Droga (traffico di)

29 Febbraio 2016

L'art. 73 d.P.R 309/1990 punisce chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope. L'assetto della norma incriminatrice è di recente venuto a mutare più volte: a otto anni dall'entrata in vigore della l. 49/2006 (c.d. legge Fini-Giovanardi), che aveva radicalmente innovato la disciplina delle sostanze stupefacenti acuendone gli aspetti repressivi ed introducendo la contestata equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, la sentenza n. 32 del 21 febbraio 2014 della Corte Costituzionale ha spazzato via la parte più significativa di quella novella, viziata da un illegittimo ricorso alla decretazione di urgenza, facendo rivivere l'originario impianto normativo del d.P.R 309/1990 (c.d. legge Jervolino-Vassalli).
Inquadramento

L'art. 73 d.P.R 309/1990 punisce chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope.

L'assetto della norma incriminatrice è di recente venuto a mutare più volte: a otto anni dall'entrata in vigore della l. 49/2006 (c.d. legge Fini-Giovanardi), che aveva radicalmente innovato la disciplina delle sostanze stupefacenti acuendone gli aspetti repressivi ed introducendo la contestata equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, la sentenza n. 32 del 21 febbraio 2014 della Corte Costituzionale ha spazzato via la parte più significativa di quella novella, viziata da un illegittimo ricorso alla decretazione di urgenza, facendo rivivere l'originario impianto normativo del d.P.R 309/1990 (c.d. legge Jervolino-Vassalli).

Poco prima, il d.l. 146/2013 aveva trasformato la circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, in fattispecie autonoma di reato, al dichiarato scopo di ridurre la presenza nella popolazione carceraria dei soggetti tossicodipendenti responsabili di fatti di minor gravità.

Infine, a distanza di due mesi dalla pronuncia della Consulta, il d.l. 36/2014 ha restituito coerenza al sistema, senza tuttavia incidere sui primi quattro commi dell'art. 73 d.P.R. 309/1990: il ripristinato regime sanzionatorio differenziato ha trovato riscontro nelle nuove tabelle delle sostanze stupefacenti ma non è stato esteso anche al fatto di lieve entità, del quale è stata ulteriormente limata la cornice edittale (ancora indifferente, dunque, al tipo di droga trattata).

Il criterio tabellare, le tabelle vigenti e le sostanze “ritabellate”.

Il d.P.R. 309/1990 non reca una definizione farmacologica delle sostanze stupefacenti o psicotrope: in virtù del criterio c.d. tabellare adottato dal nostro ordinamento, nella categoria rientrano esclusivamente quelle sostanze — di origine naturale ovvero sintetica — inserite nelle tabelle allegate al Testo unico, con la conseguenza che le condotte relative ad ogni ulteriore sostanza che pure presenti i caratteri tipici di quelle stupefacenti (la capacità di incidere sul sistema nervoso centrale dell'assuntore, stimolandolo ovvero deprimendolo, e di creare assuefazione, tolleranza e dipendenza), non sono penalmente rilevanti (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 34072/2003 relativa alla chata edulis; Cass. pen., Sez. VI, n. 19056/2007 relativa ai semi di rosa hawaiana; Cass. pen., Sez. un., n. 47604/2012, relativa ai semi di canapa).

L'aggiornamento delle tabelle è rimesso – ai sensi dell'art. 13 Tu – a decreti che il Ministro della Salute emette di concerto con il Consiglio Superiore di Sanità e con l'Istituto Superiore di Sanità: si tratta di una fonte sub primaria che integra il precetto penale mediante specificazioni di carattere tecnico (senza che sia dunque riscontrabile una violazione del principio di riserva di legge).

Le vigenti tabelle delle sostanze stupefacenti sono quelle introdotte dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79: l'intervento normativo del 2014 ha fatto seguito alla cancellazione – per effetto della sentenza n. 32/2014 – delle tabelle ridisegnate dalla l. 49/2006, ed ha colmato il vuoto normativo che aveva improvvisamente precluso l'incriminazione delle condotte relative alle oltre 500 sostanze inserite nelle tabelle a far data dal 2006. Le nuove tabelle ripropongono la classificazione già seguita fin dagli anni '70, e dunque distinguono le droghe “pesanti” (l'oppio, la morfina e l'eroina; le foglie di coca e la cocaina; le anfetamine ad azione eccitante sul sistema nervoso, tra le quali L.S.D. ed ecstasy o M.D.M.A.; le sostanze di sintesi contenenti tetraidrocannabinolo, come ad esempio la cannabis sintetica; la chata edulis e la catina), annoverate nella prima tabella, dalle droghe “leggere” (la cannabis, l'hashish, la marijuana), annoverate nella seconda tabella. Nella terza e nella quarta tabella sono elencate le sostanze medicinali equiparate ai fini sanzionatori rispettivamente alle droghe “pesanti” (ad esempio i barbiturici ad alto effetto ipnotico e sedativo) ed alle droghe “leggere” (ad esempio le benzodiazepine). Vi è poi un quinto elenco, la tabella dei medicinali, a sua volta ripartito in cinque sezioni, nel quale sono indicati i medicinali di impiego terapeutico contenenti il principio attivo di sostanze stupefacenti (ad esempio il metadone, la morfina, il nandrolone), che possono essere detenuti solo nei limiti delle prescrizioni sanitarie.

