RapinaFonte: Cod. Pen Articolo 628
18 Aprile 2016
Inquadramento
Il delitto di rapina è disciplinato dall'art. 628 c.p. base al quale è punito Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene» ed inoltre «chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità. L'art. 628 c.p. prevede, quindi, due diverse forme di rapina, tradizionalmente dette propria ed impropria. La differenza tra le due figure di rapina si fonda precipuamente sulla diversa direzione della violenza alla persona o della minaccia; queste ultime nella rapina propria (art. 628, comma 1, c.p.) sono indirizzate a realizzare la sottrazione e l'impossessamento della cosa, mentre nella rapina impropria (art. 628, comma 2, c.p.) sono intese ad assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa medesima ovvero a procurare a sé o ad altri l'impunità. Si tratta di un reato di danno, di carattere commissivo, perpetrabile soltanto mediante azione. È un classico esempio di reato complesso, del quale sono elementi costitutivi il furto e la violenza personale o la minaccia: fatti, cioè, considerati per sé ciascuno come reato. Quale reato composto o complesso in senso stretto la rapina è un tipico reato plurioffensivo. Lede innanzitutto l'interesse al pacifico possesso e disposizione della cose mobili, come dimostra anche la sistemazione legislativa del reato tra i delitti contro il patrimonio; inoltre viola la libertà fisica e/o interiore dell'individuo, cioè l'interesse a determinare autonomamente il proprio comportamento senza dover subire aggressioni, coercizioni o intimidazioni altrui. Questi interessi, specificamente tutelati dalla norma incriminatrice, sono strettamente connessi nel delitto in esame, di modo che la loro lesione è in rapporto di mezzo (violenza personale o minaccia) a fine (il furto, l'assicurazione del possesso o l' impunità). Il soggetto attivo
Soggetto attivo del delitto di rapina può essere chiunque, purché sia persona diversa da quella che possiede attualmente la cosa.
Il soggetto passivo
La rapina è un reato complesso plurioffensivo. Essendo essa un furto a cui si aggiunge la violenza alla persona o la minaccia, l'offesa colpirà sia il patrimonio che la sfera della libertà fisica e morale della vittima. La violenza e la minaccia che caratterizzano il delitto di rapina – come si desume dalla stessa formulazione della relativa norma – possono infatti essere rivolte anche contro persona diversa dal detentore. In tale ipotesi anche detta persona è soggetto passivo del reato, in relazione alla violenza o alla minaccia subita
È stato così affermato (Cass. pen., Sez. II, n. 639/1985; Cass. pen., Sez. II, n. 6362/1996) che nell'ipotesi di rapina commessa in un unico contesto in danno di più persone (nella specie rapina in danno di undici persone che si trovavano all'interno di un esercizio pubblico), malgrado la rapidità della successione temporale tra le singole sottrazioni, si configura un'ipotesi di reato continuato, stante la pluralità di delitti commessi in numero incontestabilmente pari a quello degli eventi antigiuridici prodottisi in danno di ciascuna delle persone rapinate. Oggetto materiale della rapina è una cosa mobile altrui. Innanzitutto deve trattarsi di una cosa, cioè di un oggetto corporale ovvero di un'altra entità naturale che abbia valore economico o più genericamente patrimoniale e sia suscettibile di appropriazione . È necessario, inoltre, che la cosa abbia un valore patrimoniale, cioè faccia parte del patrimonio di qualcuno. Al riguardo occorre sottolineare che il patrimonio, ai fini del diritto penale, è costituito non solo dalle cose aventi valore di scambio sul piano economico ma anche da quelle cose che, pur prive di valore di scambio, abbiano per colui che le possiede valore affettivo o sentimentale. È vero che la rapina è indirizzata in genere verso una cosa per il suo valore economico; tuttavia, è configurabile tale delitto anche quando si riferisce ad oggetti (ad esempio, una ciocca di capelli, una particolare immagine religiosa, un portafortuna), che, pur sprovvisti di valore economico, facciano parte del patrimonio di una persona a causa del loro valore ideale, tanto più se si tiene conto che il "profitto" avuto di mira dall'agente può anche non essere economico. La cosa deve essere altresì mobile. La nozione di bene mobile ricavata dagli artt. 812 e 814 c.c. vale senza dubbio anche nell'ambito penale, ai cui fini, però, interessa tenere presente che non si considerano più immobili le cose che siano distaccate dal complesso immobiliare a cui aderiscono e per tal modo rese mobili. Possono, pertanto, essere oggetto materiale della rapina le cose immobili una volta che vengano "mobilizzate", quali le pertinenze di beni immobili, gli immobili per incorporazione, le parti di immobile. La cosa, infine, per costituire oggetto del delitto in esame deve essere altrui nel senso di cosa di proprietà di altri. La rapina propria
