Reclamo giurisdizionale (art. 35-bis ord. pen.)

Fabio Fiorentin
06 Giugno 2016

L'art. 35-bis, l. 354/1975 disciplina un modello di “reclamo” di natura pienamente giurisdizionale in materia di tutela dei diritti delle persone detenute o internate, assistito da un adeguato coefficiente di effettività. Il governo di tale strumento di garanzia, il cui ambito di operatività è disegnato dalle ipotesi previste dalle lett. a) e b), comma 6, dell'art. 69, l. 354/1975, è attribuito alla magistratura di sorveglianza. Sotto il profilo applicativo, il reclamo può esperirsi nei due principali gruppi di materie, indicati dall'evocata disposizione penitenziaria: reclami concernenti le condizioni di esercizio del potere disciplinare e reclami nei confronti dell'inosservanza da parte dell'Amministrazione penitenziaria di disposizioni previste dalla l. 354/1975 o dal regolamento di esecuzione.
Inquadramento

Prima della riforma introdotta dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, recante Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, conv. dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, la tutela dei diritti delle persone detenute e internate era esperibile unicamente mediante l'inadeguato strumento del c.d. reclamo giurisdizionalizzato: un rimedio di matrice giurisprudenziale introdotto dalle Sezioni unite della Cassazione (Cass. pen. Sez. unite, 26 febbraio 2003, n. 25079), in seguito alla perdurante inerzia del Legislatore successiva alla sentenza della Corte costituzionale (Corte cost., 6 febbraio 1999, n. 26) che, censurando la lacuna presente nella legge di ordinamento penitenziario (l. 354/1975) in materia di tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive dei detenuti e degli internati pregiudicate da atti o comportamenti dell'Amministrazione penitenziaria, aveva invitato il Parlamento a legiferare per colmare la rilevata lacuna. Il reclamo giurisdizionalizzato in questione, modellato sulla disciplina degli artt.14-ter, 35 e 69 della l. 354/1975, presentava aspetti di rilevante criticità sotto il profilo procedurale (particolarmente in tema di garanzia del contraddittorio) e, soprattutto, non assicurava l'effettività delle decisioni adottate dalla magistratura di sorveglianza, non essendo le relative decisioni opponibili in sede esecutiva all'Amministrazione penitenziaria, che rimaneva libera di adeguarsi discrezionalmente all'esito della procedura. Per porre rimedio a tale carenza, il Legislatore, sollecitato anche dal vero e proprio ultimatum imposto dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani, (Corte Edu, Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia), ha introdotto, con l'art.3, lett. b),del citato d.l. 146/2013, una disposizione di nuovo conio nella l. 354/1975: l'art. 35-bis, che disciplina il reclamo giurisdizionale che va, pertanto, a presidiare lo spazio applicativo precedentemente occupato dal reclamo giurisdizionalizzato.

La struttura del ricorso giurisdizionale

L'art. 35-bis, l. 354/1975 disciplina un modello di “reclamo” di natura pienamente giurisdizionale in materia di tutela dei diritti delle persone detenute o internate, assistito da un adeguato coefficiente di effettività. Il governo di tale strumento di garanzia, il cui ambito di operatività è disegnato dalle ipotesi previste dalle lett. a) e b), comma 6, dell'art. 69, l. 354/1975, è attribuito alla magistratura di sorveglianza. Sotto il profilo applicativo, il reclamo può esperirsi nei due principali gruppi di materie, indicati dall'evocata disposizione penitenziaria:

  • reclami concernenti le condizioni di esercizio del potere disciplinare dell'amministrazione penitenziaria nei confronti dei detenuti e degli internati, la costituzione e la competenza dell'organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa dell'interessato. Nei casi più gravi (art. 39, comma 1, nn. 4 e 5, ord. penit), il giudice può esaminare anche il merito dei provvedimenti amministrativi adottati;
  • reclami nei confronti dell'inosservanza da parte dell'Amministrazione penitenziaria di disposizioni previste dalla l. 354/1975 o dal regolamento di esecuzione (d.P.R. 230/2000), dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio di diritti.