Poiché, come si è visto, le tabelle sono introdotte nell'ordinamento ed aggiornate da una fonte sub primaria che integra il precetto penale, secondo lo schema tipico delle norme penali in bianco, trovano inderogabile applicazione i principi dettati dall'art. 2 c.p., ed in specie quello di non retroattività delle disposizioni incriminatrici o comunque di sfavore. L'inclusione di una sostanza nella tabella spiega dunque effetti solo per le condotte poste in essere successivamente (per un'applicazione pratica del principio, cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 24771/2011); ne consegue che, per tutte le condotte commesse prima del 21 marzo 2014 (data di entrata in vigore del d.l. n. 36/2014), l'imputato non può essere condannato se la sua condotta è relativa ad una sostanza stupefacente che era stata tabellata solo dalla l. 49/2006 ovvero successivamente (come ad esempio la chata edulis, inserita in tabella per effetto del decreto ministeriale 11 aprile 2006, o il nandrolone, inserito in tabella per effetto del decreto ministeriale 11 giugno 2010).

La sentenza n. 32/2014 ha dunque prodotto, irrimediabilmente, una serie di abolitiones criminis rispetto a tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per le prima volta nelle tabelle dal 2006 ad oggi: fenomeno destinato non solo ad incidere sui processi ancora in corso ma anche a travolgere, ex art. 673 c.p.p., quelli già definiti con sentenza irrevocabile di condanna o di applicazione della pena (cfr. Cass. pen., Sez. un., 26 febbraio 2015, n. 29316).

Il principio attivo

Gli effetti tipici correlati all'assunzione di una sostanza stupefacente (alterazione del sistema nervoso centrale, assuefazione, dipendenza) sono provocati dal principio attivo in essa contenuto. Per questo si afferma che, per ritenere penalmente rilevante una condotta relativa ad una sostanza stupefacente, non è sufficiente accertare che detta sostanza sia inserita nelle tabelle ministeriali ma – in ossequio al principio di offensività – è necessario accertare che si tratti di sostanza che in concreto contenga principio attivo; non sono, dunque, idonee ad arrecare una lesione al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice le condotte relative a sostanze che contengono un principio attivo talmente esiguo (ossia prossimo allo zero) che la loro assunzione non potrebbe spiegare alcun effetto drogante neppure su un soggetto non assuefatto.

Ove la sostanza abbia un principio attivo esiguo ma comunque idoneo a spiegare efficacia drogante, il reato deve ritenersi integrato, anche se il quantitativo di principio attivo sia inferiore a quello della dose media singola indicato (ad altri fini) dal d.m. 11 aprile 2006 (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 43184/2013 e Cass. pen., Sez. IV, n. 1304/2014). In casi del genere – tutti, di regola, catalogabili tra i fatti di lieve entità ex art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 – può trovare spazio l'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, potendosi dunque escludere la punibilità di condotte non abituali che, anche in considerazione della esiguità del principio attivo, abbiano arrecato una lesione non particolarmente significativa ai beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice.

È pertanto imprescindibile l'accertamento della natura e della qualità della sostanza stupefacente oggetto di contestazione: ove un'indagine di tal genere non sia stata fatta nel corso delle indagini preliminari, vi si deve procedere nel corso del giudizio; se l'imputato sceglie di essere giudicato nelle forme del rito abbreviato, non può dolersi della decisione del giudice di disporre perizia sullo stupefacente ex art. 441, comma 5, c.p.p. (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 45016/2014 e Cass. pen., Sez. III, n. 11660/2015); in questo caso, peraltro, il giudice può comunque fondare l'affermazione di responsabilità dell'imputato sull'esito del narcotest condotto dalla polizia giudiziaria (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 43226/2013), a meno che non venga in rilievo un quantitativo così esiguo di sostanza stupefacente da far residuare, in assenza di accertamenti tossicologici, il dubbio sulla concreta offensività della condotta (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 44420/2013).

L'elemento materiale e il bene giuridico protetto

La norma incriminatrice contiene una illustrazione precisa e dettagliata delle condotte relative alle sostanze stupefacenti idonee ad integrare il reato, condotte che possono essere commesse da chiunque, non essendo richiesto che il soggetto agente possieda alcuna particolare qualifica soggettiva: si tratta, pertanto, di un reato comune.