L'elemento oggettivo: la violenza alla persona e la minaccia - L'azione esecutiva del delitto in esame si configura in modo assai differente nelle due diverse ipotesi previste dai primi due commi dell'art. 628 c.p. La rapina propriaconsiste nell'impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, mediante violenza alla persona o minaccia, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (art. 628, comma 1, c.p.). L'elemento oggettivo della rapina propria, quindi, implica: a) l'impossessamento della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene; b) l'uso di violenza alla persona o di minaccia. La violenza alla persona o la minaccia che, nella rapina propria, deve essere precedente o concomitante all'impossessamento della cosa mobile altrui, va considerata come mezzo rispetto al fine costituito dall'impossessamento medesimo. Per violenza personale si intende l'estrinsecazione di energia fisica, adoperata dall'agente sul paziente, per annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione e di azione. Essa non è soltanto la vis corporis corpori data, e cioè il mettere le mani addosso, lo spingere, il togliere la libertà di movimento (legare, imbavagliare, ecc.), ma anche qualsiasi mezzo fisico impiegato per tale scopo. La violenza personale comprende, altresì, l'uso di quei mezzi che pur non attentando alla incolumità corporea, si traducono sempre in un pregiudizio fisico della persona, in quanto la privano della possibilità dell'azione, dell'esterna condotta. Si tratta della cosiddetta violenza impropria, concretantesi in tutte quelle attività insidiose, con cui il soggetto passivo viene posto, totalmente o parzialmente, nell'impossibilità di volere o di agire: ipnotizzazione, narcotizzazione, uso di sostanze stupefacenti o alcooliche, impiego di sostanze fumogene o lacrimogene, ecc. Anche la minaccia intende coartare la volontà della persona. Tuttavia, mentre la violenza personale realizza un costringimento fisico, la minaccia opera un'intimidazione morale che vulnera la libertà di autodeterminarsi, in modo da sostituirvi il passivo adeguamento ad un comando esterno . La minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, che è nel potere dell'agente di cagionare e che è posto in alternativa all'osservanza di una determinata condotta da parte del soggetto passivo. A differenza della violenza personale, con cui viene violata la sfera della libertà fisica della vittima, la minaccia agisce sulla libertà interiore, tentando di turbarla, condizionarla, manipolarla per i propri fini. Occorre, innanzitutto, che sia prospettato un male, cioè la effettiva lesione o l'esposizione a pericolo di un interesse o di un bene individuale di qualsiasi natura sia personale che patrimoniale. Il male prospettato deve, altresì, essere futuro. È, poi, necessario che il male minacciato sia ingiusto. Non occorre, tuttavia, che tale ingiustizia sia assoluta ed intrinseca: basta che il male minacciato risulti ingiusto o in sé stesso ovvero in relazione allo scopo cui la minaccia serve di mezzo. La realizzazione del male deve dipendere dall'agente in via diretta o indiretta; non può ravvisarsi minaccia, qualora la realizzazione della lesione prospettata risulti totalmente al di fuori dei poteri dell'agente stesso. Inoltre, il male deve essere presentato come conseguenza alternativa all'osservanza, da parte del soggetto passivo, di un preciso comportamento voluto dall'agente. Non occorre, invece, che sia minacciato un male determinato, essendo sufficienti anche generiche intimidazioni miranti ad impaurire la persona. La minaccia può essere esplicita ed implicita, diretta ed indiretta, reale e simbolica, e la sussistenza di essa si ha ogni volta che, mediante la prospettazione di un male, fatta in qualsiasi modo, verbalmente od anche per mezzo delle stesse modalità dell'azione, si coarti la volontà del soggetto.