In evidenza

Sotto il profilo sistematico, il reclamo in esame, pur indirizzandosi nei confronti di atti amministrativi, è collocato nell'ambito della giurisdizione ordinaria, in coerenza con i principi affermati dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 212/1997, n. 26/1999 e n. 266/2009, che hanno riaffermato l'esigenza costituzionale del riconoscimento di un diritto d'azione nell'alveo di un procedimento avente carattere giurisdizionale, indipendentemente dalla natura dell'atto produttivo della lesione, individuandosi la sede della tutela così apprestata nella giurisdizione della magistratura di sorveglianza, alla quale spetta, secondo l'ordinamento penitenziario vigente, una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati. Tale presidio giurisdizionale implica un sindacato di legittimità pieno, non dunque limitato alla mera verifica di legittimità formale dell'atto e della sussistenza dei relativi presupposti legislativi dettati all'Amministrazione per l'adozione dei provvedimenti di competenza ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario.

Deve essere precisato che il nuovo strumento giurisdizionale non si sovrappone alla possibilità che il magistrato di sorveglianza impartisca disposizioni volte a far cessare eventuali violazioni ai diritti dei detenuti e degli internati, intervenendo al di fuori delle forme procedimentali di cui all'art. 35-bis, ord. penit, ai sensi dell'art. 69, comma 5, l. 354/75. In queste ipotesi, tuttavia, le disposizioni in questione indirizzate dal magistrato all'amministrazione non avranno efficacia cogente nei termini codificati dalla norma di nuovo conio, rimanendo, peraltro, comunque vincolanti per l'articolazione amministrativa destinataria, come ha stabilito la sentenza costituzionale n. 266/2009.

Le posizioni soggettive tutelabili

Una prima criticità interpretativa del nuovo disposto normativo concerne l'oggetto del procedimento, che è individuato per relationem, mediante il richiamo al disposto dell'art. 69, comma 6, ord. penit (v. par. precedente). Con riferimento ai profili più strettamente connessi al tema della tutela dei diritti, la disposizione precisa che l'oggetto del reclamo concerne l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti. La disposizione sembra, dunque, collegarsi a quanto dispone l'art. 4 della stessa l. 354/1975, a cui mente i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale. L'ordinamento consente, pertanto, a tutti i detenuti l'esercizio personale dei propri diritti, senza che su tale facoltà possa incidere l'eventuale incapacità legale derivante dall'applicazione di determinate sanzioni penali. Ciò premesso, sembrerebbe evincersi – secondo una lettura rigorosa – che i diritti di cui trattasi siano soltanto quelli che la legge di ordinamento penitenziario e il relativo regolamento di esecuzione espressamente riconoscono ai soggetti detenuti o internati. Tuttavia, l'opzione legislativa di non procedere ad una rigida tipizzazione dei diritti suscettibili di tutela giurisdizionale mediante il reclamo in esame potrebbe parimenti sostenere una concezione ampia dei diritti assicurati alla persona detenuta, contemplati in una molteplicità di fonti normative da cui discende una assai variegata tipologia di posizioni soggettive tutelate. La formulazione testuale dell'art.35-bis, ord. penit, in altri termini, nella sua intenzionale genericità (giustificata dal timore che un catalogo normativo “chiuso” avrebbe potuto determinare l'esclusione di eventuali ulteriori posizioni meritevoli di tutela), impone all'interprete di operare la concreta selezione delle ipotesi da sussumere quali violazioni di diritti, con dirette ricadute, per un verso, sul piano dell'ampiezza della tutela accordata a coloro che si assumono pregiudicati dall'attività amministrativa e, per l'altro, sul grado di incisione, da parte del controllo giurisdizionale, della sfera del merito amministrativo, con il correlato rischio di debordare in un vero e proprio “governo giudiziario” di competenze e prerogative proprie dell'esecutivo. Particolarmente delicata, in questa prospettiva, è la problematica connessa alla individuazione del confine tra le posizioni tutelabili per via giurisdizionale e le aspettative di mero fatto, che ne rimangono escluse.

