Attività medico-chirurgica

Vittorio Nizza
25 Settembre 2015

L'esercizio dell'attività medico-chirurgica determina una serie di problematiche che possono comportare risvolti anche in ambito penale e che hanno comportato il sorgere di un articolato dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza su numerose questioni. La condotta del medico, infatti, sebbene normalmente sia caratterizzata da una chiara finalità terapeutica, può comportare, almeno nell'immediato, una qualche forma di alterazione anatomica o funzionale dell'organismo (si pensi ad esempio all'intervento chirurgico che implica necessariamente un'incisione operatoria, ma anche ad un'attività diagnostica di tipo invasivo o di somministrazione di farmaci con possibili effetti collaterali). La giurisprudenza ha, quindi, affrontato nel tempo una serie di problematiche, quali, ad esempio, il fondamento di liceità dell'attività medico e, di conseguenza, la rilevanza giuridica del consenso validamente prestato dal paziente ...
Inquadramento

L'esercizio dell'attività medico-chirurgica determina una serie di problematiche che possono comportare risvolti anche in ambito penale e che hanno comportato il sorgere di un articolato dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza su numerose questioni. La condotta del medico, infatti, sebbene normalmente sia caratterizzata da una chiara finalità terapeutica, può comportare, almeno nell'immediato, una qualche forma di alterazione anatomica o funzionale dell'organismo (si pensi ad esempio all'intervento chirurgico che implica necessariamente un'incisione operatoria, ma anche ad un'attività diagnostica di tipo invasivo o di somministrazione di farmaci con possibili effetti collaterali).

La giurisprudenza ha, quindi, affrontato nel tempo una serie di problematiche, quali, ad esempio, il fondamento di liceità dell'attività medico e, di conseguenza, la rilevanza giuridica del consenso validamente prestato dal paziente; l'eventuale rilevanza penale della condotta del medico in caso di esito fausto o infausto, soprattutto in caso di intervento arbitrario (per consenso invalido o mancante, o di trattamento oltre il consenso, o nei casi estremi di dissenso espresso).

Il fondamento dell'attività medica (ad eccezione dei casi degli interventi obbligatori o assolutamente necessari ed urgenti), secondo l'impostazione oggi prevalente, è da ricercarsi nel consenso del paziente, che rappresenta quindi il presupposto di liceità o di legittimità del agire del medico. Tale presupposto indefettibile, che giustifica il trattamento sanitario, viene rinvenuto nella scelta libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone, nel rispetto dei principi costituzionali di tutela dei diritti della persona e della salute ex artt. 2, 13 e 32 della Cost. (Corte Costituzionale n. 438 del 2008). Alla luce di tali principi il paziente correttamente informato deve essere libero di scegliere non solo a quale trattamento sottoporsi ed a quale medico affidarsi, ma eventualmente anche di non sottoporsi a nessun trattamento o interrompere le cure già in corso (salvo i casi di trattamenti sanitari obbligatori).

La materia di consenso è stata per la prima volta regolamentata con l'approvazione della legge 219 del 2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) che in parte disciplina il consenso informato e in parte le disposizioni anticipate di trattamento.

In evidenza

il consenso del paziente rappresenta il fondamento di liceità dell'attività medica. Il consenso per essere validamente prestato deve essere: personale, espresso, attuale, libero, effettivo e naturalmente informato e consapevole.

Il consenso per essere ritenuto validamente prestato deve essere, secondo i parametri elaborati dalla Giurisprudenza: personale, ossia provenire dalla persona che subirà il trattamento (salvo i soggetti incapaci o minori); espresso; attuale, ossia precedente all'attività medica; libero da vizi della volontà; effettivo; informato e consapevole rispetto a tutti i rischi, alle probabilità di successo ed alle possibili alternative. Le informazioni devono essere fornite dal medico curante in modo tale che siano comprensibili per quello specifico paziente.

Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso video registrazioni o dispositivi che consentano di comunicare per le persone con disabilità. Il consenso deve essere inserito nella cartella clinica (art. 1, comma 4, l. 219/2017).