Deve considerarsi idonea la violenza o la minaccia sufficiente a costringere o ad influenzare un uomo comune, ovviamente tenendo presenti tutte le modalità e le circostanze concrete nelle quali si è estrinsecata la condotta (tempo, luogo, età, sesso dell'aggredito, ecc.). Può darsi che la vittima, per la sua notevole fermezza morale, non sia rimasta intimidita, ma ciò non esclude la sussistenza della minaccia (della violenza), se questa era mediamente sufficiente a perseguire lo scopo. È necessario, però, tener conto, ai fini dell'idoneità, anche della situazione soggettiva concreta della vittima. La violenza potrà essere minima: una spinta, un urto, uno strattone, il semplice mettere le mani addosso, il divincolarsi ; l'importante è che si ottenga il risultato di coartare la libertà di azione del soggetto.
Il momento consumativo e il tentativo – Il reato di rapina si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano l'ingiusto profitto e l'altrui danno patrimoniale, ed a nulla rileva il protrarsi di tali eventi nel tempo, ovvero la mera temporaneità o momentaneità del possesso conseguito, quando esso si sia concretizzato nell'autonoma disponibilità della refurtiva da parte dell'agente, con correlativo spossessamento del legittimo detentore. Per aversi consumazione, occorre che l'agente abbia avuto la disponibilità piena della cosa oggetto materiale del reato, avendo vinto le altrui resistenze. La configurazione del tentativo di rapina propria sarà, quindi, limitata all'eventualità che il soggetto attivo, pur avendo fatto uso di idonea violenza o minaccia, non sia riuscito a pervenire all'impossessamento o, a maggior ragione, alla sottrazione di alcunché. Per aversi consumazione non occorre che l'agente si sia appropriato dell'intero bottino, ma è sufficiente che si sia impossessato di alcuni beni, anche se l'azione criminosa prosegua per sottrarre altre cose.
Non si configura un reato impossibile nel caso in cui il bene, oggetto del delitto di rapina, abbia un modesto valore patrimoniale, in quanto l'inesistenza dell'oggetto materiale del reato acquista rilevanza giuridica, ed esclude la sussistenza del delitto, soltanto quando esso sia inesistente in rerum natura oppure sia assoluta ed originaria.
Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo.
L'elemento soggettivo – La rapina richiede, da un lato, il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene ma tale requisito soggettivo deve essere accompagnato da quello, specifico, rappresentato –nella rapina propria – dalla coscienza e volontà di adoperare a tale scopo la violenza o la minaccia, al fine di trarre, per sé o per altri, un ingiusto profitto. Il profitto può consistere in qualsiasi vantaggio o soddisfazione che l'agente si procuri o miri a procurarsi, non essendo necessaria una effettiva locupletazione. Quindi, profitto non è soltanto il vantaggio economico e, più in generale, l'incremento del patrimonio, ma qualunque soddisfazione o piacere che l'agente si riprometta dalla sua azione criminosa. Senza dubbio, di regola, il profitto consiste in una utilità pecuniaria, ma ciò non è indispensabile: l'utilità può essere anche di natura diversa. In ogni caso il profitto deve sempre derivare dalla cosa sottratta in modo diretto o indiretto. In tale prospettiva finalisticamente orientata, è ben possibile ritenere, come la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di sottolineare, che il reato può essere integrato anche dal cosiddetto dolo concomitante o sopravvenuto, in quanto la coscienza e volontà del soggetto attivo, dovendo cadere sulla funzione e sulla efficacia della minaccia o della violenza, strumentali rispetto all'impossessamento, non devono necessariamente preesistere all'inizio della attività integratrice dal reato, ma possono insorgere anche in un secondo momento, peraltro durante il compimento degli atti di violenza o di minaccia. In tale senso deve dunque leggersi l'affermazione giurisprudenziale secondo la quale ai fini della sussistenza del delitto di rapina, è sufficiente che l'agente ponga in essere l'impossessamento, allorché la minaccia è già in atto, non essendo necessario che la minaccia sia finalizzata a tale scopo fin dal primo atto (Cass. pen., Sez. II, 9 ottobre 1987, Del Perciò, mass. uff. n. 178144).
