p.»: come dire che non può essere applicata la disposizione abrogatrice o ovvero più favorevole contenuta nel decreto legge non convertito.

La Consulta, tuttavia, non ha risolto completamente il problema, in quanto deve leggersi attentamente la motivazione della pronuncia, ove ha fatto una distinzione fra i fatti pregressi e quelli concomitanti al decreto-legge non convertito e, vincolata al criterio della rilevanza, ha risolto la questione sottoposta che concerneva un fatto di reato commesso prima dell'emanazione del decreto-legge più favorevole. Dichiarando l'incostituzionalità del comma 6 nei termini cennati, veniva ad impedire l'applicazione del decreto-legge più favorevole non convertito. Ma, in tal caso, non veniva a vulnerare in alcun modo la certezza del diritto: il reo veniva punito in base alla legge vigente nel momento della commissione del reato, e nulla importava se un decreto-legge successivo avesse disposto in modo più favorevole: in quanto non convertito era decaduto ex tunc, ossia da ritenersi come mai esistito (nello stesso senso, per una più recente, ma analoga fattispecie: Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 2017, n. 48570).

Rimaneva, pertanto, aperta la questione relativa ad un fatto commesso proprio durante la vigenza (i citati 60 giorni) del decreto-legge più favorevole, ma poi non convertito e, quindi, tamquam non esset. Da un lato, essendo il decreto inesistente non potrebbe applicarsi la disposizione più favorevole e, quindi, il soggetto dovrebbe essere punito sulla base della norma precedente più severa. Dall'altro lato, si afferma che, comunque, la norma era vigente del tempo della commessione del fatto e, quindi, aveva costituito un criterio di orientamento da parte del soggetto e che applicargli una norma diversa (in quel momento non vigente) avrebbe violato proprio il fondamentale principio della irretroattività della legge penale, posto che la soluzione della decadenza ex tunc, era solo giuridicamente formale e non reale.

Il problema rimane, invero, senza una precisa soluzione. È ben vero che sempre l'art. 77 Cost. prosegue affermando che «le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti» ma si tratta pur sempre di una facoltà e non di un automatismo. È stato pure affermato che, a fronte di un contrasto fra due disposizioni costituzionali, quali l'art. 25, comma 2, ispirata ad una ratio di garanzia del singolo, e l'art. 77 che disciplina il meccanismo del decreto-legge, pur essendo esse sul medesimo piano nel contesto della gerarchia delle fonti del diritto, la prima, se non giuridicamente, dal punto di vista valoriale prevarrebbe sulla seconda, trovandosi nella Prima parte della Carta, dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini, mentre l'altra è situata della Seconda Parte della Carta, dedicata all'Ordinamento della Repubblica. Tale rilievo, certamente suadente, tuttavia, non è affatto accettabile per le conseguenze aberranti cui potrebbe condurre. Infatti, il Governo (ossia: chi detiene il potere) potrebbe emanare mediante decreto-legge una serie di disposizioni penali a se stesso favorevoli, inerenti a reati commessi dai suoi esponenti, nella assoluta certezza che il Parlamento non convertirà mai in legge tale decreto, ma che, seguendo l'impostazione appena cennata, le disposizioni più favorevoli del decreto-legge dovrebbero trovare comunque applicazione per la preminenza dell'art. 25 rispetto all'art. 77 Cost.

In definitiva, pur a distanza di 70 anni dalla Costituzione, il comma 6 dell'art. 2 c.p. attende ancora un intervento da parte del legislatore, anche se, dobbiamo riconoscerlo, non ci sono stati finora casi pratici che premessero in tal senso.

La norma penale dichiarata costituzionalmente illegittima

Un problema non dissimile riguarda l'applicabilità nel tempo di una norma penale dichiarata costituzionalmente illegittima. L'art. 136 Cost. dispone che

Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione

A sua volta la legge 11 marzo 1953, n. 87 (recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) dispone, all'art. 30, commi 2 e 3, che:

Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione

Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.

