Riciclaggio e reimpiego

20 Settembre 2016

La disposizione di cui all'art. 648-bis c.p., nel prevedere la figura delittuosa di riciclaggio, sanziona – fuori dai casi di concorso nel reato – chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa, con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 5.000 euro a 25.000 euro. Il secondo comma prevede un aggravamento di pena allorquando il fatto risulta commesso nell'esercizio di un'attività professionale ...
Inquadramento

La disposizione di cui all'art. 648-bis c.p., nel prevedere la figura delittuosa di riciclaggio, sanziona – fuori dai casi di concorso nel reato – chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa, con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 5.000 euro a 25.000 euro.

Il secondo comma prevede un aggravamento di pena allorquando il fatto risulta commesso nell'esercizio di un'attività professionale; mentre la pena è diminuita, secondo il disposto del terzo comma, per l'ipotesi in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengano da un delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni.

Per espressa previsione dell'ultimo comma, infine, il reato in esame sussiste anche quando l'autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile, ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto.

Merita accennare, altresì, al disposto dell'art. 648-quater c.p., secondo cui in caso di condanna o di applicazione della pena, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per il delitto di riciclaggio è sempre disposta la confisca dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee allo stesso.

Nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca sopra descritta, il giudice ordina la confisca delle somme di denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato.

L'oggetto giuridico del reato

La diversità degli obiettivi perseguiti dai molteplici interventi normativi adottati con riferimento al delitto di riciclaggio, ha avuto importanti ripercussioni sull'individuazione dell'oggetto giuridico del reato stesso.

Nel codice, il delitto in esame trova la sua collocazione nel Titolo XIII del libro secondo, dedicato ai reati contro il patrimonio ed in particolare nel Capo II avente ad oggetto i delitti commessi mediante frode, tuttavia l'articolato excursus storico del reato, facilmente confonde gli interpreti del diritto in ordine all'individuazione del bene tutelato dalla norma.

Va osservato, del resto, che se in origine l'obiettivo che si cercava di perseguire attraverso l'introduzione della norma di cui all'art. 648-bis c.p. era quello di disincentivare la realizzazione di alcuni reati ritenuti particolarmente allarmanti, ostacolando l'impiego dei proventi da essi derivanti, in un'ottica di tutela del patrimonio del singolo, con l'evolversi della fattispecie incriminatrice il legislatore ha inteso impedire le condotte di intralcio alla giustizia e di contaminazione dei mercati con un'economia illecita.

È cosi, invero, che il delitto in commento ha assunto la caratteristica di reato pluri-offensivo, tutelando, da un lato, gli interessi patrimoniali aggrediti a seguito dei delitti presupposto, e, dall'altro, l'amministrazione della giustizia, l'ordine pubblico nonché quello economico-finanziario.

In questa prospettiva, la modifica del reato di riciclaggio si spiega attraverso l'intento di reprimere quelle condotte che pregiudicano o rendono maggiormente complesso l'accertamento della provenienza illecita dei beni e quindi lo svolgimento delle indagini, nonché l'inquinamento dell'economia e del mercato, attuato con la ricollocazione di ricchezze illecite in un flusso di capitali leciti.

La condotta tipica e il presupposto per l'esistenza del reato

È alla luce di questa sfera di tutela, che il Legislatore ha ampliato e tipizzato, le condotte del delitto in esame prevedono tre diversi modelli, segnatamente la sostituzione, il trasferimento e le altre operazioni idonee ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa.

Quanto alla prima attività, essa è identificabile in tutte quelle operazioni dirette alla ripulitura del profitto illecito mediante allontanamento da possibili collegamenti col reato. L'esempio tipico è certamente quello del deposito bancario, attraverso il quale l'istituto di credito si impegna a restituire la somma depositata.

Con il termine trasferimento si indica, invece, quell'insieme di attività che implicano uno spostamento dei valori di provenienza delittuosa da un soggetto ad un altro ma anche da un luogo ad un altro, in modo da far perdere le tracce della titolarità, della provenienza e della destinazione dei beni.

Mediante l'ultima della condotte tipizzate si è voluto, infine, porre una formula di chiusura che ha indotto a ritenere il reato a forma libera, consentendo in tal modo di sanzionare tutte quelle tecniche utilizzate dalla criminalità al fine di ostacolare l'accertamento dell'origine delittuosa della res.

Secondo l'orientamento della giurisprudenza dominante, il reato di riciclaggio rientra nella categoria delle norme penali a più fattispecie, nelle quali sono previste più condotte illecite considerate alternativamente equivalenti o fungibili, essendo sufficiente, per la consumazione del reato, anche il compimento di una sola delle condotte descritte.

In tale prospettiva, è stato precisato che, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva.