Deve aggiungersi che la temporaneità o transitorietà del profitto è irrilevante. Anche un vantaggio temporaneo o provvisorio, infatti, rappresenta un profitto. Questo può riguardare altresì una persona diversa dall'agente (per sé o per altri si legge nella norma). Non è, invece, necessario, perché il delitto in esame sia perfetto, che l'agente consegua il profitto avuto di mira, trattandosi di un elemento non richiesto dalla norma e successivo all'impossessamento, che, come si è detto, contrassegna il momento consumativo della rapina propria. Il profitto avuto di mira dall'agente deve possedere il carattere dell'ingiustizia. È da escludersi, a questo proposito, che sia giusto solo il profitto a cui corrisponda un vero e proprio diritto soggettivo e più precisamente una pretesa che può essere azionata davanti all'autorità giudiziaria, e ciò perché nel nostro ordinamento esistono pretese, che, sebbene prive d'azione, ricevono tuttavia una tutela giuridica (ad esempio, le obbligazioni naturali). Quindi, è da considerare ingiusto il profitto che non è in alcun modo, e cioè né direttamente né indirettamente, tutelato dall'ordinamento giuridico. In particolare, il profitto non patrimoniale deve ritenersi ingiusto tutte le volte che sia in contrasto con l'ordinamento giuridico.
È chiaro, poi, che per l'esistenza del dolo non basta l'obiettiva ingiustizia del profitto ma occorre, altresì, che chi agisce ne abbia consapevolezza. La rapina impropria
La rapina impropria consiste nell'adoperare violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità (art. 628, comma 2, c.p.). La rapina impropria si compone degli stessi elementi della rapina propria, con la sola differenza che essi si estrinsecano in una cornice inversa, nel senso che la violenza o la minaccia, anziché essere precedente o concomitante al furto, lo segue. Ossia la violenza o la minaccia è in questo caso posta in essere non per impossessarsi della cosa ma per assicurare il possesso della cosa medesima, od evitare la punizione per la sottrazione effettuata . Le due azioni, pur distinte, devono prospettarsi come una condotta unitaria diretta ad impedire al derubato di tornare in possesso della cosa sottratta, ovvero a procurare l'impunità. Difetta il requisito della immediatezza, qualora, tra il momento della sottrazione e quello dell'uso della violenza o della minaccia sia intercorso un sensibile intervallo di tempo, ovvero si sia verificato un evento idoneo a rompere il nesso di unitarietà della condotta complessiva .
La violenza o la minaccia finalizzata all'assicurazione del possesso o dell'impunità non necessariamente deve essere usata contro la persona derubata e nel medesimo luogo della sottrazione. È sufficiente, quindi, che l'azione violenta o minacciosa sia mezzo idoneo ai raggiungimento degli scopi indicati dalla legge e avuti di mira dall'agente, cioè non è necessario il conseguimento del possesso o dell'impunità .
Se la violenza o la minaccia sia esercitata nei confronti di un pubblico ufficiale, avendo la condotta realizzato gli estremi di due reati (rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale), che hanno una diversa e autonoma individualità giuridica, sono applicabili le disposizioni concernenti il concorso di reati. Il dolo nella rapina impropria è specifico, come per la rapina propria, in quanto ne costituisce elemento essenziale lo scopo di assicurare, a sé o ad altri, il possesso della cosa sottratta, o di procurare, a sé o ad altri, l'impunità . La giurisprudenza della Corte di cassazione evidenzia che nella rapina impropria lo scopo di procurarsi l'impunità ricorre ogniqualvolta la violenza o la minaccia sia commessa al fine di sottrarsi a tutte le conseguenze processuali e penali del commesso delitto. Circostanze aggravanti speciali
Per effetto dell'art. 628, comma 2, c.p. la rapina – sia propria che impropria – è aggravata: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; 3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416-bis c.p.; 3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 3-ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto; 3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro; 3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne; Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98 c.p., concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti. Dette circostanze aggravanti fanno aumentare la pena autonomamente dalla pena principale: sono cioè circostanze autonome o ad effetto speciale. Nell'ipotesi di concorso trova applicazione l'art. 63 c.p.