Si precisa, infine, che parzialmente diversa è la valutazione che deve essere fatta in relazione agli interventi di chirurgia plastica ove non è presente un carattere di urgenza, ma anzi si è messo in dubbio che sussista la stessa finalità terapeutica, trattandosi di interventi su soggetti sani. In questa tipologia di interventi, incombe sul sanitario un dovere di informazione più pregnante, che va oltre la semplice prospettazione ed enumerazione dei rischi, delle modalità e delle possibili scelte, ma deve estendersi ad un giudizio globale della persona, come la stessa risulterà dopo l'intervento (Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 2092).

Eventuale rilevanza penale dell'attività medica

Trattamento medico arbitrario. Il consenso validamente prestato dal paziente costituisce il fondamento di legittimità dell'attività medica, rimane però discusso se è quali profili di responsabilità penale possano individuarsi in capo al medico che operi in assenza o oltre il consenso. Si parla in tal caso di trattamento medico arbitrario, il quale ricomprende le ipotesi di assenza di consenso, di consenso non validamente prestato, nonché di consenso prestato per un trattamento diverso di quello poi effettivamente eseguito.

Sul punto si differenzia il caso di esito fausto dell'intervento medico da quello infausto.

Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite a seguito di contrasto giurisprudenziale in merito ai possibili reati configurabili in capo al medico che ponga in essere un trattamento arbitrario, nella specie più invasivo di quello concordato con il paziente, ma con esito fausto (Cass. pen., Sez. unite, 21 gennaio 2009, n. 2437). La Suprema Corte ha escluso che in un caso siffatto potesse configurarsi il reato di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. poiché nel caso di operazione l'elemento costitutivo del reato rappresentato dalla “violenza” e l'evento di coartazione che si imporrebbe alla persona offesa di subire finirebbero per coincidere nell'operazione medica stessa, rendendo così tecnicamente impossibile la configurabilità del reato in oggetto.

Nella medesima pronuncia, la Suprema Corte ha analizzato anche la problematica relativa alla configurabilità del reato di lesioni dolose di cui all'art. 582 c.p. In merito all'ipotizzabilità di tale reato, vengono affrontati due aspetti: la configurabilità dell'elemento soggettivo e dell'evento delle lesioni. Sul primo aspetto, la Corte evidenzia come l'attività sanitaria in genere abbia di per se una finalità terapeutica, ossia orientata alla realizzazione di un beneficio per il paziente, e, quindi, sia di per se incompatibile con l'elemento soggettivo del dolo di cui all'art. 582 c.p. (salvo il caso del sanitario che abbia agito con la finalità di ledere).

La Suprema Corte, inoltre, analizza il concetto di “malattia” giuridicamente rilevante, che non comprenderebbe tutte le alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale, ma solo quelle alterazioni da cui derivi un'alterazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo significativa, anche se non definitiva. “Le conseguenze dell'intervento chirurgico non potranno coincidere con l'atto operatorio in se e con le lesioni che esso naturalisticamente comporta, ma con gli esiti che quell'intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute”.

Pertanto, la condotta del medico che abbia eseguito un intervento, seppur arbitrario, ma nel rispetto delle legis artis e con esito fausto, ossia con un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, è priva di rilevanza penale.

Diversa soluzione viene a delinearsi nel caso in cui l'intervento abbia esito infausto, in tal caso potrebbe ipotizzarsi il reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p., o di omicidio colposo ex art. 589 c.p. nel caso di morte del paziente, valendo anche in tale caso il ragionamento in merito all'esclusione della configurabilità dell'elemento soggettivo del dolo.

Dissenso espresso al trattamento sanitario e disposizioni anticipate di trattamento. Maggiori problemi sussistono nelle ipotesi di dissenso espresso del malato ad essere sottoposto ad un trattamento sanitario o a proseguire le cure già in corso, salvo i casi in cui si tratti di un trattamento obbligatorio per legge, per cui la condotta del medico sarà scriminata ai sensi dell'art. 51 c.p.