In evidenza

L'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità stabilisce che se le operazioni tese ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa possono consistere sia in quelle che incidono sulla cosa o ne alterano i dati esteriori, sia in quelle che la trasformano o la modificano parzialmente, allora anche lo smontaggio di un veicolo in singoli pezzi è riconducibile a tale categoria di operazioni. Tale operazione, secondo i giudici della suprema Corte, è infatti simile a quelle di taglio di pietre preziose o allo smontaggio e alla fusione di gioielli altrimenti riconoscibili, che all'evidenza integrerebbero il delitto di riciclaggio ricorrendone gli altri presupposti richiesti dalla norma incriminatrice, essendo oggettivamente e soggettivamente finalizzate ad occultare la provenienza delittuosa dei suddetti beni. Non è quindi necessario, ai fini dell'integrazione del reato de quo, che siano alterati i dati identificativi dell'autoveicolo, quali il telaio, la targa o il numero del motore, potendosi ottenere il risultato di occultarne la provenienza delittuosa anche smontando il veicolo e vendendo o riutilizzando i singoli pezzi (Cass. pen., 2 aprile 2007, n. 15092)

Alla luce del dettato normativo sopra richiamato, si deve rilevare come, presupposto indefettibile per l'esistenza del reato, sia la commissione anteriore di un delitto non colposo.

Appare imprescindibile rilevare come il costante orientamento giurisprudenziale non richieda l'esatta individuazione della tipologia del delitto presupposto, essendo sufficiente che venga raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni di ripulitura compiute.

Cionondimeno, neppure risulta indispensabile che il reato presupposto sia giudizialmente accertato, dovendo unicamente essere ritenuto sussistente, in via incidentale, dal giudice procedente per il reato di cui all'art. 648-bis c.p. e non dovendo essere stato escluso, in via definitiva, da altra Autorità giudiziaria.

Sulla scorta di tale interpretazione, non saranno suscettibili di escludere la configurabilità del reato di riciclaggio i decreti di archiviazione e le sentenze di non luogo a procedere relativi ai delitti presupposti, trattandosi di provvedimenti non irrevocabili.

In evidenza

Le Sezioni unite della Corte di cassazione sono state chiamate a valutare se sia configurabile il concorso tra i delitti di riciclaggio o reimpiego e quello di cui all'art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa.

Nel risolvere il quesito sottoposto, la suprema Corte affronta, preliminarmente, la problematica dell'attitudine del delitto di associazione di stampo mafioso a costituire il reato presupposto di quello di riciclaggio o reimpiego. Condividendo l'orientamento prevalente della giurisprudenza, la Corte ha ritenuto che il delitto di associazione di stampo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita – e quindi ad integrare gli estremi del reato presupposto – a prescindere dalla commissione degli specifici reati fine, rientrando, infatti, tra gli scopi del sodalizio criminoso, anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività illecite per mezzo del metodo mafioso.

Alla luce di tale impostazione, i giudici sono giunti, quindi, ad affermare che il reato associativo di stampo mafioso può costituire reato presupposto del riciclaggio, escludendo, di conseguenza, la configurabilità di un concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. e quello di cui all'art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dal delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (Cass. pen., 13 giugno 2014, n. 25191).

Il soggetto attivo e la punibilità dell'auto-riciclaggio

La norma sul riciclaggio pone un interessante questione interpretativa in ordine alla individuazione del soggetto attivo del reato.

La fattispecie incriminatrice in esame è costruita come un reato a soggettività ristretta, in quanto lo stesso, secondo il dettato normativo, può essere commesso da chiunque, a condizione che il soggetto non sia autore o concorrente del reato presupposto, come emerge dalla clausola di esclusione della norma de qua.

Su tale presupposto si era sviluppato un consolidato filone dottrinale che riteneva la non punibilità delle condotte successive alla commissione del reato e dirette ad assicurarne il profitto, poiché rientranti nella categoria del post factum non punibile, secondo la teoria della consunzione, per cui la punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo del fatto illecito, atteso che la condotta successiva rappresenta unicamente lo sviluppo logico di quella precedente.

Tanto che la giurisprudenza aveva affermato la non integrazione del reato di cui all'art. 648-bis c.p. in presenza di una condotta di impiego nelle proprie attività economiche del denaro ricavato dalle condotte illecite compiute dal medesimo soggetto.

Il quadro oggi risulta rilevantemente mutato, a seguito dell'introduzione, ad opera della legge 186 del 2014, dell'art. 648-ter.1 c.p., che punisce il delitto di auto-riciclaggio.

La neo introdotta fattispecie criminosa punisce, con la reclusione da due a otto anni e la multa da 5.000 a 25.000 euro, chiunque – avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo – impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.

Senza volersi soffermare oltremodo sulle problematiche concernenti tale nuova disposizione incriminatrice, si notano immediatamente i profili di criticità che sorgono dal confronto con il delitto di riciclaggio.