Come dire che l'annullamento, da parte della Corte, di una legge penale incriminatrice, è retroattivo e la relativa sentenza di condanna, basata su tale disposizione, vede cessarne l'esecuzione e gli effetti penali, al pari di quanto disposto, all'art. 2, comma 2, c.p., nei confronti di una legge penale abrogatrice. Una soluzione del tutto lineare: nel caso contrario, proprio la parte che ha sollevato l'eccezione di legittimità costituzionale della legge penale con la quale è stata condannata e che ha visto la Corte accogliere tale eccezione, se la decisione non fosse retroattiva, proprio lei che ha investito la Corte della questione, non potrebbe usufruirne.

Pertanto, in tal caso dovrà disporsi la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p., Revoca della sentenza per abolizione del reato, che al comma 1 prevede:

Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.

Parimenti, se la Consulta dovesse dichiarare l'illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante, spetta al giudice dell'esecuzione riformulare la pena. Come nel caso della pronuncia della Corte cost., 8 luglio 2010, n. 249, che ha sancito l'incostituzionalità del n. 11-bis dell'art. 61 c.p. (introdotto dall'art. 1, d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella l. 24 luglio 2008, n. 125), il quale aveva disposto la circostanza aggravante (comune ad effetto comune) per l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale.

La Suprema Corte, superando alcune espresse perplessità, aveva concluso interpretando il disposto dell'art. 30 della legge 87 del 1953 nel senso che il riferimento alla "norma dichiarata incostituzionale" può essere interpretato in relazione a qualsiasi tipologia di "norma penale", comprese quindi le circostanze aggravanti, e concludendo che il giudice dell'esecuzione non debba procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma che a costui spetti, più precisamente, il compito di individuare la porzione di pena riferibile all'aggravante invalida e di dichiararla "non eseguibile” (Cass. pen., Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 977).

Parimenti, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato anche se il provvedimento “correttivo” da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli sempre avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione (Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858).

Si veda pure, in riferimento ad altre fattispecie, Corte cost., 18 aprile 2014, n.106; Corte cost., 15 novembre 2012, n. 251; Corte cost., 7 aprile 2016, n. 74 (incostituzionalità del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti in alcune ipotesi contemplate dall'art. 69 c.p.: Cass. pen.,Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858); Corte cost, 18 luglio 2013, n. 210 (incostituzionalità del divieto di trasformare, nel giudizio abbreviato, la pena dell'ergastolo in 30 anni di reclusione: Cass. pen.,Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821); Corte cost., 25 febbraio 2014, n. 32 (incostituzionalità della norma che parificava la sanzione delle droghe pesanti con quelle leggere Cass. pen.,Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 22471).

Fin qui, dunque, nulla quaestio.

Il problema nasce nell'ipotesi in cui la Corte si fosse pronunciata per l'illegittimità costituzionale di una norma penale di favore, il cui annullamento porterebbe alla sua disapplicazione e, magari, alla conseguente applicazione di una precedente norma penale incriminatrice più severa.

Innanzi tutto, deve rimarcarsi che la Corte costituzionale, con la fondamentale sentenza 3 giugno 1983, n. 148 (ove si trattava di una questione relativa ad una condizione di punibilità), ha affermato che è ben vero che il principio di legalità impedisce che la Corte, mediante una sua pronuncia, venga a configurare nuove norme penali, determinando conseguenze sfavorevoli per l'imputato, ma ha altresì ribadito che le norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento. Pertanto anche tali disposizioni devono sottostare al suo sindacato «a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile». Per quanto «lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe reagire all'annullamento di norme del genere, non è un quesito cui la Corte possa rispondere in astratto, salve le implicazioni ricavabili dal principio d'irretroattività dei reati e delle pene; sicché, per questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi) inerente all'interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell'ambito delle rispettive competenze».

