Omissione di atti di ufficioFonte: Cod. Pen Articolo 328
05 Agosto 2015
Inquadramento
La formulazione dell'art. 328 c.p., introdotta dall'art. 16, l. 26 aprile 1990, n. 86 contiene al suo interno due distinte fattispecie delittuose: al primo comma si sanziona la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del proprio ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo; al secondo comma è invece punita la mera omissione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo. I reati di rifiuto, ritardo ed omissione di atti d'ufficio, sono inclusi dal legislatore nell'ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le richiamate fattispecie incriminatrici, tutte frutto della codificazione fascista, rinvenivano originariamente la propria ratio nella esigenza di tutela del prestigio della pubblica amministrazione. Con l'entrata in vigore della Costituzione, oggetto della tutela è divenuto il buon andamento della P.A., in aderenza ai principi enunciati dall'art. 97 Cost. Il reato di rifiuto di atti d'ufficio, disciplinato dal comma primo dell'art. 328 c.p., è un reato istantaneo perché, consistendo nel mancato adempimento dell'attività doverosa da parte dell'agente, si consuma nel momento stesso in cui si verifica l'omissione o è apposto il rifiuto. Di conseguenza l'agente è obbligato all'adempimento appena possibile e qualora fosse oggettivamente impossibilitato a compiere l'atto dovuto a causa delle procedure o delle attività richieste, si ritiene che l'atto debba essere compiuto entro trenta giorni, in applicazione della disciplina del silenzio-rifiuto. Trattasi inoltre di reato di pericolo, integrato ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall'ordinamento. Alcun rilievo può essere pertanto attribuito alla mancanza di un danno in concreto. Ciò stabilito è possibile affermare che la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione integri il reato di rifiuto di atti di ufficio indipendentemente dallo specifico atto e dal nocumento che possa derivarne (Cass. pen., Sez. VI, 19 settembre 2008, n. 38386).
È opinione comune in giurisprudenza che il rifiuto debba essere innanzitutto indebito, ossia contrastante con gli specifici doveri del pubblico funzionario, e attenere ad atti “qualificati” dall'urgenza e rientranti in materie tassativamente individuate (giustizia, ordine e sicurezza sociale, igiene e sanità). In altre parole il pubblico ufficiale deve essere consapevole di agire contra jus; si tratta, quindi, di un dolo generico che comprende la consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti ma che non implica né presuppone il fine specifico di violare tali doveri. Invero, secondo la comune opinione giurisprudenziale, la consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti svolge il ruolo di contenimento della rilevanza penale alle sole forme di diniego che non trovano alcuna ragionevole spiegazione (Cass. pen., sez. VI, 3 luglio 2000,n. 8949; Cass. pen., Sez. VI, 11 febbraio 2010, n. 8996). Per quanto riguarda la forma del rifiuto, si ritiene che lo stesso possa essere anche implicito. Tuttavia si discute in giurisprudenza se un contegno meramente omissivo possa concretizzare il rifiuto richiesto per la integrazione della fattispecie penalmente rilevante. In primo luogo si evidenzia che, con la riforma della fattispecie incriminatrice ad opera della legge 86/1990, i contegni omissivi debbono necessariamente assumere la connotazione del rifiuto di un atto urgente, da compiersi, come recita la norma, senza ritardo. Sul punto si registra un contrasto giurisprudenziale che andrebbe risolto con un intervento delle Sezioni Unite penali della Cassazione.
Per quanto concerne la previa richiesta dell'interessato, quale presupposto per la integrazione del reato in oggetto, la Corte di cassazione ha precisato a più riprese che il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine ma anche nella ipotesi in cui sussista comunque un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto, in modo tale che l'inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell'atto medesimo (Cass. pen., Sez. VI, 16 marzo 2006, n. 17570; Cass. pen., Sez. VI, 7 gennaio 2010, n. 4995).