Buona parte della dottrina non ha, infatti, esitato a denunciare le possibili violazioni dei principi generali del diritto penale, sostenendo, in primis, che le condotte post delictum realizzate per ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni e del denaro costituirebbero un post factum non punibile, essendo, la normale prosecuzione del reato commesso, priva di autonomo disvalore.

In secondo luogo, è stato affermato che la condotta punita dal reato di auto- riciclaggio sarebbe parte integrante del reato presupposto, per cui non sarebbe punibile in ossequio al principio del ne bis in idem.

Inoltre, alcuni autorevoli autori avrebbero affermato che la fattispecie di nuova introduzione risulterebbe altresì in contrasto con il principio per cui nemo tenetur se detegere, in virtù del quale nessuno può essere tenuto all'autoincriminazione.

Da ultimo, è stato sollevato anche il problema dell'incongruità del trattamento sanzionatorio cui andrebbe incontro il soggetto ritenuto responsabile dei reati di riciclaggio e auto-riciclaggio.

Gli evidenziati contrasti della nuova disposizione con i principi di garanzia sopra accennati, nonché i difficili contorni applicativi della clausola di esclusione propria del reato ex art. 648-bis c.p., rappresentano problematiche di cui la dottrina ma soprattutto la giurisprudenza si stanno iniziando ad occupare ma che certamente non saranno di facile risoluzione.

In evidenza

A tale riguardo, basti osservare che il Supremo Consesso ha già avuto modo di precisare che la norma sull'auto-riciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica specifica di essere idonee ad "ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa", richiedendo, a tale fine, una particolare capacità dissimulatoria di cui deve essere dotata la condotta, idonea cioè a fare ritenere che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto effettuare un impiego di qualsiasi tipo, ma sempre finalizzato ad occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto. In proposito, i giudici di legittimità hanno colto l'occasione per ricordare come la norma sull'auto-riciclaggio nasce dalla necessità di evitare le operazioni di sostituzione ad opera dell'autore del delitto presupposto e come, tuttavia, il legislatore, raccogliendo le sollecitazioni provenienti dalla dottrina, di cui si è fatto cenno sopra, ha limitato la rilevanza penale delle condotte ai soli casi di sostituzione che avvengano attraverso la re-immissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate appunto ad ottenere un concreto effetto dissimulatorio, che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile), da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile). Nel caso di specie, in particolare, i Giudici hanno escluso che integri la fattispecie de qua la condotta consistita nel versamento del profitto illecito in una carta prepagata intestata alla stessa autrice del fatto illecito (Cass. pen., 28 luglio 2016, n. 33074).

L'elemento psicologico del reato e la sua consumazione

L'elemento soggettivo del reato di riciclaggio è connotato dalla consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità e risulta integrato dal dolo generico, che ricomprende sia la volontà di compiere le attività dirette ad impedire od ostacolare l'identificazione della provenienza illecita della res, sia, appunto, la consapevolezza di tale provenienza.

Riguardo al momento consumativo del delitto in parola, esso va individuato nell'azione della sostituzione, del trasferimento o dell'operazione che ostacola l'identificazione della provenienza delittuosa.

Pur essendo a consumazione istantanea, il riciclaggio è un reato a forma libera che può perfezionarsi anche attraverso modalità frammentarie e progressive, trasformandosi, in tale ipotesi, in reato eventualmente permanente, la cui consumazione viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere.

Quanto alla configurabilità del tentativo, abbandonata la formulazione della fattispecie come reato a consumazione anticipata, lo stesso deve ritenersi certamente configurabile.

Confronto tra reati: riciclaggio, ricettazione e reimpiego

La linea di demarcazione tra i delitti di ricettazione e riciclaggio è stata chiaramente tratteggiata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ha offerto precisi criteri discretivi per diversificare le due fattispecie.

Ai sensi dell'art. 648 c.p., commette il delitto di ricettazione, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto.

Ebbene, se da un lato, i due delitti in oggetto sono accomunati dal presupposto del reato, ovvero la provenienza illecita del bene, le differenze strutturali vanno individuate nell'elemento oggettivo e in quello psicologico.

Con riferimento al primo aspetto, basta osservare che la ricettazione si consuma essenzialmente con la ricezione della res delittuosa, mentre nel riciclaggio occorre un quid pluris, dovendosi realizzare un'attività ulteriore di ostacolo all'identificazione delle tracce della provenienza delittuosa dei beni.

Differente è anche l'elemento psicologico, che nella ricettazione è qualificabile nel dolo specifico costituito dal fine di procurare a sé o ad altri un profitto, mentre nel riciclaggio richiede solo il dolo generico, inteso, come visto, quale volontà di ripulire il denaro, i beni o le altre utilità.