In effetti, la Cassazione ha affermato che quanto disposto dalla norma penale più favorevole può comune applicarsi, anche se successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima, in quanto, all'epoca, criterio di orientamento per il soggetto. Pertanto, in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole, la norma dichiarata incostituzionale può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza, ove la sua disciplina conduca in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato (Cass. pen., Sez. IV, 26 settembre 2014, n. 44808). Parimenti, la norma incriminatrice più severa, ripristinata per effetto della pronuncia di incostituzionalità di una successiva norma penale di favore, non può essere applicata ai fatti commessi sotto la vigenza di quest'ultima, ma opera per tutti quei fatti pregressi commessi nella vigenza della norma non ancora modificata in senso più favorevole dalla disciplina dichiarata incostituzionale (Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2016, n. 28233).

La legge d'interpretazione autentica

Una legge di interpretazione autentica, com'è noto, ha efficacia ex tunc. Ciò non toglie, tuttavia, ch'essa debba sottostare ai princìpi dell'art. 2 c.p., ove il reato sia stato commesso prima della sua approvazione. Ovviamente, se la nuova interpretazione è più favorevole al reo dovrà applicarsi immediatamente. Se, invece, la nuova interpretazione è contra reum, continuerà ad applicarsi la norma nella precedente interpretazione più favorevole, in quanto essa fungeva da criterio di orientamento per il reo nella commissione del fatto. Sul punto si è affermato che il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua ratio ispiratrice, l'area operativa, perché finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (Cass. pen., Sez. unite, 19 aprile 2012, n. 34472).

I mutamenti giurisprudenziali

A diversa conclusione deve, invece, pervenirsi nell'ipotesi che, nel tempo, si modifichi l'orientamento della giurisprudenza, venendo a attribuire al medesimo fatto una diversa valutazione giuridica, specie se più favorevole al reo, magari mediante l'azione nomofilattica propria della Suprema Corte di cassazione. Ebbene, come il giudice, ai sensi dell'art. 101 Cost., è soggetto solamente alla legge, così la sua sentenza non può essere modificata da pronunce giurisprudenziali successive di diverso segno, anche se consolidate, persino se più favorevoli al reo.

Abrogatio sine abolizione

Spesso una legge successiva viene ad abrogare palesemente una precedente norma penale incriminatrice. Il che non significa che il fatto (scilicet: la fattispecie concreta) ivi disciplinato sia diventato penalmente lecito, potendo ben rientrare in altra fattispecie incriminatrice preesistente: è l'ipotesi della abrogatio sine abolizione. Si pensi al classico esempio dell'abrogazione del delitto d'onore (art. 587 c.p., abrogato dall'art. 1 della legge 5 agosto 1981, n. 442), ma il cui fatto veniva a ricadere nella fattispecie dell'omicidio (art. 575 c.p.) o di lesione personale (art. 582 c.p.). In tal caso veniva ad applicarsi, in relazione del tempo in cui il fatto è stato commesso, la disposizione più favorevole ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p.

La questione si complica quando la nuova disposizione viene a contemplare, rispetto alla precedente formalmente abrogata, frammenti identici e frammenti innovativi. Così, una norma formalmente abrogratrice della precedente potrebbe introdurre una diversa, più ampia o più restrittiva, disciplina, oppure far rivivere una disposizione a sua volta abrogata dalla legge precedente, ovvero ancora far rientrare la fattispecie concreta in altra norma preesistente di diversa portata. Inutile rimarcare la complessità delle posizioni che possono presentarsi, il ventaglio del fenomeno successorio e la necessità di individuare criteri in modo da trovare, di volta in volta, la soluzione giuridicamente corretta.