Il legislatore – per favorire la più incisiva tutela dei beni giuridici protetti, tradizionalmente individuati nella salute pubblica, nella sicurezza pubblica e nell'ordine pubblico (quello in argomento è dunque delitto plurioffensivo: cfr. Corte cost., n. 333/1991; Cass. pen., Sez. un., n. 9973/1998 e, più di recente, Cass. pen., Sez. IV, n. 32147/2014) – ha delineato un reato di pericolo presunto o astratto.

Il reato ha natura permanente in relazione alle condotte che — come la detenzione, la coltivazione, il trasporto, ecc. — presuppongono un prolungato rapporto di disponibilità della sostanza stupefacente, e dunque un perpetuarsi dell'offesa al bene protetto che dipende direttamente dalla volontà del reo; in tali casi la consumazione si protrae fino a quando perdura la disponibilità. Ha, invece, natura istantanea in relazione alle condotte che — come la vendita, la cessione, la consegna — integrano ed esauriscono l'offesa al bene protetto; in tali casi il reato si consuma nel momento in cui viene posta in essere l'illecita condotta.

Le diverse fattispecie elencate dalla norma incriminatrice sono tra loro alternative, disegnando una sorta di progressione che parte dalle attività necessarie a produrre lo stupefacente (coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione), si sviluppa indicando le attività che comportano il trasferimento dello stupefacente da o verso lo Stato (esportazione, importazione, passaggio o spedizione in transito) e il passaggio dello stupefacente dallo spacciatore al consumatore (vendita, cessione, offerta in vendita, messa in vendita, commercio, consegna, distribuzione, invio, procacciamento) e si conclude con l'incriminazione di condotte relative alla semplice disponibilità, che possa comunque reputarsi illecita, dello stupefacente (acquisto, ricezione, trasporto, ed infine la condotta residuale ed omnicomprensiva della detenzione): il reato è certamente configurabile ove l'imputato abbia posto in essere anche solo una delle condotte ivi previste.

In applicazione dei generali principi su unità e pluralità di reati, non può ravvisarsi un concorso formale di reati quando, nel medesimo contesto spazio-temporale, un soggetto ponga in essere — in relazione al medesimo quantitativo di sostanza stupefacente — più azioni tipiche tra quelle descritte dalla norma incriminatrice (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 34768/2014, e Cass. pen., Sez. III, n. 28919/2013).

Se non vi è identità spazio-temporale tra le condotte, ovvero se esse non fanno riferimento al medesimo quantitativo o alla medesima partita di sostanza stupefacente, devono configurarsi diversi reati in concorso materiale tra loro: così ad esempio nel caso di acquisto di stupefacente da parte di chi — dopo aver compiuto le necessarie operazioni di taglio, suddivisione e confezionamento delle singole dosi — lo ceda poi al dettaglio ai diversi acquirenti (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 44791/2014), ovvero nel caso di cessione di due diverse dosi di sostanza stupefacente a due distinti acquirenti (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 50112/2013).

Se la condotta ha ad oggetto sostanze stupefacenti di diversa natura ma rientranti nella medesima tabella o nel medesimo gruppo omogeneo di tabelle, deve ritenersi integrato un unico reato, trattandosi di azione connotata da un'unica aggressione a beni tutelati in maniera omogenea dalla norma incriminatrice; viceversa, ove la condotta – pur se connotata da quella identità spazio-temporale della quale si è detto – interessi sostanze stupefacenti ricomprese in tabelle diverse e non affini, sono configurabili più reati in concorso formale tra loro, dovendosi ritenere che il commercio illecito di droghe “pesanti” rechi in sé una maggiore offensività rispetto a quello di droghe “leggere” (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 42485/2009 e, dopo la ripristinata distinzione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, Cass. pen., Sez. IV, n. 34261/2014).

Le singole condotte vietate

Coltivazione: vi rientrano le attività relative alle piante produttrici di sostanze stupefacenti, a partire dalla seminae fino al momento della raccolta.

Produzione: vi rientrano le attività dirette a ricavare dalle piante il prodotto stupefacente, quali la raccolta delle foglie o delle piante, la lavorazione e la frantumazione delle foglie.

Fabbricazione: è una categoria residuale che ricomprende tutte le attività, non riconducibili alla produzione, che siano comunque dirette ad ottenere sostanze stupefacenti, quali la depurazione e la trasformazione di sostanze in altre della stessa specie.

Estrazione: è una fase della produzione nella quale la sostanza pura (e dunque il principio attivo) viene separata e prelevata dal prodotto grezzo, dalla sostanza vegetale.

Raffinazione: è l'attività con la quale lo stupefacente viene purificato dalle scorie residue con metodi chimici e fisici.

Importazione ed esportazione: secondo la definizione dettata dall'art. 1, lett. m), della Convenzione unica sugli stupefacenti di New York del 1961, indicano, ciascuna nella propria accezione particolare, il trasporto materiale di sostanze stupefacenti da uno Stato all'altro.