Occorre sottolineare che con l'entrata in vigore il 31 gennaio 2018 della legge 219 del 2017 è stato per la prima volta disciplinata la materia del consenso informato e quindi anche del dissenso ad iniziare o proseguire le cure, oltre che il problema dei limiti e della validità delle disposizioni anticipate.

La norma sancisce il diritto di ciascuno, purché capace di agire, di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario (compresi la nutrizione e l'idratazione artificiale). Come per il consenso, anche il dissenso deve essere documentato in forma scritta, su supporto video o tramite altri dispositivi idonei per le persone con disabilità. Naturalmente il paziente può sempre revocare la propria disposizione di volontà in merito alle cure.

La volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo deve essere rispettata dal medico, il quale, quindi, in tal caso andrà esente da responsabilità civile o penale. In ogni caso il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico – assistenziali; a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi assistenziali. (art. 1, comma 6, l. 219/2017)

Occorrerà attendere l'effettiva portata applicativa della norma, ma in ogni caso, la giurisprudenza maggioritaria oggi riconosce la configurabilità in capo al medico che pur a fronte di un espresso dissenso del paziente ponga in essere il trattamento terapeutico, seppur ritenuto essenziale, il reato di violenza privata ex art. 610 c.p.. Tale condotta del medico costituirebbe un'indebita violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, sebbene la stessa sia mossa da fini terapeutici. Sarebbero, invece, da escludere i reati di lesioni o omicidio per assenza dell'elemento soggettivo (ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Tivoli del 17 febbraio 2017).

In evidenza

Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile e penale.

L'articolo 4 della legge 219/2017 introduce inoltre la possibilità attraverso i Dat (Disposizioni anticipate di trattamento) per le persone maggiorenni e capaci di intendere e volere di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari (consenso o rifiuto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche o singoli trattamenti) in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. I Dat devono essere preceduti da adeguate informazioni mediche sulle conseguenze di tali scelte. I Dat devono essere redatti per atti pubblico o scrittura privata autenticata e annotati in apposito registro.

Nella disposizione l'interessato deve nominare un “fiduciario” che – previa accettazione - ne farà le vece e lo rappresenterà nel rapporto con i medici e le strutture sanitarie.

Le disposizioni possono essere disattese in tutto o in parte dal medico, in accordo con il fiduciario, qualora appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Orientamenti a confronto. Dissenso espresso

Legittimità del dissenso a continuare le cure in caso di stato vegetativo conclamato (caso Englaro): requisiti del consenso prestato dal tutore

In tema di attività medica e sanitaria, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un potere "incondizionato" di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Cass. civ.

,

Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.

Dissenso espresso: requisito dell'attualità

Il dissenso all'emotrasfusione da parte del paziente geovista capace di intendere e volere è legittimo in quanto espressione della propria libertà di autodeterminazione. L'intenzione a rifiutare l'emoterapia (seppur essa salvifica) non può essere né meramente astratta ed ipotetica né meramente programmatica o ideologica. Di converso, il dissenso deve seguire e non precedere l'informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, deve essere attuale e non preventivo; il rifiuto deve essere ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. Al medico, dal canto suo, è preclusa l'esecuzione di trattamenti sanitari in difetto di quel consenso libero e informato del paziente. Cass. civ., Sez. III 15 settembre 2008, n. 23676.

Il nesso di causalità

Ulteriore elemento essenziale nella valutazione dell'eventuale rilevanza penale della condotta del medico è la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra la sua condotta e l'evento lesivo causato al paziente.

Anche in ambito medico, è ormai pacificamente consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale per stabilire la sussistenza del nesso di causa occorre effettuare un duplice controllo: in primo luogo individuare una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto (sussunzione sotto leggi scientifiche). In secondo luogo, occorre verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l'attendibilità in concreto della spiegazione causale così ipotizzata (giudizio controfattuale). Tale secondo controllo avviene ipotizzando come avvenuta l'azione doverosa omessa o, al contrario, come non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell'evento e verificando se l'evento si sarebbe o meno verificato con un elevato grado di probabilità logica. Giudizio che presuppone l'esclusione dell'interferenza di decorsi causali alternativi.