Si pensi, a titolo d'esempio, al delitto di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2621 c.c., sostituito dall'art. 1 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, successivamente dall'art. 30, comma 1, l. 28 dicembre 2005, n. 262, e poi ancora dall'art. 9, l. 27 maggio 2015, n. 69. Emblematico il caso del nuovo art. 590-sexies c.p. (introdotto dall'art. 6 l. 8 marzo 2017, n. 24: c.d. legge Gellii Bianco), che trova applicazione solo ai fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della novella, mentre per i fatti anteriori può trovare ancora applicazione, ai sensi dell'art. 2 c.p., la disposizione di cui all'abrogato art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n.158 (c.d. decreto Balduzzi, poi convertito, con modificazioni, dalla l. 8 novembre 2012, n. 189), che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte lesive connotate da colpa lieve nei casi in cui il sanitario si fosse attenuto alle linee guida accreditate dalla comunità scientifica (Cass. pen.,Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187).

La dottrina si è lungo interrogata in merito, delineando, via via, vari criteri (quali quelli di continenza, di continuità nel disvalore nell'illecito, di identità del bene protetto, finché la Suprema Corte non ha sancito (Cass. pen., Sez. V, 8 maggio 2002, n. 21532) che l'unico criterio valido è quello di specialità (art. 15 c.p.), per cui se fra le norme non v'è il rapporto da generale a speciale, ci si trova dinanzi ad una abrogazione; mentre se alla norma generale segue una speciale in quanto questa contiene elementi di specificazione, per la parte in comune persiste la situazione di illeceità, con l'applicazione della disposizione più favorevole (art. 2, comma 4 c.p.), mentre per la nuova specificazione vale il principio della irretroattività (art. 2, comma 1 c.p.).

La normativa processuale penale e quella dell'esecuzione penale

Sorge la questione se quanto finora esposto di applichi solamente alle norme di diritto penale sostanziale ovvero pure a quelle processuali. La risposta, in genere è negativa, dovendosi invece applicare, per quanto concerne il processo, il principio tempus regit actum (per tutte, da ultimo, Cass. pen.,Sez. V, 3 aprile 2017, n 35588).

Al di là delle distinte opzioni dommatiche, il tutto va risolto alla luce della individuata ratio di garanzia, tenendo sempre presente che le norme dell'intero sistema penale devono porsi come criterio di orientamento per le scelte di fondo relative alla condotta del soggetto.

Così, per quanto riguarda il reato punibile a querela di parte e, successivamente, procedibile d'ufficio, deve considerarsi il fatto che il soggetto, nello scegliere la sua condotta, aveva tenuto conto che, per i rapporti interpersonali con la persona offesa, questa non avrebbe presentato querela, e che, di conseguenza, continua ad applicarsi la prima disposizione, come peraltro previsto dall'art. 36 disp. att. c.p.

Parimenti, ove la legge successiva abbia mutato, allargandoli, i termini di prescrizione del reato, necessita distinguere se i termini di prescrizione siano spirati, nel qual caso non possono essere fatti rivivere, dilatandoli, dalla nuova disciplina, ovvero se essi siano ancora in corso, nel qual caso si può ben sottostare ai nuovi termini protratti nel tempo. Soluzione, peraltro, avallata dalla Consulta, allorché ha affermato che nessuna tutela può essere offerta al soggetto che, dopo la commissione del reato, si nasconde ed evita il giudizio, attendendo che lo scorrere del tempo faccia scattare la prescrizione del suo illecito criminale (Corte cost.,17 dicembre 1999, n. 452).

Non dissimile conclusione ove una legge successiva abbia ampliato i termini di custodia cautelare. Se essi sono già scaduti, non è possibile farli rivivere nella nuova previsione normativa; se, invece, la carcerazione preventiva è ancora in corso, ben può sottostare alla dilatazione dei termini prevista dalla nuova legge (Corte cost., 1° febbraio 1982, n. 15).

Sorge la questione sulla disciplina relativa alle disposizioni attinenti alla esecuzione penale. Non v'è dubbio che, formalmente, esse appartengano al diritto processuale, ma che, concretamente, risolvendosi nelle modalità alla cui stregua scontare la sanzione criminale, abbiano un deciso risvolto sostanziale (Cass. pen.,Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 6013).