Passaggio in transito e spedizione in transito: consistono nel trasferimento della sostanza stupefacente da uno Stato estero ad un altro, effettuato attraverso il passaggio dal territorio nazionale. Le due ipotesi si differenziano in quanto nella prima lo stupefacente passa dal territorio dello Stato tramite corriere consapevole e partecipe dell'azione criminosa, mentre nella seconda lo stupefacente viene spedito.

In evidenza

Il principio di territorialità della legge penale dettato dall'art. 6, comma 2, c.p., comporta che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando vi si siano realizzati anche solo una parte dell'azione o dell'omissione, ovvero anche solo una parte dell'evento che è conseguenza dell'azione od omissione: la potestà punitiva dello Stato sussiste infatti ogni volta che anche solo un frammento del complessivo iter delittuoso si sia verificato in Italia.

Il principio del ne bis in idem sancito dall'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen osta alla irrogazione di una doppia condanna (nel paese di origine ed in quello di importazione) nei confronti del soggetto accusato di aver trasportato da un paese

all'altro dell'Unione Europea la medesima partita di stupefacente (cfr. C.G.Ue, Sez. II, 9 marzo 2006, C/436/04, Van Esbroek).

Vendita e cessione: sono integrate dall'accordo tra due soggetti per la consegna dello stupefacente; nel primo caso è pattuito, quale corrispettivo, il pagamento di una somma di denaro o la corresponsione di un'altra utilità; nel secondo caso la cessione avviene per motivi diversi dalla vendita (ad esempio uno scambio, un trasferimento a titolo di cortesia), ivi comprese le cessioni a titolo gratuito. In virtù del principio consensualistico (art. 1376 c.c.), vendita e cessione si ritengono integrati ogni volta e fin da quando le parti raggiungono un accordo serio e realizzabile su prezzo, qualità e quantità dello stupefacente, indipendentemente dalla materiale traditio del bene (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 19822/2009).

Messa in vendita e offerta in vendita: secondo l'opzione interpretativa fatta propria dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la messa in vendita è condotta che riguarda quantitativi di stupefacente materialmente detenuti, mentre l'offerta in vendita ha per oggetto stupefacente che l'offerente, pur avendo la concreta possibilità di acquisirlo, non detiene (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 16938/2011). La configurabilità di queste due ipotesi si arresta — con conseguente immediata configurabilità delle ipotesi di vendita o di cessione — non solo con la consegna dello stupefacente, ma in un momento ancora antecedente, quello nel quale avviene l'incontro tra le volontà delle parti sugli aspetti essenziali dell'affare; fino a quando l'offerta non sia accettata, potranno invece essere contestate l'offerta o la messa in vendita (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 36818/2012).

Commercio: ricorre quando il soggetto svolge in maniera continuativa, dotandosi di una rudimentale organizzazione professionale, attività di acquisto e di cessione di sostanze stupefacenti.

Consegna: ricorre quando l'agente dà materialmente ad altri sostanza stupefacente per fini diversi dalla cessione o dalla vendita (ad esempio perché la custodisca).

Distribuzione: ricorre quando il soggetto consegna sostanza stupefacente ad una pluralità di persone.

Invio: consiste nel mettere materialmente a disposizione di un terzo sostanza stupefacente con qualunque mezzo diverso dalla consegna diretta, ad esempio attraverso la spedizione tramite un corriere o tramite il servizio postale.

Procura ad altri sostanza stupefacente l'intermediario che, attingendo direttamente alle sue proprie fonti di approvvigionamento, acquista la disponibilità della sostanza stupefacente diretta ad un terzo, senza la diretta partecipazione personale o negoziale di questo terzo soggetto.

Acquisto e ricezione sono condotte speculari rispettivamente alla vendita ed alla cessione: acquista sostanza stupefacente colui che si accorda per entrarne in possesso previa corresponsione di denaro o altra utilità al venditore; riceve sostanza stupefacente colui che si accorda per venirne in possesso per effetto di un rapporto non sinallagmatico.

Trasporto: la condotta consiste nel trasferire la sostanza stupefacente da un luogo ad un altro, ed è di regola assorbita in quella di detenzione (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 28919/2013: laddove il soggetto detenga la droga per uso personale e la porti con sé, il trasporto deve essere assorbito dalla condotta di detenzione a fini personali), salvi casi particolari, come ad esempio quello del c.d. corriere, ossia di colui che, senza mai acquisire un autonomo potere di disponibilità sulla merce, si presti a svolgere per conto di terzi il trasporto di un quantitativo di droga dal luogo di provenienza a quello di destinazione.