Inoltre, in materia sanitaria non sempre risulta agevole la distinzione tra azione ed omissione, al fine della valutazione della sussistenza del nesso di causa tra la condotta posta in essere dal medico e l'evento lesivo determinato al paziente o, nei casi più gravi, l'evento morte. In linea generale, sin ritiene che qualora il medico abbia determinato attraverso la propria condotta (ad es. con la somministrazione di un farmaco inappropriato) il peggioramento della situazione clinica, o addirittura il decesso, si tratterà di un addebito commissivo. Laddove, invece, il peggioramento delle condizioni di salute del paziente, o il sui decesso, siano stati determinati dal peggioramento della patologia di cui il soggetto già soffriva, ed il medico non abbia sottoposto il paziente alla procedure diagnostiche che gli avrebbero consentito la scoperta tempestiva della malattie e l'adozione delle necessarie cure, oppure non abbia adottato quei presidi terapeutici che gli avrebbero consentito di contrastare tale processo patologico in atto, l'addebito sarà a titolo omissivo.

Con riferimento specifico ai reati omissivi, si segnala la pronuncia delle Sezioni unite n. 30328 del 10 luglio 2002 (sentenza Franzese) che ha superato il contrasto giurisprudenziale relativo al grado di probabilità necessario per accertare la sussistenza del nesso di causa. La Suprema Corte ha ritenuto che, soprattutto in un settore quale quello della medicina, caratterizzata dalla complessità della interazione tra tutti gli antecedenti della catena ezio-patogena in cui si inserisce la condotta del medico, non si possa pretendere un coefficiente probabilistico delle leggi di copertura prossimo alla certezza. «È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch'essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l'irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi la attendibilità in riferimento al singolo evento e all'evidenza disponibile».

La giurisprudenza, inoltre, ha evidenziato un obbligo di attivazione in capo al medico, che quindi riveste una specifica posizione di garanzia, estremamente ampio che ricomprenderebbe un controllo sul paziente in merito a tutta la prestazione sanitaria. In materia psichiatrica, ad esempio, la suprema Corte ha affermato la penale responsabilità per il reato di omicidio colposo di un medico psichiatra presso un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente affetta da schizofrenia, che era stata dimessa dall'imputato senza alcuna terapia o meccanismo di controllo nonostante la stessa si fosse presentata in ospedale dopo aver assunto un intero flacone di farmaci. Il medico psichiatra avrebbe anche, in virtù della sua posizione di garanzia, un obbligo di controllo e di protezione del paziente diretto a prevenire il pericolo di commissioni da parte di quest'ultimo di atti pregiudizievoli verso se stesso o verso terzi (Cass. pen., Sez. IV, n. 43476 del 18 maggio 2017).

Inoltre, alcuni recenti assunti giurisprudenziali hanno cominciato a tener conto nella valutazione della sussistenza del nesso di causa anche di eventuali mancanze organizzative e gestionali delle strutture sanitarie in cui i medici si trovino a dover operare, in particolare quando le carenze siano così gravi da incidere sulla possibilità stessa del medico di intervenire. La giurisprudenza è pervenuta così a delle sentenza assolutorie in casi in cui, pur magari in presenza di una negligenza del medico, le mancanze del nosocomio erano così gravi, per assenza di strumentazione adeguata, di personale, di sale operatorie attrezzata, da andare ad elidere il nesso di causa tra la condotta del medico e l'evento morte del paziente: con un elevato grado di probabilità una diagnosi tempestiva da parte del medico non avrebbe comunque consentito di fronteggiare la patologia (Cass. pen., Sez. IV, 7 ottobre 2014 n. 46336).

