Bis in idem (divieto)Fonte: Cod. Proc. Pen. Articolo 649
31 Luglio 2015
Inquadramento
Chi è stato già giudicato non può essere sottoposto ad un secondo giudizio che abbia ad oggetto il medesimo fatto. Il divieto, previsto dall'art. 649 c.p.p., ha portata più ampia di quella stabilita ad litteram dalla norma, in quanto si estende anche alle sentenze non definitive ed è riconducibile al principio generale che vieta la duplicazione dell'azione conto lo stesso imputato. Il divieto, in altri termini, “consuma” la successiva azione e quindi il potere di ius dicere in ordine all'identica regiudicanda. Ne segue che, sull'identità del fatto, la domanda andrà dichiarata “improcedibile” e il giudice dovrà pronunciarsi per il non luogo a procedere (ex artt. 529 o 425 c.p.p.) ovvero con decreto di archiviazione laddove l'azione penale non sia stata ancora esercitata. Le ragioni del divieto
Si tratta di un insegnamento risalente al diritto romano (bis de eadem re non sit actio) posto a garanzia dell'imputato e volto ad impedire le azioni superflue o di abuso del processo. La regola è, quindi, fondamentale per evitare l'incertezza sia delle decisioni giudiziali sia dello stesso sistema giuridico. Il divieto del ne bis in idem ha rango di diritto dell'uomo a garanzia delle libertà fondamentali. Il protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali dispone, all'art. 4, che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato a seguito di sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”. Il principio è ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE, c.d. Carta di Nizza, che, all'art. 50, lo prevede come “diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato”. Il divieto del doppio giudizio è poi previsto nelle convenzioni pattizie di diritto internazionale. La garanzia ha carattere processuale e si estrinseca, come detto, nell'effetto di impedire un secondo pronunciamento giurisdizionale sul medesimo fatto.
Nonostante la lettera dell'art. 649 c.p.p. faccia riferimento alla sentenza definitiva, è ormai ius receptum che la regola del divieto di doppio giudizio si applichi anche in presenza di decisioni non irrevocabili. Invero, a fronte di un diverso orientamento del giudice di legittimità che tendeva a dar risalto all'interpretazione letterale della norma, comincia a farsi strada una diversa e più estensiva interpretazione del giudice nomofilattico. Il contrasto tra le sezioni semplici è stato risolto dalla sentenza a Sezioni unite del 2005 (28 giugno 2005, n. 34655) a favore della operatività del divieto di duplicazione del processo anche in assenza di un precedente giudicato definitivo, e ciò per evitare che per lo stesso fatto reato si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti, l'uno indipendente dall'altro (Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 1995, n. 1919). Invero, secondo le Sezioni unite, la regola del divieto del secondo processo costituisce non solo “un diritto civile e politico dell'individuo” ma tende anche a garantire la “proliferazione dell'unico processo” con una “evidente distorsione dell'attività giurisdizionale”. La norma, al di là della sua espressione letterale, assicura anche l'efficienza del sistema e tende ad impedire la duplicità delle decisioni “al pari delle norme sui conflitti di competenza e dell'art. 669 c.p.p.”. Il divieto di ne bis in idem informa quindi l'intero sistema processuale nel quale l'art. 649 c.p.p. “costituisce un singolo, specifico, punto di emersione del principio che permea l'intero ordinamento, dando vita ad un preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull'identica regiudicanda” (Cass. pen., Sez. un. cit.).
Gli altri presupposti del divieto sono: l'identità soggettiva e l'identità oggettiva. Quanto alla prima (eadem persona) non vi sono particolari difficoltà a definirla. Più complessa è la individuazione della identità oggettiva (idem factum). Tradizionalmente con la nozione di identità del fatto s'intende la coincidenza tra tutte le componenti della fattispecie concreta. Pertanto, sussiste fatto identico quando si è in presenza di una corrispondenza storico naturalistica tra tutti gli elementi costitutivi della fattispecie: condotta, evento, nesso causale. Non rileva invece il fatto-reato in senso giuridico. Nella definizione della identità il fatto prescinde dalla diversa qualificazione giuridica che di esso si può dare. In tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza europea (Corte Edu, Sez. I, 25 giugno 2009, Maresti c. Croazia) in un caso in cui un cittadino era stato condannato da due autorità giudiziarie diverse per aver prima ingiuriato (he firstly insulted) e poi percosso un soggetto (and then pushed him with both hands and … started to hit him with his fists many times). La Corte ha rilevato la violazione dell'art. 4 del protocollo 7 della Cedu per l'identità del fatto (in respect of the same event and the same facts) ed ha ritenuto operante il divieto di ne bis in idem (this had violeted his right non to be tried and punished twice for the same offence). Ne segue che il potere di azione del pubblico ministero sarà “consumato” dall'esercizio della prima azione, senza possibilità di “sperimentare” la sussunzione del medesimo fatto in un'altra fattispecie illecita. Il divieto del doppio processo per il medesimo fatto prescinde dalla sede (ad esempio, amministrativa o penale) nella quale è intervenuto il primo giudicato. Nella elaborazione giurisprudenziale europea la verifica di identità del fatto va compiuta alla strega di tre criteri alternativi noti come i c.d. criteri di Engel (dall'omonima sentenza):