Detenzione: comunque illecitamente detiene sostanza stupefacente il soggetto che ne abbia la disponibilità materiale o di fatto, non essendo necessario né che la relazione sia attuale ed immediata (dunque, detiene sostanza stupefacente non solo colui che la porti indosso occultata negli indumenti, non solo colui che la conservi all'interno della propria abitazione, ma anche colui che l'abbia nascosta in un qualsivoglia luogo: ad esempio presso terzi più o meno consapevoli, o presso occasionali anfratti creati sulla pubblica via: cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 2330/2015), né che la detenzione si protragga per un determinato lasso di tempo.

Gli elementi sintomatici della destinazione ad uso esclusivamente personale

In relazione a cinque condotte descritte dalla norma incriminatrice (importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione) il reato sussiste solo se i fatti sono stati commessi fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75, norma che prevede sanzioni amministrative ove si accerti che una di quelle cinque condotte è stata posta in essere per uso personale.

Il comma 1-bis dell'art. 75 (riproponendo la formulazione dell'art. 73, comma 1-bis introdotta dalla l. 49/2006, poi spazzata via dalla sentenza n. 32/2014) individua i cc.dd. elementi sintomatici della destinazione dello stupefacente al consumo esclusivamente personale, elementi che dunque non fanno parte della struttura del fatto tipico, assolvendo ad esigenze di natura meramente probatoria; l'accertata sussistenza di uno o più elementi sintomatici (ad esempio il possesso di stupefacente dal quale può ricavarsi un quantitativo di principio attivo superiore alle soglie indicate dal d.m. 11 aprile 2006) non è di per sé sufficiente a ritenere integrato il reato: si sarà, semplicemente, in presenza di un indizio, che dovrà essere valutato congiuntamente a tutte le ulteriori emergenze istruttorie, rimanendo sempre a carico dell'accusa l'onere di dimostrare che l'imputato ha tenuto la condotta fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75, ossia che lo stupefacente del quale si discute fosse anche solo in parte destinato alla illecita cessione a terzi (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 6571/2013).

In evidenza

L'onere della prova rimane a carico dell'accusa: non è la difesa a dover dimostrare la destinazione ad uso personale della droga detenuta ma è l'accusa che, secondo i principi generali, deve dimostrare che la droga era detenuta per un uso diverso da quello personale; il che, naturalmente, non esclude l'onere di allegazione gravante sull'imputato, laddove egli intenda contrastare ciò che può ricavarsi dalla valutazione degli elementi sintomatici (ad esempio il significativo quantitativo di principio attivo ricavabile dallo stupefacente rinvenuto in suo possesso), sottoponendo al giudice ulteriori elementi in grado di riscontrare l'ipotesi difensiva (ad esempio lo stato di tossicodipendenza e la disponibilità di risorse finanziarie sufficienti per l'acquisto di una “scorta” di sostanza stupefacente), così dando prova dell'insussistenza del reato o quanto meno introducendo il ragionevole dubbio della destinazione ad uso personale della sostanza.

Il principale tra questi parametri (alternativi e di per sé non esaustivi) è costituito dal superamento dei limiti quantitativi massimi di principio attivo ricavabile dalla sostanza, individuati con decreto dal Ministro della Salute.

i limiti massimi quantitativi sono stati individuati partendo dall'unico dato certo dal punto di vista scientifico che la Commissione di studio all'uopo istituita presso il Ministero della Salute è stata in grado di fornire: quello della dose media singola, intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo (mg. 0,05 per l'L.S.D.; mg. 25 per l'eroina, l'hashish e la marijuana; mg. 150 per la cocaina e l'ecstasy); questo dato è stato elevato (essendosi ritenuto irragionevole far coincidere il quantitativo massimo detenibile con il dato relativo alla dose media singola efficace: la prassi insegna, invero, che è ben raro il caso dell'assuntore di sostanze stupefacenti che acquisti il quantitativo sufficiente a consentirgli una singola assunzione, essendo certamente più frequenti i casi nel quali l'acquisto riguarda quantitativi idonei a soddisfare le esigenze di consumo di più giorni) attraverso l'utilizzo di un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie, più alto (20) per le droghe leggere quali i derivati della cannabis, e molto più basso per le droghe più pericolose quali eroina (10), cocaina (5), ecstasy (5) e L.S.D. (3).

Può dunque riconoscersi la astratta compatibilità con la destinazione ad uso personale di un quantitativo di principio attivo idoneo a consentire 3 assunzioni di L.S.D. (pari a mg. 0,150), 5 di ecstasy (pari a mg. 750), 5 di cocaina (pari a mg. 750), 10 di eroina (pari a mg. 250) e 20 di hashish e marijuana (pari a mg. 500); fermo restando che, trattandosi di elementi da valutare unitamente agli altri che caratterizzano il caso concreto, è ben possibile ritenere penalmente rilevante la detenzione di stupefacente in misura inferiore al quantitativo massimo detenibile (si pensi al classico caso dello spacciatore colto nell'atto di vendere una sola dose di stupefacente), così come è possibile ritenere rilevante solo in via amministrativa la detenzione di stupefacente in misura superiore al quantitativo massimo detenibile, quando non vi siano elementi sufficienti a sostenere che la detenzione fosse anche solo in parte finalizzata alla illecita cessione a terzi (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 11900/2013; Cass. pen., Sez. VI, n. 44881/2013 e Cass. pen.Sez. III, n. 46610/2014, relative a soggetti tratti a giudizio per la detenzione rispettivamente di 9,5 grammi di cocaina, di 28 grammi di hashish e di 50 grammi di hashish).