La seconda ipotesi prevista, alternativamente con le altre, nel n. 1 del comma 3 dell'art. 628 c.p. si ha quando la violenza o la minaccia è commessa da persona travisata. È persona travisata quella il cui aspetto esteriore è alterato in qualsiasi modo purché atto ad impedirne o renderne difficoltoso il riconoscimento . L'aggravante sussiste anche se la rapina sia commessa da una sola persona travisata; se più persone concorrono nel delitto, è sufficiente che una sola di esse sia travisata.
Non è necessario che tutte le persone riunite assumano un atteggiamento violento o minaccioso, è sufficiente che la violenza o la minaccia sia esercitata da una sola di esse . Allorché è applicabile l'aggravante in discorso, rimane necessariamente esclusa quella dell'art. 112 n. 1 c.p.
L'art. 628, comma 3, n. 2 c.p. prevede distintamente, come circostanza aggravante, il caso della violenza consistente nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire. L'incapacità di volere si ha quando, con l'uso di mezzi idonei, si è posto il soggetto passivo in uno stato che non gli permetta di manifestare una volontà contraria al fatto del reo. Così è, ad esempio, nel caso dell'uso di narcotici o di altri stupefacenti, di alcoolici, o della suggestione ipnotica o in veglia. Anche i mezzi traumatici, che producono svenimento o altro stato simile, sono idonei. L'incapacità di agire è, invece, la fisica, materiale impossibilità di comportarsi secondo quanto detta volontà ed è prodotta da espedienti quali l'uso di legami o di bavagli, la costrizione in un locale chiuso, la somministrazione di sostanze chimiche temporaneamente paralizzanti, ecc. Lo stato di incapacità di volere o di agire, nel quale l'agente ha posto il soggetto passivo, può anche essere momentaneo, purché di esso si sia giovato l'agente stesso per sottrarre la cosa o per altro dei fini indicati nell'art. 628 c.p.
L'aggravante di cui trattasi assorbe il delitto previsto dall'art. 613 c.p. La circostanza aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3, c.p. si concreta nel solo fatto dell'appartenenza del rapinatore a un sodalizio criminoso del tipo descritto dall' art. 416 –bis c.p. e non richiede che costui per commettere il reato manifesti o faccia intendere alla vittima tale sua qualità e si avvalga, quindi, della forza intimidatrice di tali associazioni. Che l'aggravante di cui al comma 3, n. 3, dell'art. 628 c.p. sia integrata dalla mera appartenenza all'associazione di tipo mafioso – rilevante come fatto storico –, non essendo richiesto l'accertamento in concreto dell'uso della forza intimidatrice derivante dalla predetta appartenenza, è stato chiarito dalla suprema Corte già da prima che l'emergenza della lotta alla criminalità organizzata conducesse al varo della normativa di cui al d.l. 152 del 1991 (Cass. pen., Sez. VI, 26 ottobre 1989, Casaroli).
La circostanza aggravante prevista dal n. 3-bis) si applica se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa. La nozione di privata dimora nella fattispecie di cui all'art. 624-bis c.p. è più ampia di quella di abitazione e comprende ogni luogo ove la persona si trattenga per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata (Cass. pen., Sez. IIn. 28045/2012; Cass. pen.,Sez. V, n. 30957/2010; Cass. Pen., Sez. IV, n. 37908/2009; Cass. pen., Sez. V, n. 43089/2007; Cass. pen., Sez. IV, n. 43671/2003). La commissione di una rapina in edificio o altro luogo destinato a privata dimora configura, dopo l'introduzione del n. 3-bis del comma 3 dell'art. 628 c.p., un reato complesso, nel quale resta assorbito il delitto di violazione di domicilio (Cass. pen., n. 40382/2014).