Per questa via, nel caso di manipolazione del mercato, è stata ritenuta la duplicazione dei giudizi tra il procedimento amministrativo per la violazione dell'art. 187-ter d.lgs. 58/1998 e quello penale per la violazione dell'art. 185 d.lgs. cit. (è il noto caso Grande Stevens e altri c. Italia, Corte Edu 4 marzo 2014). In applicazione di questi principi, e secondo una lettura convenzionalmente conforme dell'art. 649 c.p.p., il tribunale di Brindisi (sent. 17 ottobre 2014) ha, ad esempio, dichiarato il non doversi procedere per bis in idemin un processo penale per danneggiamento a carico di un detenuto che, per il medesimo fatto, era già stato condannato in via disciplinare ai sensi della normativa sull'ordinamento penitenziario. In applicazione del c.d. criterio Engel la sanzione (definitiva) irrogata in via disciplinare è stata ritenuta di “carattere penale” in funzione della sua severità ed è stato applicato il divieto del doppio processo. Interessante si profila la questione sotto il profilo tributario, soprattutto in materia di imposta sul valore aggiunto. Secondo la Corte di Giustizia dell'UE (sent. 26 febbraio 2013 Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn) uno Stato membro può imporre, per le violazioni dichiarative in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva), sanzioni sia di fiscali che penali. Tuttavia, laddove la sovrattassa abbia “natura penale” alla stregua dei criteri previsti dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea si pone il problema del divieto del doppio giudizio. Va detto, però, che la Corte di cassazione ha escluso la natura penale della sovrattassa, statuendo che “il reato di omesso versamento dell'Iva (art. 10-ter d.lgs. 74/2000) […] non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l'art. 13, comma 1, d.lgs. 471/1997 […] con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni”(Cass. pen., Sez. un., 28 marzo 2013, n. 37424). Tuttavia, con una recente ordinanza del 21 aprile 2015, il tribunale di Bologna (giudice Cenni), ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. in un caso di omesso versamento Iva riguardante un contribuente che era stato rinviato a giudizio dopo aver versato l'imposta evasa, gli interessi e le soprattasse. Il giudice rimettente evidenzia il contrasto tra ordinamenti, interno e sovranazionale, e ritiene di non poter superare l'impasse in via interpretativa stante che la sanzione tributaria avrebbe natura non penale secondo il legislatore e la giurisprudenza di legittimità (Sezioni unite cit.) mentre sarebbe da considerare tale alla stregua dei “criteri Engel” nel diritto sovranazionale L'applicazione estensiva della regola di cui all'art. 649 c.p.p. è ammissibile nel caso in cui le duplicazioni si verifichino all'interno della stessa sede giudiziaria ed a prescindere dalla diversa fase o grado in cui versino, rimanendo invece la materia regolata dalle previsioni di cui all'art. 28 c.p.p. per l'eventualità in cui la duplicazione riguardi processi pendenti in sedi diverse (c.d. conflitto positivo proprio). Non è infatti data soluzione diversa dall'interpretazione estensiva dell'art. 649 c.p.p., dal momento che l'art. 28 c.p.p. non disciplina le ipotesi di litispendenza, in fasi e gradi diversi, dinanzi a giudici della medesima sede giudiziaria né è applicabile, in via analogica, l'art. 39 c.p.c. che assicura prevalenza al criterio della prevenzione su quello della competenza, invece preferito dal processo penale in ossequio al principio del giudice naturale (art. 25, comma 1, Cost.). Non sono nemmeno possibili, secondo le Sezioni unite (sent. cit.), “prassi ed espedienti” tesi a “frenare il corso del primo processo” in vista della possibile riunione col secondo ovvero sospensioni del processo successivo, stante che i casi di sospensione, così come le ipotesi di sospensione o di interruzione dell'azione penale, costituiscono un numerus clausus secondo le previsioni degli artt. 3 e 50 c.p.p. Ne segue che solo in tutte le situazioni in cui vi sia litipendenza che non implichi un conflitto di competenza, l'azione penale andrà dichiarata impromovibile indipendentemente dalla esistenza di un giudicato penale. La regola del divieto di un secondo processo ha, infatti, carattere di principio generale dell'ordinamento e deve conformare l'interpretazione del giudice secondo il principio di cui all'art. 12 delle preleggi.
Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è prevalente l'orientamento che esclude la possibilità di dedurre la preclusione del ne bis in idem in sede di legittimità, sul presupposto che si tratti di accertamento in fatto. S'aggiunge che la deduzione sarebbe preclusa dalla impossibilità di produrre documenti per allegare elementi fattuali, che sono rimessi alle valutazioni del giudizio di merito (Cass. pen., Sez. V, 10 gennaio 2013, n. 9825). Non mancano, sebbene siano minoritarie, pronunce di segno contrario. Per questa via si ritiene che la violazione del divieto del doppio giudizio possa essere ricondotta al vizio di cui alla lettera c) dell'art. 606 c.p.p. in relazione all'art. 649 c.p.p., atteso che la violazione si risolverebbe in un error in procedendo non preclusivo dell'accertamento di fatto dei suoi presupposti (Cass. pen., Sez. I, 5 maggio 2011, n. 26827). Divieto di ne bis in idem e reati tributari
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