L'elemento soggettivo della colpa e le esimenti specifiche in ambito di responsabilità medica

L'ambito dell'attività medica, si caratterizza per essere un'attività connotata il più delle volte da particolare complessità e difficoltà tecnica, dovuta alla compresenza di numerosi fattori e variabili, e quindi da un certo margine di rischio. Inoltre, in tale ambito si pone allo stesso tempo la necessità di tutelare i diritti del paziente e quella di garantire al medico di poter agire serenamente ed in autonomia nelle sue scelte terapeutiche tenendo conto della peculiarità della sua attività e dei rischi che questa comporta, onde evitare quello che viene definito il fenomeno della medicina difensiva. Tutto ciò ha comportato un'evoluzione giurisprudenziale oscillante nella valutazione della condotta dei sanitari in senso più o meno favorevole e garantista a cui si sono affiancati alcuni interventi legislativi, con l'introduzione di peculiari cause di esclusione della responsabilità riservate a tali professionisti.

Si segnalano i due più rilevanti e recenti interventi normativi in materia, che hanno ristretto la rilevanza penale della condotta colposa del sanitario che nell'esercizio delle proprie funzioni abbia determinato delle lesioni o nei casi più gravi la morte del paziente.

Il primo intervento legislativo si è avuto con l'entrata in vigore dell'esimente di cui all'art. 3 della l. 189 dell'8 novembre 2012. La norma escludeva la rilevanza penale per i reati commessi dal sanitario nell'esercizio della propria attività per colpa lieve, purché avesse nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Si trattava, secondo la giurisprudenza, di un caso si abolitio criminis parziale (Cass. pen., Sez. IV, n. 16237 del 9 aprile 2013).

La norma aveva, però, creato non pochi problemi interpretativi. In primo luogo, veniva introdotta per la prima volta in ambito penale la distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Secondo la giurisprudenza al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, potevano essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall'agente: la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi; la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass. pen., Sez. IV n. 22405 dell'8 maggio 2015).

Inoltre, non era chiaro, in assenza di qualsiasi definizione normativa, che cosa dovesse intendersi per “linee guida” o per “buona prassi”, né tanto meno quali fossero le linee guida o le prassi a cui dovesse far riferimento il sanitario. In assenza di specifiche indicazioni, la giurisprudenza ha ritenuto che fosse onere del sanitario indagato provare non solo di aver tenuto una condotta conforme alle linee guida (o le buone pratiche), ma anche che le stesse risultassero accreditate presso la comunità scientifica (Cass. pen. Sez. IV, n. 7951 dell'8 ottobre 2013).

Secondo l'esegesi giurisprudenziale elaborata circa la lettura della norma, da una parte l'osservanza rigorosa delle linee guida non era ritenuta di per sè ragione sufficiente di esonero da responsabilità, dall'altra il mancato rispetto delle linee guida non era considerato prova automatica di una condotta colposa. La valutazione dell'organo giudicante, infatti, doveva tener conto anche delle peculiarità del caso concreto che il sanitario si fosse trovato a fronteggiare, come nel caso in cui la situazione clinica ed organizzativa presentasse circostanze specifiche tali da consigliare di discostarsi dalle linee guida (Cass. pen., Sez. IV n. 24455 del 22 aprile 2015).

Infine, si era posto il problema se l'esimente in questione potesse trovare applicazione in tutte le ipotesi di colpa o solo qualora si fosse trattato di un caso di colpa per imperizia. Sul punto si sono contrapposti due orientamenti giurisprudenziali, anche se la giurisprudenza più recente si era orientata nel prediligere una lettura estensiva della norma tale da ricomprendere anche la ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza e non solo per imperizia (Cass. Pen. sez. IV n. 23282 del 11.05.2016).

L'art. 3 della l. 189/2012 è stato espressamente abrogato dalla l. 24 del 17 marzo 2017, che ha introdotto una riforma in ambito sanitario non solo nel settore penale ma anche in ambito civile e amministrativo.

Per ciò che riguarda l'ambito penale, forse per superare le problematiche interpretative bella legge Balduzzi, il Legislatore ha previsto l'introduzione nel codice penale dell'art. 590-sexies che prevede una nuova esimente specifica per le professioni sanitarie (articolo introdotto dall'art. 6 della l. 24/2017).