Secondo l'espressa previsione legislativa, elementi circa la destinazione dello stupefacente possono essere ricavati anche dalle modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato ovvero ad altre circostanze dell'azione.

Vengono dunque in rilievo le modalità di presentazione dello stupefacente, che, illustrando nel dettaglio caratteristiche, tempi, quantità e modi della condotta, aiutano a comprendere se essa sia stata o meno posta in essere al solo scopo del consumo personale.

Le modalità di presentazione sono illustrate dal peso lordo complessivo (parametro fondato sul solo dato quantitativo della sostanza rinvenuta nella disponibilità del soggetto, a prescindere dunque dal principio attivo da essa ricavabile: si tratta di un dato che può assumere significativo valore indiziario soprattutto nell'immediatezza dei fatti, poiché è evidente che il suo rilievo scema, fino quasi a scomparire, dopo che si sia accertato il principio attivo ricavabile dallo stupefacente caduto in sequestro), dal confezionamento frazionato (di regola il detenere sostanza stupefacente suddivisa in più dosi lascia intendere che si tratta di droga destinata ad essere ceduta a terzi, tanto più ove si tratti di condotta accertata in luoghi pubblici) e dalle altre circostanze dell'azione, quali ad esempio le modalità di custodia (ad esempio la circostanza che quantitativi significativi di stupefacente siano trasportati in auto ovvero custoditi sulla persona dell'imputato: cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 14293/2014), l'accertata disponibilità di sostanze di diversa natura (dato da valutare con attenzione e rigore, non essendo infrequente nella pratica che il tossicofilo assuma regolarmente e contestualmente diversi tipi di droga), ovvero di sostanze da taglio (quali ad esempio il lattosio, la lidocaina, il mannitolo), ovvero di materiale idoneo alla suddivisione dello stupefacente ed al confezionamento di singole dosi (coltellini, bilancini di precisione, cellophane, carta stagnola, ecc.), ovvero ancora di considerevoli ed ingiustificate somme di denaro, che possano ritenersi il provento dell'attività di spaccio.

L'univoca giurisprudenza di legittimità assegna rilievo (il più delle volte in favore dell'imputato) anche a circostanze di natura soggettiva, quali lo stato di tossicodipendenza dell'imputato (che ovviamente non deve essere solo allegato ma concretamente provato, ad esempio attraverso documentazione di data certa ed anteriore ai fatti proveniente dal locale Sert) e la disponibilità da parte dello stesso di risorse finanziarie sufficienti a consentirgli un acquisto di più considerevoli quantitativi di stupefacente, al fine di precostituirsi una “scorta” e di non avere la necessità di recarsi con frequenza dai cc.dd. spacciatori.

L'elemento soggettivo

Il reato di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990 è punibile a titolo di dolo generico, integrato dalla coscienza e volontà di porre in essere la condotta descritta nella fattispecie incriminatrice; il dolo deve investire tutti gli elementi della fattispecie ma non anche gli elementi sintomatici che si sono appena illustrati, poiché gli stessi non sono elementi costitutivi del reato e rimangono, pertanto, fuori anche dalla struttura dell'elemento soggettivo.

È irrilevante lo scopo perseguito dall'agente: ad esempio, nei casi di cessione o di vendita il reato sussiste indipendentemente dal fatto che l'azione sia stata posta in essere a scopo di lucro o per amicizia o per una qualsiasi altra finalità, essendo punibile anche colui che ceda gratuitamente per fini simbolici modesti quantitativi di stupefacente destinati all'uso personale del cessionario (cfr. Corte Cost., n. 296/1996).

L'errore circa la natura della sostanza ovvero circa la sua inclusione nella tabella delle sostanze vietate è giuridicamente irrilevante, in quanto si traduce in un errore sulla norma penale: non si può, cioè, parlare di errore sul fatto, ma bensì di errore sulla interpretazione tecnica della realtà percepita e sulle norme che la disciplinano; esso è pertanto ininfluente ai fini dell'applicazione della norma incriminatrice.