In via di principio, devono, pertanto, essere ricompresi nell'ambito di operatività del reclamo ex art. 35-bis, ord. penit., i diritti fondamentali, cioè a quelle facoltà così strettamente connesse all'individuo in quanto persona umana da apparire, appunto, fondamentali e tali da non poter essere annichilite neppure nel corso dell'esecuzione penale, cui la stessa intitolazione del d.l. 146/2013 inequivocabilmente allude (v. par. precedente). L'espressione diritti fondamentali, peraltro, non trova una precisa definizione nella Costituzione, ed anche in dottrina ricorrono indifferentemente le espressioni diritti fondamentali, diritti inviolabili, valori supremi dell'ordinamento, diritti inalienabili, diritti di particolare rilevanza costituzionale, diritti umani, per indicare facoltà soggettive che dovrebbero costituire il patrimonio inalienabile di ciascun individuo, in quanto tale. La giurisprudenza costituzionale ha definito fondamentali i diritti afferenti a quei principi fondamentali dell'ordinamento che si pongono, a loro volta, nella gerarchia delle fonti in posizione di primazia rispetto al diritto comunitario e alle altre norme della Costituzione (Corte cost., n. 1146/1988 e, con riferimento alla materia penitenziaria, Corte cost., n.349/1993). Non vanno, inoltre, pretermesse le indicazioni che, ai fini della selezione dei diritti fondamentali, provengono dalla giurisprudenza delle Corti di garanzia straniere (segnatamente, per la materia che qui occupa, la Corte Edu). La stessa giurisprudenza della magistratura di sorveglianza si riporta, con sempre maggiore frequenza, alle Carte (e alle Corti) europee in materia di diritti delle persone detenute, utilizzando la Convenzione Edu e gli arresti della giurisprudenza di Strasburgo per qualificare e dare forma al diritto allegato dal soggetto detenuto nel proprio reclamo e non è, parimenti, infrequente il richiamo a fonti di soft law (quali, ad es., le Raccomandazioni del C.P.T.). In definitiva, rientrano certamente nell'ambito di tutela accordato dall'art. 35-bis, ord. penit., i diritti incomprimibili da parte del potere organizzativo dell'amministrazione penitenziaria (in relazione ai quali essa rivesta una posizione di garanzia), coincidenti con i diritti fondamentali enunciati dalla Carta costituzionale e dai trattati internazionali che vincolano l'Italia (Corte Edu, 15 novembre 1996, Diana c. Italia). Sul piano delle fonti primarie sono, inoltre, ricompresi i diritti enunciati nella legge di ordinamento penitenziario(l. 354/1975) e nel relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. 230/2000). Va osservato che, all'interno di tale articolata gamma di posizioni soggettive, gli approdi della elaborazione giurisprudenziale in tema di diritti tutelabili in vinculis, sembrano avere ormai definitivamente superato la tradizionale questione classificatoria delle posizioni giuridiche soggettive rilevanti, per approdare ad una visione per cui, nella materia dei diritti in vinculis, vi è l'esigenza di assicurare ad essi una tutela giurisdizionale avente ad oggetto tutte le violazioni alla sfera soggettiva della persona detenuta – che abbiano le caratteristiche di gravità e attualità prescritte dall'art.35-bis, ord. penit. – provocate da atti o comportamenti dell'Amministrazione penitenziaria, adottati in violazione della l. 354/1975 e del relativo regolamento attuativo.

Con riguardo ai limiti esterni della tutela giurisdizionale, sotto il profilo delle fattispecie suscettibili di tutela, il discrimine è quello generale della giurisdizione sui diritti, che esclude dalla giustiziabilità le aspettative di mero fatto, le violazioni meramente formali della normativa che non abbiano arrecato alcun pregiudizio all'interessato, le lesioni alle posizioni soggettive che non attingano una soglia minima di gravità. La stessa innovata formulazione dell'art.69, comma 6, lett. b), l. 354/1975, stabilisce, invero, che, ai fini della proponibilità del reclamo giurisdizionale, il pregiudizio patito dal detenuto o dall'internato in relazione ad un proprio diritto deve consistere in una violazione concreta ed attuale.