Nell'ipotesi di un aggravamento delle condizioni stesse, si opera una distinzione: vale comunque il principio tempus regit actum, ma se il soggetto, sulla base della vecchia normativa, avesse già maturato le condizioni per usufruire, ad esempio, di una misura alternativa, premiale o, comunque, giuridicamente a lui più favorevole, questa in ogni caso deve essergli concessa (Corte cost., 16 marzo 2007, n. 79; Corte cost., 4 luglio 2006, n. 257). Tuttavia, più di recente, ha escluso l'applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all'epoca della sua introduzione, negando l'illegittimità della relativa disciplina intertemporale (Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240).

La disciplina delle misure di sicurezza

Lo stesso art. 25 Cost., al comma 3, viene a disciplinare le misure di sicurezza con una formula del tutto similare a quella del precedente comma 2, ma senza ripetere la formula della irretroattività:

Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.

Peraltro lo stesso art. 200 c.p. Applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al tempo, al territorio e alle persone, afferma che:

Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione.

Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell'esecuzione.

Dal confronto fra le due disposizioni si potrebbe sostenere nel senso che la Costituzione abbia sancito, da un lato, il principio della irretroattività della pena e, dall'altro, quello della possibile retroattività delle misure di sicurezza.

Tale conclusione, tuttavia, appare alquanto superficiale e deve essere approfondita, tenendo presente la disciplina delle misure di sicurezza, quale delineata da codice penale.

È così possibile delineare varie ipotesi.

Innanzi tutto, posto che, ex art. 202 c.p., il presupposto per applicare una misura di sicurezza, oltre alla pericolosità (art. 203 c.p.) consiste nel fatto che il soggetto abbia commesso un reato (ovvero un quasi-reato: artt. 49 e 115 c.p.), e che la previsione del fatto di reato soggiace al dettato di cui all'art. 25, comma 2, Cost., ne deriva che non è possibile disporre una misura di sicurezza per un fatto che, nel momento della sua commissione non costituiva un illecito criminale.

In secondo luogo, ci si chiede se sia possibile disporre una misura di sicurezza ad un fatto di reato che, al momento della sua commissione, non la prevedeva ovvero di mutarne la tipologia. La risposta affermativa della giurisprudenza sul punto è costante (da ultimo: Cass. pen.,Sez. III, 20 febbraio 2018, n. 14598; Cass. pen., Sez. IV, 27 gennaio 2009, n. 9986), mentre la dottrina è prevalentemente contraria.

In definitiva, la mancata irretroattività sarebbe prevista solamente nella fase dell'esecuzione delle misure, che seguono quanto disposto dalle leggi vigenti nel momento e, quindi, anche da quelle successive alla prima che aveva dato inizio al trattamento del soggetto pericoloso Questa correlazione fra attualità della pericolosità e modalità esecutive delle misure di sicurezza (Corte cost., 29 maggio 1968, n. 53; Corte cost., 30 gennaio 1974, n. 19; Corte cost., 12 novembre 1987, n. 392), muove dalla loro natura giuridica, che non riveste l'afflittività propria della pena, ma consiste in un trattamento atto a rimuovere la pericolosità del soggetto. E, probabilmente, il legislatore (anche costituente) ha ritenuto che il mutamento nella sua esecuzione fosse dettato dal progresso scientifico e, quindi, tale da rendere il trattamento stesso più efficace e, di converso, quasi ex se, a favore del soggetto. Il che, ovviamente, è tutto da dimostrare.

Ciò che conta, invece, è di evitare la “truffa delle etichette”, ossia che il legislatore, al fine di eludere il divieto di irretroattività della pena, denomini la stessa come misura di sicurezza, anche se rimane, in ogni caso, compito della Corte costituzionale vigilare sul rispetto sostanziale e non solo formale delle disposizioni della Carta, nonostante i possibili sotterfugi linguistici del Legislatore.