Il rapporto che intercorre tra le due fattispecie è, all'evidenza, quello della specialità, dovendosi ritenere – così come affermato costantemente dalla giurisprudenza – che il riciclaggio sia norma speciale rispetto alla ricettazione, individuando il nucleo comune, nella ricezione del bene di provenienza illecita e, l'elemento specializzante, in quella particolare condotta di ostacolo all'identificazione dell'origine delittuosa.

Si è osservato che, in linea astratta, è possibile ipotizzare un concorso materiale di reati tra le due fattispecie, quando all'azione del ricevere i beni che provengono da un delitto, al fine di ottenere un profitto, consegua una successiva condotta di sostituzione.

Ipotesi, come detto, teoricamente configurabile, ma che sul piano pratico trova residuali spazi applicativi atteso che, di norma, la condotta di sostituzione del denaro “sporco” con quello “pulito” elimina il momento della ricezione come autonomo fatto lesivo, atteggiandosi a mero antefatto non punibile.

Alla luce di tale considerazione, pertanto, il concorso tra i menzionati reati sarebbe ammissibile solo nel caso si tratti di condotte distinte, tanto sul piano psicologico, che materiale, oltre che cronologico.

La giurisprudenza di legittimità, con due pronunce conformi, ha ritenuto ammissibile il concorso tra la ricettazione ed il riciclaggio nell'ipotesi in cui, sia pure in un unico contesto temporale, un soggetto riceva una pluralità di cose di provenienza delittuosa, appartenente alla medesima persona, rendendosi responsabile, con riferimento ad alcune di esse, del reato di cui all'art. 648 c.p. e, con riferimento ad altre, di quello di cui all'art. 648-bis c.p.

In tal caso, ad avviso del supremo Consesso, si è infatti in presenza di una pluralità di eventi giuridici e quindi di reati; non si tratta, invero, di un concorso apparente di norme in relazione alla medesima condotta ma di distinti reati commessi con riferimento a beni diversi.

Deve, peraltro, osservarsi che parte della dottrina ritiene, invece, che tra le due fattispecie vi sia un rapporto di specialità reciproca. Secondo tali autorevoli autori, infatti, il riciclaggio sanziona una condotta concretamente idonea ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro o dei beni, mentre la ricettazione prevede, in aggiunta, un dolo specifico.

Di conseguenza, secondo tale filone interpretativo, una condotta finalizzata al profitto ricadrebbe nell'alveo della ricettazione, salvo che non risulti palese l'idoneità della stessa ad ostacolare l'accertamento della provenienza delittuosa dei beni (cfr., CERQUA; TRAVAGLINO; FORTE).

Ancora più problematici sono i rapporti tra il riciclaggio e l'impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita di cui all'art. 648-ter c.p. La norma sanziona chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto.

La clausola di sussidiarietà contenuta nella norma va interpretata come volta ad escludere i comportamenti di coloro che impiegano il denaro, i beni o le altre utilità, avendoli ricevuti direttamente dagli autori dei reati presupposto. L'impiego dei predetti beni da parte di questi soggetti costituisce, pertanto, per espressa previsione legislativa, un mero post factum non punibile dei reati di cui agli artt. 648 e 648 bis c.p., analogamente a quanto previsto per il concorrente nel reato presupposto che investa il provento della sua attività criminosa.

L'applicabilità della norma, dunque, rimane rilegata all'ipotesi – di residuale realizzazione – in cui la ricettazione o il riciclaggio siano già stati effettuati da altri ed i successivi ricettori impiegano il denaro ricevuto nella consapevolezza della sua provenienza delittuosa.

In evidenza

La giurisprudenza si è soffermata sulle differenze intercorrenti tra le citate norme delittuose, stabilendo che tra il reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e quello di riciclaggio, nonché tra quest'ultimo e quello di ricettazione vi è un rapporto di specialità, che discende dal diverso elemento soggettivo richiesto dalle tre fattispecie incriminatrici, essendo comune l'elemento materiale della disponibilità di denaro o altra utilità di provenienza illecita: il delitto di cui all'art. 648 c.p. richiede una generica finalità di profitto, quello di cui all'art. 648-bis lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell'origine illecita, quello, infine, di cui all'art. 648 ter che tale scopo sia perseguito facendo ricorso ad attività economiche o finanziarie.

Più recentemente, tornati sull'argomento, i giudici di legittimità, hanno precisato che integra il solo delitto di impiego di beni di provenienza illecita, nel quale rimangono assorbiti quelli di ricettazione e di riciclaggio, colui che realizza, in un contesto unitario caratterizzato sin dall'origine dal fine di reimpiego dei beni in attività economiche o finanziarie, le condotte tipiche di tutte e tre le fattispecie menzionate. La Corte ha altresì precisato che, per converso, qualora, dopo la loro ricezione o la loro sostituzione, i beni di provenienza illecita siano oggetto, sulla base di una autonoma e successiva determinazione volitiva, di reimpiego, tale condotta deve ritenersi un mero post factum non punibile dei reati di ricettazione o di riciclaggio in forza della clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648-ter c.p. (Cass. pen., 10 gennaio 2003, n. 18103)

Trasferimento fraudolento di valori ex art. 12-quinquies d.l. 306 del 1992. Interazioni e differenze con il reato di riciclaggio

Con il d.l. 306 del 1992, come noto, veniva introdotto, all'art. 12-quinquies, il reato di trasferimento fraudolento di valori, con lo scopo di punire, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque attribuisce ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p.