Restano, pertanto, escluse dall'ambito della tutela garantita dal reclamo giurisdizionale ex art.35-bis, ord. penit., in esame:

  • le aspettative di mero fatto;
  • le lesioni che non possiedono i caratteri della attualità e gravità;
  • le fattispecie, già enucleate dalla giurisprudenza costituzionale (v. Corte cost., n. 341/2006 e n. 366/2009), che afferiscono a posizioni soggettive che sorgono e si sviluppano nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali trovano protezione secondo le generali dettate dall'ordinamento (es. la tutela laburistica del detenuto lavoratore alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria);
  • le situazioni soggettive che vengono in considerazione nel momento applicativo degli istituti propri dell'esecuzione penale (es. in materia di applicazione dei benefici penitenziari).

Con riguardo ai limiti interni del sindacato giurisdizionale, l'art. 35-bis, l. 354/1975 consente al giudice di adottare decisioni di natura dichiarativa che accertano la sussistenza/insussistenza dell'avvenuta lesione di un diritto della persona detenuta o internata qualora non siano necessarie ulteriori determinazioni (a es., perché l'Amministrazione abbia medio tempore provveduto a sanare la situazione pregiudizievole); di natura costitutiva, dichiarando nulli i provvedimenti dell'Amministrazione (es. nelle ipotesi di cui all'art. 69, comma 6, lettera a), ord. penit., il magistrato di sorveglianza dispone l'annullamento del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare); ovvero di condanna ad un facere (es. nei casi di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b) l. 354/1975, il giudice accertate la sussistenza e l'attualità del pregiudizio, ordina all'amministrazione di porre rimedio e, nel caso di inadempimento dell'amministrazione, ordina l'ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento, tenuto conto del programma attuativo predisposto dall'amministrazione al fine di dare esecuzione al provvedimento, sempre che detto programma sia compatibile con il soddisfacimento del diritto).

Il modello di reclamo giurisdizionale introdotto dal d.l. 146/2013 esclude, invece, la possibilità che il giudice di sorveglianza pronunci condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno, in coerenza con l'assetto ordinamentale per cui ai fini dell'eventuale risarcimento del danno è competente il giudice civile che resta, in difetto di specifiche normative derogatorie, il giudice cui è naturalmente affidata la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi (Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 4772).