Il nuovo art. 590-sexies c.p., in estrema sintesi conferma la punibilità per i fatti di reato di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio colposo e lesioni personali colpose) commessi nell'ambito dell'esercizio della professione sanitaria. Prevede, però, l'esclusione della punibilità quando siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico assistenziali, purché le stesse siano adeguate alle specificità del caso concreto. L'esimente così introdotta si applica, per espressa previsione del legislatore, solo ai casi di imperizia.

Pertanto, i presupposti applicativi della neo-introdotta causa di non punibilità per l'esercente la professione sanitaria sono fondamentalmente tre: che l'evento si sia verificato a causa di imperizia, che siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida così come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in assenza di queste, delle buone pratiche clinico – assistenziali. Infine, che le predette raccomandazioni previste dalle linee guida risultino adeguate al caso concreto.

L'articolo 6 della legge di riforma deve essere letto in stretta correlazione con l'articolo 5 della stessa norma, che per la prima volta prevede la creazione di una sorta di banca dati delle linee guida “approvate” dalla comunità scientifica: il Sistema nazionale delle linee guida (S.N.L.G.) reperibile sul sito internet dell'Istituto superiore di sanità.

In realtà anche la nuova norma ha suscitato perplessità interpretative. Le prime pronunce in merito hanno cercato di superare l'interpretazione letterale in modo da sottolineare la portata innovativa della norma, seppur dando due interpretazioni della norma non perfettamente sovrapponibili, in particolare in relazione alla problematica della successione di leggi penali nel tempo. Secondo la prima pronuncia, la nuova norma troverebbe applicazione in caso di condotte governate dalle linee guida, purché le stesse risultino appropriate rispetto al caso di specie. Nell'ipotesi in cui la situazione concreta per le sue peculiarità non consenta di applicare le linee guida, il sanitario è tenuto a discostarsene: non troverà, quindi, applicazione l'art. 590-sexies ma la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 o 590 c.p. Inoltre, la sentenza esclude dall'ambito di applicazione dell'art. 590 sexies le ipotesi di errore, di comportamento colposo, nella fase esecutiva di applicazione delle linee guida (Cass. pen. n. 28187 del 20 aprile 2017).

Parzialmente diversa la successiva pronuncia sulla riforma che ne sottolinea alcuni profili problematici, tra cui la rilevanza da attribuire alle linee guida, la difficoltà di delimitare la nozione di imperizia da quelle confinanti e talvolta sovrapponibili di negligenza e imprudenza; nonché l'obiezione secondo cui sarebbe difficile in presenza di “colpa grave” ipotizzare come sussistenti le condizioni concorrenti previste per l'impunità del sanitario. Infine, la sentenza conclude individuando l'ambito di operatività della causa di non punibilità di cui all'art. 590-sexies c.p. nelle ipotesi del medico che seguendo le linee guida adeguate e pertinenti sia incorso in un'imperita applicazione delle stesse, purché tale imperizia non sia verificata nel momento della scelta delle linee guida bensì nella fase esecutiva della loro applicazione. Permarrebbe, invece, la rilevanza penale della condotta del sanitario che abbia rispettato delle linee guida che si rivelino inadeguate al caso concreto (Cass. pen. n. 50078 del 19 ottobre 2017).

Le due citate pronunce si discostano anche in merito alla problematica relativa alla successione di leggi penali nel tempo, avendo la prima ritenuto più favorevole l'art. 3 della l. 189/2012, mentre la seconda la nuova disciplina introdotta nel 2017.

Sul punto sono intervenute le Sezioni unite con la sentenza del 21 dicembre 2017 (di cui risulta depositato solo un comunicato e non ancora le motivazioni).