Con riferimento all'oggetto della tutela, il reato di rifiuto di atti di ufficio, nella ipotesi del primo comma dell'art. 328 c.p., di norma lede solo l'interesse della pubblica amministrazione al corretto esercizio delle funzioni pubbliche. Pertanto, persona offesa dal reato è soltanto la pubblica amministrazione il cui buon andamento mira a tutelare la fattispecie incriminatrice in esame. Il privato a sua volta potrebbe risentire solo eventualmente, e quindi quale soggetto danneggiato, della condotta antigiuridica del pubblico ufficiale; di conseguenza, sotto l'aspetto prettamente processuale non avrà diritto a ricevere l'avviso relativo alla richiesta di archiviazione e non potrà opporsi alla stessa.
Il secondo comma dell'art. 328 c.p. punisce la mera omissione susseguente alla richiesta del privato. Affinché possa essere integrata l'ipotesi delittuosa in commento è necessario che vi sia una preventiva richiesta del privato rivolta al pubblico ufficiale; richiesta che deve assumere la funzione tipica di una diffida ad adempiere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono. Si ritiene dunque insufficiente una richiesta telefonica o verbale. Qualora la richiesta non sia qualificabile come diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario, e da quest'ultimo immediatamente valutabile come tale in ragione del suo contenuto e del suo tenore letterale, si esclude che possa ritenersi configurato il reato. In giurisprudenza si esclude altresì la configurabilità del reato di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p. nella ipotesi in cui si ravvisi il carattere puramente pretestuoso della diffida ad adempiere (Cass. pen.,Sez. VI, 7 giugno 2011, n. 36249). In altre parole, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il dovere di risposta del pubblico ufficiale, la cui omissione comporta la consumazione del reato, presuppone che sia avviato un procedimento amministrativo con conseguente necessità della sua istruttoria e tempestiva definizione. A tal fine si ritiene che ai fini della configurabilità del reato di omissione di atti d'ufficio la diffida debba avere il requisito della serietà e ragionevolezza, rimanendo al di fuori della tutela penale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitino la pubblica amministrazione ad una attività che la stessa ritenga ragionevolmente superflua e non doverosa (Cass. pen., Sez. VI, 19 ottobre 2011, n. 79; Cass. pen., Sez. VI, 7 giugno 2011, n. 36249). Inoltre, vale la pena evidenziare che il reato di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p. non sussiste in presenza di una domanda che prospetti la competenza dell'ufficio cui è rivolta ma solo quando sussista un obbligo di procedimento derivante dalla idoneità della domanda. In sostanza si vuole in altri termini significare che non ogni richiesta di atto che il privato sollecita alla P.A. ha idoneità ad attivare il meccanismo per l'operatività della previsione delittuosa di cui al secondo comma dell'art. 328 c.p. Per quanto concerne il momento consumativo del reato, si evidenzia che, a differenza di quanto visto per la fattispecie disciplinata dal primo comma dell'art. 328 c.p., il reato di omissione di atti d'ufficio non si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione, necessitando, invero, del concorso delle tre seguenti condotte:
Per quanto concerne la richiesta formale dell'interessato, si badi che, affinché possa ritenersi integrato il reato, è necessario che la stessa provenga da un privato che abbia comunque un interesse qualificato, ovvero diretto, concreto ed attuale al compimento dell'atto; interesse corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, come si esprime l'art. 22, comma 1, lett. b), l. 241/1990 (Cass. pen., sez. VI, 2 ottobre 2003, n. 43492. Più di recente Cass. pen., Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 30463). Il principio della personalità della responsabilità penale, sancito dall'art. 27 Cost., impone, inoltre, che la richiesta dell'interessato debba essere espressa e diretta al pubblico ufficiale titolare del potere-dovere di compere l'atto e non alla pubblica amministrazione in genere e ciò anche in forza della disciplina sul procedimento amministrativo di cui alla legge 241/1990 (Cass. pen., Sez. VI,n. 6165/2015). Le condotte omissive del mancato compimento dell'atto entro il termine stabilito ovvero della mancata risposta sulle ragioni del ritardo, si ritiene in giurisprudenza che siano di per sé sufficienti a configurare il reato di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p., a prescindere dal fatto che la condotta omissiva dell'agente abbia o meno arrecato un danno, non trovando applicazione in tali ipotesi il principio di necessaria offensività della condotta. Il reato di omissione d'atti di ufficio si ritiene possa essere integrato anche dalla mancata comunicazione, da parte della P.A., entro trenta giorni