La fattispecie in esame rappresenta un reato a forma libera, la cui caratteristica comune è costituita dalla determinazione di una situazione di difformità tra la titolarità formale, quella meramente apparente, e la titolarità di fatto di un determinato compendio patrimoniale, finalizzata ad evitare l'assoggettamento a misure di prevenzione o ad agevolare la commissione di reati relativi alla circolazione della ricchezza di illecita provenienza.

Il reato si consuma nel momento dell'attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altre utilità, trattandosi di un reato a carattere istantaneo con effetti permanenti.

In evidenza

Le Sezioni unite, con la sentenza sopra citata, hanno affermato l'autonoma e distinta valenza del delitto di trasferimento di valori e quelli di riciclaggio o reimpiego, stabilendo che il delitto in parola non costituisce delitto presupposto di quello di riciclaggio. In particolare, i giudici hanno pronunciato il principio di diritto secondo cui è configurabile il reato di cui all'art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in capo all'autore del delitto presupposto, il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità, di cui rimanga effettivamente "dominus", al fine di agevolare una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo, poiché la disposizione di cui all'art. 12-quinquies citato consente di perseguire anche i fatti di "auto" ricettazione, riciclaggio o reimpiego, non sussistendo, nel citato art. 12, una clausola di esclusione della punibilità per l'autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi. In sostanza, quindi, secondo quanto affermato dal Supremo Consesso, il reato di cui all'art. 12-quinquies prevedeva, ben prima dell'introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 648-ter.1c.p., una forma “qualificata” di auto-riciclaggio (Cass. pen., Sez. unite, 13 giugno 2014, n. 25191)

Rapporti tra reati tributari e riciclaggio

Un tema di assoluto rilievo attiene alla possibilità che i reati tributari assumano valenza di delitto presupposto del riciclaggio.

In altre parole, la questione involge la configurabilità del delitto di riciclaggio di utilità provenienti da delitti fiscali, di conseguenza occorre valutare se somme di denaro occultate al fisco possono considerarsi profitto proveniente da reato fiscale e, perciò, essere suscettibile di operazioni di ripulitura.

Il dibattito dottrinale per molto tempo ha affermato l'incompatibilità tra reati fiscali e riciclaggio, sulla scorta del fatto che il reato presupposto del riciclaggio poteva essere costituito esclusivamente da delitti che determinano un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell'autore, arricchimento patrimoniale che, nel caso specifico, mancherebbe, atteso che le condotte di evasione, elusione e frode fiscale determinano unicamente un risparmio fiscale o, al più, un eventuale arricchimento futuro nelle ipotesi di indebito rimborso (cfr., CERQUA, Il delitto di riciclaggio dei proventi illeciti, in Il riciclaggio del denaro. Il fenomeno, il reato, le norme di contrasto, a cura di Cappa – Cerqua, Milano, 2012, 78).

In sostanza, a causa dell'impossibilità concreta di individuare la natura e la consistenza dei proventi illeciti, non sarebbe possibile ritenere il reato fiscale delitto presupposto del riciclaggio.

Seguendo questa impostazione, si dovrebbero escludere dal novero dei possibili delitti presupposto tutti quei reati tributari, ad esempio omessa dichiarazione o infedele dichiarazione, omesso versamento di Iva o di ritenute, che non determinano un arricchimento, giacché in questi casi non si potrebbe parlare di proventi, bensì di risparmio fiscale su di una ricchezza generata da comportamenti in astratto leciti.

Diversamente, potrebbero generare ricchezza suscettibile di riciclaggio, ad esempio, i delitti di emissione di fatture per operazioni inesistenti, poiché in questo caso la condotta viene posta in essere al fine di consentire la deduzione di un costo relativo ad operazioni fittizie, che provoca pertanto un aumento di ricchezza nel patrimonio di chi emette il documento fiscale, corrispondente al compenso ricevuto per l'attività illecita, così come la dichiarazione IVA fraudolenta che provochi un indebito rimborso.

Oltre a ciò, venivano evidenziati ulteriori profili di problematicità, rappresentati dal fatto che il momento consumativo del reato fiscale, in specie quello dichiarativo, si identifica con la presentazione della dichiarazione fraudolenta o infedele – subordinato al superamento di determinate soglie di punibilità – per cui si dovrebbe dimostrare, oltre al dolo specifico, la consapevolezza da parte dell'autore del riciclaggio, degli elementi costituitivi del reato presupposto.