Orientamenti a confronto. Art. 590-sexies c.p., prime interpretazioni

Confronto tra l. 189/2012 e l. 24/2017: irretroattività della nuova legge perché più sfavorevole

In tema di responsabilità medica, la causa di esclusione della punibilità prevista dal nuovo art. 590-sexies c.p., introdotto con l. 8 marzo 2017 n. 24, trova applicazione con riguardo alle condotte che costituiscono pertinente estrinsecazione delle linee guida applicabili al caso di specie; non opera, invece, negli ambiti non governati dalle linee guida, nelle situazioni concrete le cui peculiarità impongano di disattendere tali raccomandazioni e in relazione a quelle condotte che non risultano oggetto di disciplina in un dato contesto regolativo.

Il nuovo regime dell'art. 590-sexies c.p. si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma giacché introduce un trattamento sfavorevole rispetto all'art. 3 l. 8 novembre 2012 n. 189, nella misura in cui non prevede alcun riferimento alla gravità della colpa; quest'ultima potrà comunque essere valutata dal giudice, ai sensi dell'art. 2236 c.c., in sede di formulazione dell'addebito di imperizia, in presenza di situazioni tecnico-scientifiche nuove, complesse o influenzate e rese più difficili dall'urgenza. Cass. pen. n. 28187 del 20 aprile 2017

legge 24/2017 come legge più favorevole

Il secondo comma dell'art. 590-sexies c.p., introdotto dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco), è norma più favorevole rispetto all'art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, in quanto prevede una causa di non punibilità dell'esercente la professione sanitaria collocata al di fuori dell'area di operatività della colpevolezza, operante – ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) – nel solo caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta (anche gravemente) imperita nell'applicazione delle stesse. (Fattispecie di colpa grave per imperizia nell'esecuzione di un intervento di lifting). Cass. pen. n. 50078 del 19 ottobre 2017

Intervento delle Sezioni unite

“l'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico – chirurgica:

a) Se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza;

b) Se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia: 1) nell'ipotesi di errore rimproverabile nell'esecuzione dell'atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico – assistenziali; 2) nell'ipotesi di errore rimproverabile nella individuazione e nella scelta di linee guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l'obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso concreto renda necessario lo scostamento da esse;

c) Se l'evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia nell'ipotesi di errore rimproverabile nell'esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell'atto medico”.

La responsabilità d'equipe

Spesso l'attività medica comporta l'apporto di più specialisti in regime di collaborazione. Il loro contributo può verificarsi in maniera contestuale, come solitamente accade negli interventi chirurgici d'equipe o di gruppo, o successiva, quando il percorso diagnostico o terapeutico si sviluppi con l'intervento di sanitari con specialità differenti che pongano in essere una serie di attività mediche temporalmente e funzionalmente successive. In entrambi i casi, ovviamente, il contributo di ciascun medico si unisce a quello degli alti nel comune obiettivo della cura e salvaguardia della salute del paziente.

Nel caso di esito infausto del trattamento sanitario si pone il problema di stabilire se e in quali limiti ciascun sanitario possa essere chiamato a rispondere dei comportamenti addebitabili ad altri componenti dell'equipe medica.

Trova applicazione anche in ambito di responsabilità medica il generale principio di affidamento, espressione del principio della personalità della responsabilità penale, per cui ciascuno è tenuto a rispondere solo del proprio operato, nel rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia, e senza essere gravato da un obbligo di vigilanza dell'operato altrui, ma potendo confidare che ciascuno si comporti nel rispetto delle regole precauzionali riferibili all'agente modello.

Vi sono però delle ipotesi in cui, per giurisprudenza pacifica, non può essere invocato il principio di affidamento. Il primo caso si verifica quando colui che si affida nell'operato dei sanitari che intervengono successivamente sia in colpa per aver violato una norma precauzionale e, quindi, confidi che altri eliminino quella violazione o vi pongano rimedio.

Non si applica, inoltre, il principio di affidamento qualora gli errori compiuti da un membro dell'equipe siano evidenti e dunque rilevabili ed emendabili, anche senza le conoscenze specialistiche; ciascun membro dell'equipe non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da un altro collega, anche se specialista in altra disciplina, e dal porre rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e pertanto rilevabili e rimediabili con le conoscenze scientifiche comuni del professionista medio.