dalla richiesta dell'interessato, a norma dell'art. 5 della legge n. 241 del 1990, dell'unità organizzativa competente e del nominativo del responsabile del procedimento (Cass. pen., Sez. VI, 23 aprile 2009, n. 32837). La legge n. 241 del 1990, all'art. 5, obbliga, infatti, la P.A. a comunicare l'unità organizzativa e il nominativo del responsabile del procedimento a coloro nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a coloro che per legge devono intervenire nel procedimento nonché, su richiesta, a chiunque vi abbia interesse. Sempre in relazione alla rilevanza del comportamento omissivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, si è affermato in giurisprudenza che nel caso di richiesta di accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dall'art. 25, l. 241/1990, coincidendo il termine di trenta giorni dalla richiesta dell'interessato, formulata ex art. 328, comma 2, c.p., con il termine stabilito per il maturarsi del silenzio-rifiuto, deve escludersi la configurabilità del reato di omissione di atti di ufficio dal momento che con il silenzio-rifiuto verrebbe a determinarsi una situazione concettualmente incompatibile con l'inerzia della pubblica amministrazione (Cass. pen.,Sez. VI,6 ottobre 1998, n. 12977). Un diverso indirizzo giurisprudenziale non esclude tuttavia in tali casi la configurabilità del reato in esame dal momento che con l'esperibilità di rimedi giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto non si soddisfano integralmente le esigenze di tutela nei confronti della pubblica amministrazione. In altre parole il silenzio-rifiuto, non equivalendo ad un provvedimento negativo, andrebbe considerato come un mero inadempimento e quindi come una condotta omissiva idonea ad integrare l'elemento preso in esame dalla ipotesi di reato di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p. (Cass. pen.,Sez VI,6 aprile 2000, n. 5691). Ciò posto occorre rilevare che l'ampliamento delle ipotesi di silenzio-assenso, determinato dalle modifiche intervenute alla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, ad opera delle leggi 15/2005 e 80/2005 sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, rende difficilmente configurabile l'ipotesi delittuosa di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p, dal momento che l'ottenimento automatico della pretesa amministrativa esonera il privato dall'attivazione di qualsivoglia meccanismo di diffida. Il reato di omissione di atti di ufficio, che come abbiano evidenziato può essere integrato solo dal pubblico ufficiale destinatario della richiesta del privato e, dunque, responsabile dell'atto richiesto, ha una natura plurioffensiva perché, oltre a ledere l'interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione (art. 97), lede il concorrente interesse del privato all'adozione entro i termini dell'atto amministrativo dovuto. Infatti, la norma di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p. da un lato presuppone una richiesta presentata da un soggetto che vi abbia interesse, in quanto titolare di una situazione giuridica qualificata come diritto soggettivo o interesse legittimo, e dall'altro tutela l'aspettativa dell'istante ad ottenere il provvedimento richiesto o, in alternativa, la comunicazione dei motivi del ritardo o della mancata adozione.
Per quanto concerne la risposta prevista dall'art. 328, comma 2, c.p., con cui la pubblica amministrazione è tenuta ad esporre al richiedente le ragioni del ritardo nel compimento dell'atto, si ritiene in giurisprudenza che la stessa debba rivestire la forma scritta in base ai principi generali dell'ordinamento che richiedono tale forma per tutti gli atti destinati ad essere controllati da una autorità diversa e normalmente sovraordinata; ciòappare conforme allo spirito delle modifiche apportate dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 al testo dell'art. 328 c.p., con le quali il legislatore ha inteso offrire ai cittadini una maggiore tutela nei confronti dell'operato della pubblica amministrazione. Vicende processuali
Un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato esclude che nell'ipotesi di rifiuto di atti di ufficio, di cui al comma 1 dell'art. 328 c.p., spetti al privato l'avviso relativo alla richiesta di archiviazione, non rivestendo, a differenza della pubblica amministrazione, la veste di persona offesa dal reato. Allo stesso modo si esclude in capo al privato la possibilità di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. Il principio è stato affermato:
Un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ammette che il privato, nella ipotesi di omissione di atti di ufficio di cui al comma secondo dell'art. 328 c.p., possa assumere la veste di persona offesa e, di conseguenza, proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero. Il principio è stato affermato:
Casistica
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