Il concorso di persone nel reato

In applicazione dei generali principi ricavabili dagli artt. 110 ss. c.p., il concorso nel delitto di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990 può essere ravvisato quando il soggetto ha materialmente partecipato alla esecuzione materiale di taluna delle diverse condotte tipiche contemplate dalla norma incriminatrice, ovvero quando ha partecipato all'attività riguardante la preparazione del delitto e la messa a disposizione dei mezzi occorrenti alla relativa commissione, ovvero infine quando ha fornito un qualsiasi apporto causale concreto all'attività criminosa posta in essere dall'autore materiale, così da consentirne e agevolarne l'azione.

I primi due casi sono quelli in relazione ai quali è più semplice e meno controversa la configurabilità dell'istituto, dovendosi solo precisare che ovviamente, provatasi la sussistenza del concorso, ogni imputato risponderà dell'unico reato commesso e dunque della condotta (di detenzione, acquisto, trasporto, ecc.) relativa all'intero quantitativo di sostanza stupefacente che venga in rilievo (cfr. Cass., sez. III, n. 3114/2013).

Quanto al terzo caso, deve evidenziarsi che il contributo partecipativo può essere di qualsiasi genere: risponde ad esempio di concorso nel reato colui che accompagni giornalmente lo spacciatore sul luogo ove si svolge l'illecito commercio, colui che si presti ad occultare il denaro provento dello spaccio ovvero colui che consenta allo spacciatore di custodire la droga nella propria abitazione, ferma restando, in quest'ultimo caso, la necessità di provare che l'imputato fosse a conoscenza non solo della presenza dello stupefacente, ma anche della sua destinazione alla illecita cessione a terzi (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 3384/2015).

Il concorso è certamente ravvisabile anche nella semplice presenza, purché non meramente casuale, sul luogo dell'esecuzione del reato, quando essa sia servita a fornire all'autore del fatto stimolo all'azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 30479/2014, relativa al caso del c.d. “palo” o vedetta): occorre tuttavia che sia accertata una condotta ulteriore a quella che si esaurisca nella semplice adesione morale all'altrui illecito, giacché non può esserci concorso di persone nel reato se non è ravvisabile un concreto contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della altrui condotta delittuosa (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 4055/2014).

Ove l'imputazione sia elevata nei confronti del familiare convivente di un soggetto trovato in possesso di sostanza stupefacente, essa non può essere fondata sulla sola accertata conoscenza della illecita detenzione: non basta la semplice consapevolezza dell'esistenza della droga, essendo necessaria ed imprescindibile la prova della circostanza che il familiare abbia con coscienza e volontà fornito un concreto contributo, quanto meno agevolando la commissione del reato, ossia rendendone più semplice o più sicura la perpetrazione, ad esempio facilitando la detenzione, l'occultamento o il controllo della sostanza, ovvero garantendo anche implicitamente la propria collaborazione in caso di bisogno e necessità, in modo da consolidare l'altrui consapevolezza di poter fare affidamento su quel potenziale aiuto, e, dunque, l'altrui sicurezza (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 36412/2014); in tutti gli altri casi nei quali la semplice consapevolezza della condotta criminosa altrui non è stata accompagnata da alcun contributo, morale o materiale, volto a favorirla, si avrà mera connivenza non punibile (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 45463/2014 e Cass. pen.,Sez. VI, n. 11396/2015).

Le principali circostanze attenuanti ed aggravanti

A norma del comma 7 dell'art. 73 del Testo unico, attenua il reato l'essersi adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti: si tratta di una circostanza attenuante ad effetto speciale, analoga a quelle che l'ordinamento prevede in relazione a reati di particolare gravità (ad es. art. 8 d.l. 152/1991 in tema di reati di criminalità organizzata; art. 630, comma 4, c.p., in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione) e che trova il suo fondamento nella ravvisata opportunità di favorire, attraverso la dissociazione e la collaborazione dei sodali, la potenziale disgregazione delle organizzazioni criminali, e di disporre di ulteriori e più incisivi strumenti di indagine che la stessa persona sottoposta alle indagini o al processo — spinta dalla prospettiva di un trattamento sanzionatorio notevolmente ridotto — mette a disposizione dell'Autorità. La giurisprudenza è molto rigorosa nell'individuazione dei presupposti per la sua concreta operatività, pretendendo che il reo fornisca un concreto e determinante contributo alla neutralizzazione del reato in contestazione o di nuovi episodi delittuosi, ovvero consenta l'individuazione dei fornitori o la sottrazione di risorse attinenti il traffico di sostanze stupefacenti, così che possa dirsi che il risultato ottenuto sia la diretta conseguenza di una collaborazione completa, leale ed idonea (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 19463/2013). Ne consegue l'impossibilità di riconoscere la circostanza in parola tutte le volte in cui il reo, rendendo dichiarazioni su aspetti dell'attività criminosa che siano già conosciuti dall'Autorità, non sia in grado di fornire un rilevante contributo per le indagini (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 43296/2014).