Il tempus commissi delicti

Ovviamente quanto finora delineato sconta un presupposto necessario: che sia fissato il tempus commissi delicti, in ordine al quale poter applicare i cennati princìpi.

Se si tratta di un reato di pura condotta, se il reato è unisussistente in quel momento verrà fissato la consumazione del reato. Se la pura condotta consiste in una sequela di atti, il tempo sarà quello dell'ultimo atto (per i reati omissivi: il momento in cui doveva essere compiuta la condotta doverosa). Se il reato è di evento, il tempo del commesso reato sarà sempre quello della condotta, ossia quando il reo ha violato la norma e conclusa la sua azione, innescando il nesso causale (da lui ora indipendente, al di là della diversa e distinta ipotesi del recesso attivo di cui all'art. 56, comma 4, c.p.).

Invece, per quanto riguarda i reati di durata (reato permanente ovvero abituale) il tempo del commesso reato sarà quello non dell'atto iniziale ma di quello finale della condotta. E tale individuazione non viene a violare la ratio di garanzia costituzionalmente rilevante, in quanto, nell'ipotesi che durante la permanenza del reato venga approvata una nuova legge penale che venga ad aggravare la punibilità del reo, questi può ben cessare la sua condotta (ad esempio, nel reato di sequestro di persona ex artt. 605 o 630 c.p., liberando l'ostaggio), mentre il persistere nel suo agire criminoso significa aver accettato il rischio della nuova e più severa normativa. Ovviamente, deve essere stato messo in grado di conoscere la norma innovativa e di agire di conseguenza, il che non è sempre scontato nell'ipotesi di una disposizione che entri in vigore nel medesimo giorno della sua pubblicazione e non dopo i consueti 15 giorni di vacatio. Tale particolare caso non è qui impostabile, anche se può premettersi che vada a risolversi sulla base dolosa dell'elemento soggettivo del reato.

In conclusione

In conclusione, a fronte di quanto finora delineato in ordine all'istituto della successione della legga penale nel tempo, rimarchiamo due notazioni, suscettibili di ulteriori sviluppi nel futuro, ed ambedue riferibili a quanto disposto dalla CEDU o, rectius, dall'interpretazione che di essa ne ha dato la Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU) ed a cui siamo obbligati a conformarci (Corte cost., le note “sentenze gemelle” n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007) ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost.

In primo luogo, in riferimento all'art. 7 della Cedu (Nessuna pena senza legge), la Corte Edu ha affermato che le misure devono definirsi sostanzialmente come penali in relazione alla natura dell'illecito ed alla natura e alla gravità (afflittività) della sanzione, ed indipendentemente dalla definizione loro data dall'ordinamento nazionale (Corte Edu, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976). Il che sta a significare che anche le norme processuali e quelle dell'ordinamento dell'esecuzione penale, in quanto capaci di incidere, in definitiva, sulla sanzione penale, potrebbero godere delle garanzie proprie delle norme penali sostanziali: e, fra esse, il principio della irretroattività e non necessariamente di quello del tempus regit actum.

In secondo luogo, la Corte Edu ha stabilito il principio della prevedibilità. Ben nota, da ultimo, la vicenda Contrada: la Corte Edu, Sez. IV, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, che ha condannato l'Italia in quanto la fonte meramente giurisprudenziale della norma incriminatrice (concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis c.p.) doveva datarsi a partire dalla sentenza Demitry (Cass. pen, Sez. unite, 5 ottobre 1994, n. 16), mentre i fatti addebitati al ricorrente erano precedenti a tale data e, quindi, l'innovazione esegetica giurisprudenziale non era da lui prevedibile. Donde la violazione del divieto di retroattività della norma penale espresso dall'art. 7 Cedu.

Natura penalmente sostanziale della norma e prevedibilità della stessa (anche se di decisione giudiziale) sono due accenti che potrebbero, per certi versi, anche mutare la tradizionale impostazione della legge penale del tempo.

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