In termini più chiari, l'autore del riciclaggio dovrebbe avere la consapevolezza che il denaro sul quale compie le operazioni di “lavaggio” attiene ad una transazione non inclusa nella dichiarazione del soggetto autore del reato presupposto.

Ebbene, nonostante le argomentazioni, per alcuni versi pienamente condivisibili, l'indirizzo attuale della giurisprudenza sembra propendere per la ammissibilità dei reati tributari quali presupposto del riciclaggio.

In una prima e rilevante pronuncia del 2008, la n. 1024, la Corte di cassazione, prendendo le mosse dal mutato contesto normativo del riciclaggio, conseguenza del superamento dell'elencazione tassativa dei delitti presupposto, ha ritenuto che il riciclaggio può presupporre non solo delitti funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti, ma qualsiasi delitto non colposo.

Con una più recente pronuncia (Cass. pen., 15 febbraio 2012, n. 6061), i giudici di legittimità hanno confermato l'orientamento intrapreso, offrendo all'interprete una nuova nozione di altre utilità, ricomprendendo, in tale categoria, tutte quelle utilità che assumono per l'autore o il concorrente del reato presupposto un valore economicamente apprezzabile, tale da includere, dunque, non solo gli incrementi di capitale ma anche i mancati depauperamenti.

Tale considerazione deriva dallo stesso dato testuale della norma, che nell'intenzione del legislatore, con la locuzione di chiusura altre utilità, ha proprio inteso evitare che potessero andare esenti da punizione tutte quelle utilità, anche diverse dal denaro e dai beni, derivanti dal reato presupposto di cui l'autore, grazie all'attività di riciclaggio, possa usufruire.

Tale impostazione, se da un lato, permette di superare la questione dell'individuazione delle utilità suscettibili di camuffamento, non risolve il problema, già accennato, della prioritaria consumazione del reato tributario, nonché dalla sua conoscenza da parte dell'autore del delitto di riciclaggio.

Non può non considerarsi, a tale proposito, che tra il compimento della transazione e il perfezionamento del reato tributario dichiarativo (coincidente con il momento di presentazione della dichiarazione) può anche intercorrere un lasso temporale più o meno ampio, tale per cui l'attività di ripulitura delle somme nascoste al fisco, che avvenga prima della consumazione del reato tributario, non potrà, all'evidenza, integrare il delitto di cui all'art. 648-bis c.p., non essendo ancora perfezionato il reato presupposto.

Tale situazione è stata denunciata da alcuni attenti autori, indicandola come una sorta di “limbo penale”, in cui le condotte di trasferimento, sostituzione o occultamento di somme di denaro illecitamente sottratte al fisco, prima della presentazione della dichiarazione infedele, non possono certamente integrare il reato di riciclaggio (cfr., IELO).

Una soluzione al problematico vuoto di tutela potrebbe, tuttavia, essere quello di valutare la configurabilità, ricorrendone tutte le condizioni, di un concorso nel delitto tributario.

La questione appare meritevole di approfondimento, allorché occorre stabilire se una condotta di occultamento di somme di denaro, sottratto a tassazione per effetto di condotte elusive commesse da altri, possa configurare un concorso nel reato tributario o l'autonoma figura di riciclaggio.

Il criterio costantemente adottato distingue a seconda del momento in cui è intervenuto l'accordo per la ripulitura del denaro sporco; in particolare, se questo si è perfezionato prima o durante l'esecuzione del reato presupposto, si avrà un concorso, avendo tale condotta contribuito causalmente alla realizzazione del reato, se, invece, l'accordo si è perfezionato in un momento successivo, la condotta sarà allora punibile a titolo di riciclaggio.

Le cause di non punibilità del reato tributario presupposto e le ripercussioni sull'integrazione del delitto di riciclaggio

Abbiamo già visto come l'ultimo comma dell'art. 648-bis c.p., che richiama l'art. 648, comma 4, c.p., stabilisce che la fattispecie di riciclaggio è integrata anche quando l'autore del reato presupposto non è imputabile, non è punibile oppure manchi una condizione di procedibilità. C'è, tuttavia, da domandarsi se le cause di non punibilità tipiche del reato tributario, ci si riferisce in particolare alle ipotesi di condono e scudo fiscale, siano soggette alla medesima disciplina.