A mente dell'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990, se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope, le pene sono aumentate dalla metà a due terzi; la ratio della circostanza aggravante risiede nell'esigenza di contrastare il più efficacemente possibile, e quindi con la comminatoria di più gravi pene, la diffusione del consumo di sostanze stupefacenti, evidentemente agevolata sia dall'elevazione del livello di offerta (che rende più facile il reperimento della droga), sia dal calo del prezzo di scambio che, secondo dati di comune esperienza, consegue alla maggiore quantità disponibile per la cessione. I parametri che consentano di ritenere ingente il quantitativo di stupefacente sono stati individuati dalle Sezioni unite della suprema Corte (sent. n. 36258/2012, Biondi), attraverso la valorizzazione del dato ricavabile dal d.m. 11 aprile 2006 in tema di quantitativo massimo detenibile: se il legislatore ha positivamente determinato la soglia — quantitativa, appunto — di punibilità (dunque un limite <verso il basso>), consegue che l'interprete ha il compito di individuare una soglia al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità (un limite, quindi, <verso l'alto>); la Corte – attraverso uno studio sulle più recenti sentenze in argomento condotto dall'Ufficio del Massimario – ha così concluso nel senso che avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, non può certo ritenersi <ingente>, un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia (espresso in mg nella tabella).

Dunque, secondo la pronuncia delle Sezioni unite, la circostanza aggravante è configurabile, non in maniera automatica (ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata), quando la quantità detenuta, avuto riferimento al principio attivo, sia superiore a 2.000 volte il limite massimo espresso in milligrammi nel d.m. 11 aprile 2006, e dunque sia superiorea 500 grammi di principio attivo per l'eroina (20.000 dosi medie singole da mg. 25 cadauna), ad 1 kg. di principio attivo per hashish e marijuana (40.000 dosi medie singole da mg. 25 cadauna, ad 1,5 kg. di principio attivo per la cocaina (10.000 dosi medie singole da mg. 150 cadauna).

Dopo un iniziale contrasto, la suprema Corte ha univocamente statuito che i mutamenti normativi conseguiti alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, nel testo introdotto dalla l. 49/2006, non hanno in alcun modo inciso sugli approdi ermeneutici – tuttora certamente efficaci – della sentenza Biondi (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 32126/2014 e Cass. pen., Sez. VI, n. 20140/2015).

Aspetti processuali

Ai sensi dell'art. 33-ter c.p.p., i delitti di cui all'art. 73, commi 1 e 4, del Testo unico sono attribuiti al tribunale in composizione monocratica; sono invece devoluti al tribunale in composizione collegiale ove sia contestata una delle circostanze aggravanti di cui all'art. 80 del Testo unico.

L'azione penale va in ogni caso esercitata mediante richiesta di rinvio a giudizio.

È previsto – ex art. 380, comma 2, lettera h) c.p.p. – l'arresto obbligatorio in flagranza.

Il fermo di indiziato di delitto, ex art. 384 c.p.p., è possibile solo per il delitto di cui all'art. 73, comma 1, e non è dunque ammesso (in considerazione della più mite cornice edittale venuta a rivivere per effetto della sentenza n. 32/2014) in relazione a reati concernenti le droghe “leggere”, ad eccezione (ai sensi del combinato disposto degli artt. 379 e 278 c.p.p.) dei casi nei quali è contestata la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 80 del Testo unico.

I termini di fase delle misure cautelari, ex art. 303 c.p.p., sono:

  • per la fase delle indagini preliminari di tre mesi per il delitto di cui all'art. 73, comma 4; di sei mesi per il delitto di cui all'art. 73, comma 1; di un anno per il delitto di cui all'art. 73, comma 1 o 4 aggravato ai sensi dell'art. 80, comma 2, del Testo Unico;
  • per la fase del giudizio di primo grado di sei mesi per il delitto di cui all'art. 73, comma 4 e di un anno per il delitto di cui all'art. 73, comma 1 salvo il possibile aumento di sei mesi — ex art. 303, comma 1, lettera b), n. 3-bis c.p.p. — ove sia contestata la circostanza aggravante di cui all'art. 80, comma 2, del Testo unico;
  • per il caso di giudizio abbreviato di tre mesi per il delitto di cui all'art. 73, comma 4 e di sei mesi per il delitto di cui all'art. 73, comma 1 salvo il possibile aumento di sei mesi — ex art. 303, comma 1, lettera b), n. 3-bis — ove sia contestata la circostanza aggravante di cui all'art. 80, comma 2, del Testo unico.

I termini massimi di durata della custodia cautelare sono di due anni per il delitto di cui all'art. 73, comma 4, d.P.R. 309/1990 e di quattro anni per il delitto di cui all'art. 73, comma 1.

L'art. 266, comma 1, lettera c), c.p.p. consente, in relazione a tutti i reati concernenti le sostanze stupefacenti o psicotrope, di procedere ad intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.

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