L'aggravante di cui all'art. 628, comma 2, n. 3-ter), c.p. si applica se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto. Quella di cui all'art. 628, commi 3, 3-quater) c.p. si applica se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro e quella di cui al n. 3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne. In tema di concorso di circostanze, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quelle aggravanti, previsto dall'art. 628, comma 4, c.p., a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 251 del 2009, è formulato in modo generale ed assoluto per cui riguarda sia le circostanze attenuanti comuni, sia le circostanze attenuanti generiche che le circostanze attenuanti speciali. (Fattispecie nella quale la Corte di cassazione con sentenza n. 47030/2013 ha annullato con rinvio la sentenza impugnata in cui le circostanze attenuanti generiche e quella di cui all'art. 62 n. 6 c.p., erano state ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti di cui all'art. 628, comma 3, c.p.). Nel caso di concorso di circostanze aggravanti trova applicazione la disciplina generale dettata nell'art. 63, comma 4, c. p., per il concorso di aggravanti ad effetto speciale. Il concorso di persone
Per aversi concorso non è necessario che un soggetto partecipi a tutte le attività criminose ma è sufficiente che egli ne compia una parte con la consapevolezza che altri ne compiranno il rimanente. In particolare, si afferma che, nella rapina impropria, risponde del reato anche chi, non avendo partecipato alla sottrazione della cosa, usi violenza o minaccia per assicurare all'autore della sottrazione il possesso della cosa sottratta o l'impunità. È necessario, tuttavia, che le due azioni siano almeno legate da un nesso psicologico, cioè di partecipazione almeno morale da parte del secondo agente all'azione delittuosa del primo. In tema di varianti individuali al piano comune si domanda se, allorché uno o alcuni soltanto dei concorrenti, che avevano progettato un furto, ricorrano alla violenza o alla minaccia, tutti debbano rispondere di rapina ovvero alcuni di rapina e altri di furto. Per la giurisprudenza la soluzione del quesito è dettata dall'art. 116 c.p.: la responsabilità del compartecipe ex art. 116 c.p. può essere configurata solo quando l'evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale) e, dunque, a condizione che non sia stato considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata. (cfr, ex aliis, Cass. pen., Sez. II, n. 49486/2014; Cass. pen., Sez. II, n. 3167/2013; Cass. pen., Sez. VI, n. 20667/2008). Differenza da reati affini
La rapina presenta analogie con alcune forme di furto aggravato. Essa si distingue: dal furto aggravato dalla circostanza prevista dall'art. 625 n. 2 c.p., perché in questa figura criminosa la violenza è usata esclusivamente sulle cose e non anche sulla persona; dal furto aggravato dalla circostanza di cui all'art. 625 n. 3 c.p. (se il colpevole porta indosso armi), perché in questa ipotesi è carente la violenza ed il mero porto delle armi non ha di per sé effetto intimidativo e non concreta quindi minaccia. Maggiori difficoltà, invece, crea la distinzione tra rapina e furto commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona, comunemente denominato "scippo". Il criterio discretivo viene comunemente individuato nel fatto che nella rapina la violenza fisica o psichica è esercitata sulla persona, mentre nel furto con strappo la violenza è esercitata esclusivamente sulla cosa, per staccarla e sottrarla al detentore. La differenza tra rapina ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) non risiede nella materialità del fatto, che può essere identico in ciascuna di dette fattispecie, bensì nell'elemento psicologico. Problemi di definizione di ambito di operatività rispetto all'estorsione si pongono solo con riferimento alla rapina propria e sono stati risolti ponendo attenzione alla condizione in cui in concreto si è trovato a versare il “soggetto passivo del reato": in presenza, cioè, di un suo comportamento lato sensu “collaborativo” , occorre accertare se egli aveva o no margini ragionevoli per compiere una scelta differente; nel primo caso si avrà estorsione, nel secondo caso invece alla rapina, null'altro essendo stato il soggetto se non un “mero strumento”, totalmente controllato dall'agente senza alcuna (seppur limitata) possibilità di scelta. Il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e resta escluso, in base al principio di specialità, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile una ipotesi delittuosa più grave, quale quella di rapina.
Casistica
Aspetti processuali
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