Per una compiuta analisi della questione, appare utile prendere le mosse da una decisione della Corte di cassazione che si è pronunciata sul tema in oggetto, con riferimento al condono disposto nel 2003. In particolare i giudici hanno chiarito: se è vero poi che il condono ha l'effetto di rendere leciti i profitti di evasione fiscale, ciò può dirsi effetto di una previsione legislativa specifica, che per così dire sana i profitti di evasione fiscale nel momento della loro utilizzazione successiva al condono al fine di consentire al contribuente di reimmettere i beni della supposta evasione fiscale nel circuito produttivo, ma non elimina la originaria provenienza delittuosa di quel denaro nel suo momento genetico e conseguentemente consente di confermare la sussistenza dei presupposti delle fattispecie criminose per le quali è stata emessa la misura cautelare in questione. A conferma di tale rilievo può ancora osservarsi come in ogni caso il condono sia intervenuto in un momento successivo (nel 2003) al consumarsi dei reati di riciclaggio e di illecito reimpiego contestati e come ciò valga a supportare l'affermazione di una sanatoria ex post del denaro lucrato dall'evasione a seguito dell'intervenuto condono (Cass. pen., 11 maggio 2005, n. 23396).

Emerge con chiarezza, dunque, il punto nodale della questione: la causa di non punibilità verificatasi dopo la realizzazione dell'attività di riciclaggio non elimina il connotato di illiceità del denaro, l'attività compiuta, invece, post causa di non punibilità, rimane scriminata, poiché la sanatoria dei profitti di evasione fiscale ha reso la condotta di immissione nel mercato del tutto lecita.

Le considerazioni sopra esposte valgono anche per la disciplina, di recente introduzione, relativa alla voluntary disclosure o collaborazione volontaria, secondo cui l'autore dell'illecito tributario che indichi spontaneamente all'amministrazione finanziaria tutti i capitali detenuti all'estero nonché la loro provenienza, in alcuni casi non sarà punibile ed in altri casi beneficerà di uno sconto di pena.

L'adesione a tale procedura di regolarizzazione spontanea, così come ai provvedimenti di condono o scudo di fiscale, pone, peraltro, il problema di come “trattare” i dati e le informazioni ricevuti in sede di disclosure, atteso che non raramente la conoscenza di tali elementi potrebbe far scattare un obbligo di denuncia per condotte integranti il reato di riciclaggio.

Ebbene, non pare potersi dubitare dell'obbligo, in capo ai funzionari dell'amministrazione finanziaria (quali pubblici ufficiali) di denuncia delle fattispecie di cui all'art. 648-bis c.p.

Più problematico, appare invece l'obbligo che ricade sul professionista. In ottemperanza al disposto di cui all'art. 12, comma 2, d.lgs. 231 del 2007, di cui si dirà più approfonditamente nel prossimo paragrafo, parrebbe potersi escludere in capo ai professionisti e agli intermediari finanziari che hanno assistito il contribuente nella procedura di collaborazione volontaria, l'obbligo di segnalare le eventuali operazioni sospette, tuttavia il perimetro esatto degli adempimenti cui sono tenuti i professionisti è ancora alquanto incerto.

Analisi degli obblighi antiriciclaggio per i professionisti. La cosiddetta collaborazione attiva

Un ulteriore profilo che merita un opportuno approfondimento, nel presente scritto, è quello riguardante gli obblighi antiriciclaggio per i professionisti.

Preliminarmente, occorre rilevare che la normativa italiana disciplinante gli adempimenti per i soggetti esposti al rischio di incorrere in attività collegate al fenomeno del riciclaggio, è comparsa per la prima volta nel 1991, con la legge 197, che recepiva la normativa europea.

Col tempo, il novero dei soggetti destinatari di tale normativa si è rilevantemente esteso ed ha finito per ricomprendere anche i liberi professionisti, relativamente ai quali il rischio di prestare attività, servizi o consulenze che possono essere utilizzate a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose, appare alquanto alto.

Invero, nel 2007, tra le misure finalizzate al contrasto del fenomeno della ripulitura dei capitali di provenienza illecita, è stato inserito il d.lgs. 231 del 21 novembre 2007, disciplinante gli adempimenti e gli obblighi in capo a professionisti, intermediari finanziari, istituti di credito ed altri soggetti indicati.

Gli adempimenti cui sono tenuti i professionisti, nello specifico, possono riassumersi nell'identificazione delle clientela, nella tenuta di un archivio, nella segnalazione delle operazioni sospette nonché nell'istituzione di misure di controllo.

L'obbligo più rilevante afferisce certamente a quello di segnalazione delle operazioni sospette, ossia di quelle operazioni che, per valore della prestazione, tipologia del cliente, modalità di condotta, possono far sorgere il sospetto che si tratti di operazioni volte al camuffamento di capitali di provenienza illecita.

L'Unità di Informazione Finanziaria ha esemplificato alcuni dei criteri di valutazione dai quali si può presumere una situazione di sospetto e tra questi vi sono le incongruenze delle operazioni rispetto alla capacità economica del cliente, la tipologia delle attività svolte, il profilo di rischio di riciclaggio, il coinvolgimento di soggetti insediati in regimi fiscali privilegiati, l'ingiustificata interposizione di soggetti terzi, le condizioni palesemente diverse rispetto a quelle che si verificano di norma nel mercato di riferimento e i comportamenti dei clienti reticenti a fornire informazioni complete.