L'ultima ipotesi riguarda la figura del capo-equipe, o comunque del soggetto che rivesta una posizione apicale all'interno del gruppo, che ha pertanto una posizione di garanzia qualificata che comporta quindi un obbligo di vigilanza più penetrante sull'operato dei componenti dell'equipe.

Si potrà configurare un'ipotesi di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., quindi, nel caso in cui si verifichi una cooperazione tra più medici, quando gli stessi si alternino e/o collaborino nella cura del paziente. Analoga situazione quando un medico richieda il consulto di uno collega della stessa o di diversa specialità e poi entrambi concordino l'indirizzo terapeutico da seguire.

Casistica

Responsabilità per interventi d'equipe

L'attività medico- chirurgica in equipe è quella caratterizzata dalla partecipazione e collaborazione tra loro di più medici e sanitari che interagiscono per il conseguimento di un obiettivo comune. Tale collaborazione può essere contestuale, come accade nell'ambito degli interventi chirurgici di gruppo o d'equipe, oppure successiva, nel momento in cui siano necessarie più attività tecnico- scientifiche di competenza di sanitari o gruppi di sanitari diversi, temporalmente e funzionalmente successive, sebbene unite dallo scopo di curare e salvaguardare la salute del paziente. Orbene, al fine di individuare le responsabilità dei diversisanitari coinvolti in siffatta attività, si applica ilprincipio di affidamento, secondo cui ogni soggetto può fare affidamento sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza proprie, salvo il dovere di sorveglianza di chi riveste la posizione apicale all'interno del gruppo. (Cass. pen., Sez. IV, 6 febbraio 2015, n. 30991)

Se è vero che in tutte le fasi in cui l'intervento chirurgico è corale, ognuno esercita e deve esercitare il controllo sul buon andamento dello stesso, è pur vero tuttavia che tale accertamento debba essere coniugato con il principio di affidamento, secondo cui ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ma potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza proprie. (Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 27314)

Nesso di causalità

In tema di responsabilità medica, il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio contro-fattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica — universale o statistica —, si accerta che, immaginandosi come realizzata la condotta doverosa, l'evento hic et nunc non si sarebbe verificato. (Cass. pen. sez. IV 12 marzo 2014, n. 14812).

Posizione di garanzia

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per se stesso. (Cass. pen., Sez. IV, 18 maggio 2017, n. 43476)

Consenso informato

L'attività medico-chirurgica per essere considerata legittima necessita dell'acquisizione del consenso informato rilasciato dal paziente, salve le eccezioni previste dalla legge. Non ricorre però alcuna fattispecie penale nel caso in cui il medico, pur in assenza di un valido consenso del paziente, abbia agito secondo la "lex artis" e l'intervento si sia concluso con esito benefico per la salute del paziente, da intendersi come miglioramento della patologia da cui lo stesso era affetto (Cass. pen., Sez. I, 26 marzo 2014 n. 24918).

Elemento soggettivo

In caso di esito infausto dell'intervento terapeutico, il criterio di imputazione potrà essere, invero, di carattere colposo qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell'ammalato, abbia effettuato l'intervento nella convinzione del consenso ovvero sulle consuete ipotesi integrative della c.d. colpa medica, come quella di omissione di condotta tecnicamente doverosa [...]; ma si deve ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente informato del paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e persino la morte. In tal caso, qualora l'esito dell'intervento eseguito con il dissenso del paziente sia risultato infausto [...] quanto alle conseguenze penali scaturenti da detto intervento terapeutico (escluso che la fattispecie possa rifluire nella previsione dell'art. 610 c.p.), viene in rilievo il disposto dell'art. 582 c.p. (lesione penale volontaria). Così come nelle situazioni in cui si accerti che il sanitario abbia agito, pur essendo conscio che il suo intervento - poi causativo di danno o della morte del paziente - avrebbe prodotto una non necessaria menomazione dell'integrità fisica o psichica del paziente (Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2010, n. 21799).

Sommario