A tale proposito è intervenuta, altresì, la Banca d'Italia che ha emanato le Istruzioni operative per l'individuazione di operazioni sospette, il cosiddetto Decalogo, al fine di fornire delle linee guida ai professionisti che si trovano a dover adempiere agli obblighi di segnalazione.

L'impianto sanzionatorio costruito attorno alla normativa in esame si contraddistingue di rimedi sia di tipo amministrativo che penale, per le violazioni ritenute più gravi.

Come si è anticipato nel paragrafo precedente, la disciplina in esame ha previsto un'esenzione degli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette, ai sensi dell'art. 12, comma 2, del citato decreto, per i professionisti che hanno ricevuto informazioni dai propri clienti, nel corso dell'esame della posizione giuridica o nell'espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza del cliente in un procedimento giudiziario, comprese le eventuali consulenze finalizzate proprio ad evitare un eventuale procedimento.

Tuttavia, si è visto, come i contorni di tale area di impunità rimangano ancora poco definiti, creando conseguentemente, una situazione di profonda incertezza tra i professionisti che si trovano a dover trattare tali dati “sensibili”.

A conclusione della disamina svolta, non può sottacersi come qualche dubbio si ponga, peraltro, sulla concreta applicabilità della normativa antiriciclaggio, ostacolata, da un lato, dal possibile atteggiamento reticente del professionista – soprattutto di piccole dimensioni – che per timore di perdere la clientela scelga di non adempiere agli obblighi di segnalazione e, dall'altro, dagli stessi clienti che, avvalendosi dei professionisti spesso proprio per compiere operazioni al limite della legalità, non forniscano tutte le informazioni.

Casistica

Cass. pen., sentenza 2 aprile 2007, n. 15092

Integra il delitto di riciclaggio la condotta di smontaggio e di successiva vendita, o riutilizzo in altro modo, dei singoli pezzi di un'autovettura di provenienza delittuosa, pur se non muniti di codici identificativi suscettibili di alterazione, in ragione della idoneità dell'indicata condotta ad ottenere l'occultamento della provenienza del bene

Cass. pen., Sez. II, 21 novembre 2014, n. 10746

In tema di riciclaggio, non è necessario che il delitto presupposto risulti accertato con sentenza passata in giudicato ma è sufficiente che lo stesso non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente per il reato di cui all'art. 648-bis c.p. ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza; ne consegue che non può essere automaticamente esclusa la configurabilità del delitto di riciclaggio, per effetto della intervenuta archiviazione del procedimento relativo al reato presupposto, trattandosi di decisione non suscettibile di giudicato.

Cass. pen., 19 novembre 2013, n. 7795

In tema di riciclaggio, integra gli estremi del reato putativo, non punibile ai sensi dell'art. 49, comma 1, c.p., la condotta di chi abbia agito ritenendo o accettando il rischio di riciclare somme di denaro provenienti da delitto non colposo, quando quest'ultimo risulti in realtà insussistente.

Cass. pen., 27 novembre 2008, n. 1024

Anche il delitto d'associazione di tipo mafioso può costituire il presupposto di quello di riciclaggio, atteso che lo stesso è di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, come dimostra il fatto che tra gli scopi dell'associazione vi è anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite utilizzando il metodo mafioso.

Cass. pen., 15 febbraio 2012, n. 6061

Soltanto le contravvenzioni ed i delitti colposi non possono costituire il presupposto di quello di riciclaggio; ne consegue che tutti i delitti dolosi, e quindi anche quello di frode fiscale, sono idonei a fungere da reato presupposto del riciclaggio. (La Corte Suprema ha precisato che il riferimento dell'art. 648-bis c.p. alle altre utilità ben può ricomprendere il risparmio di spesa che l'agente ottiene evitando di pagare le imposte dovute, poiché esso produce un mancato decremento del patrimonio che si concretizza in una utilità di natura economica).

Guida all'approfondimento

CERQUA, Il delitto di riciclaggio, p. 94;
CERQUA, Il delitto di riciclaggio dei proventi illeciti, in Il riciclaggio del denaro. Il fenomeno, il reato, le norme di contrasto, a cura di Cappa – Cerqua, Milano, 2012, 78)
FORTE, L'elemento soggettivo nel riciclaggio, p. 179;
IELO, Delitti tributari e riciclaggio: spunti di riflessione alla luce del decreto sullo scudo fiscale, in Resp. amm. Soc. enti, 2010, vol. I, 7 ss.;
TRAVAGLINO, Riciclaggio: concorso di persone e di reati, in dir. pen. proc., 1996, p. 758.

Sommario