Il procedimento

L'art. 35-bis, ord. penit., stabilisce che il procedimento di reclamo è regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 666 e 678, c.p.p. – dunque il rito camerale disciplinato dal codice processuale – che assicura il pieno carattere giurisdizionale alla procedura e supera quelle importanti criticità che inficiavano il modello procedimentale (il reclamo giurisdizionalizzato) individuato dalle Sezioni unite con l'arresto del 2003 (v. supra, Cass. pen., Sez. unite 25079/2003). Benché il reclamo giurisdizionale sia regolato in via generale dalle sopra evocate disposizioni codicistiche, la disciplina di matrice penitenziaria introduce alcune varianti rispetto al modello-base del procedimento camerale. Con riferimento ai profili procedurali, una disposizione specifica è dettata dal comma 2, art. 35-bis, ord. penit. in esame, con riguardo al termine di dieci giorni per stabilito per l'impugnazione dei provvedimenti disciplinari come – peraltro – già stabilito dal combinato disposto degli artt. 69, comma 6, e 14-ter della medesima legge. Tale specifica previsione si è resa necessaria alla luce della riformulazione del comma 6, art. 69, ord. penit., la cui attuale dizione non contiene più il rinvio all'art. 14-ter della medesima legge (che stabilisce, appunto, l'identico termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo). Non è, invece, espressamente previsto alcun termine per quanto attiene alla formulazione dei reclami di cui all'art. 69, lett. b), l. 354/1975, trattandosi di tutela preventiva, attivabile mediante lo strumento dell'art. 35-bis, ord. penit, finché dura la lesione del diritto azionato; laddove, per il danno già subito, resta esperibile l'azione civile per il risarcimento del danno qualora la violazione della posizione soggettiva si sia già consumata, nell'ordinario termine di prescrizione del diritto, ovvero, nei casi di cui all'art. 35-ter, ord. penit, l'esperimento del relativo rimedio compensativo. L'inammissibilità dell'istanza. Una ulteriore variante rispetto alle regole codicistiche ordinarie sembra identificarsi nella previsione che introduce un “filtro” ai reclami nei casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell'art. 666, comma 2, del codice di procedura penale, laddove nel procedimento camerale “classico” l'inammissibilità è dichiarata nell'ipotesi di richiesta manifestamente infondata ovvero nel caso di mera riproposizione della medesima istanza già esaminata dal giudice. Al dubbio sulla effettiva portata della norma di nuovo conio corrisponde, sul piano applicativo, l'incertezza sulle ipotesi che, in concreto, daranno luogo alla definizione del procedimento con un decreto di inammissibilità. È, infatti, legittima la lettura per cui la nuova disciplina si limiterebbe in realtà a richiamare le medesime ipotesi di inammissibilità previste dall'art. 666, comma 2, c.p.p. così come altrettanto praticabile è la lettura per cui il riferimento della nuova disposizione sarebbe limitato alla manifesta infondatezza dell'istanza e non dunque alla mera riproposizione della medesima. Anche a voler adottare quest'ultima lettura, l'art. 666, comma 2, c.p.p. (ove recita se la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge) pare implicare che la declaratoria di inammissibilità in esame dovrà essere pronunciata con riferimento a tutti i casi in cui risulti l'infondatezza manifesta delle condizioni legge (relative all'ammissibilità o al merito stabilite dalla legge). Infatti, la manifesta infondatezza del reclamo può ricollegarsi sia alla carenza di taluna delle condizioni formali di ammissibilità poste dalla legge per la formulazione della richiesta (es. l'osservanza del termine decadenziale per la proposizione del reclamo in materia disciplinare); quanto alla manifesta insussistenza delle condizioni di merito prescritte dalla legge stessa per l'accoglimento del reclamo sempre che – in quest'ultimo caso – tale carenza risulti ictu oculi e non implichi alcun esame ulteriore da parte del giudice. L'infondatezza del reclamo deve, inoltre, essere manifesta, vale a dire autoevidente e insuscettibile di essere posta in dubbio sulla base di valutazioni discrezionali o di approfondimenti istruttori. In questo senso è l'indirizzo costante della giurisprudenza, secondo cui la manifesta infondatezza … deve riguardare il difetto delle condizioni di legge, intese queste ultime, in senso restrittivo, come requisiti non implicanti una valutazione discrezionale, ma direttamente imposti dalla norma. La ratio del provvedimento "de plano", in assenza di contraddittorio consiste proprio nella rilevabilità ‘ictu oculi' di ragioni che rivelano alla semplice prospettazione, senza uno specifica approfondimento, la mancanza di fondamento della istanza. Ne consegue che ogni qualvolta si pongano problemi di valutazione, imponenti l'uso di criteri interpretativi in relazione al ‘thema probandum', deve essere data all'istante la possibilità dell'instaurazione del contraddittorio con il procedimento camerale previsto - sul modello di quello tipico ex art.127 c.p.p. - dai commi 3/9 dell'art.666 c.p.p. (Cass. pen., Sez. V, 5 maggio 1998 n.2793, Prato, CED).

Fase introduttiva: gli avvisi di udienza. Una ulteriore differenza della disciplina speciale rispetto al modello codicistico si ravvisa nella disciplina degli avvisi dell'udienza che, a differenza di quanto stabilito dall'art. 666, comma 3, c.p.p. (ove è stabilito che il giudice fa dare avviso dell'udienza alle parti e ai difensori), prevede che il magistrato di sorveglianza ne fa dare avviso anche all'amministrazione interessata. Si è, dunque, introdotta la previsione di un avviso all'amministrazione controparte del detenuto reclamante, inteso a rendere possibile la partecipazione diretta della stessa nel giudizio, per esporre le eventuali osservazioni e richieste, mediante comparizione in udienza ovvero con il deposito di memorie presso la cancelleria nel termine di cinque giorni prima dell'udienza (art. 666, comma 3, c.p.p.). La nuova disciplina solleva una questione di natura processuale in relazione alla corretta interpretazione del disposto normativo, nel punto in cui stabilisce che la notificazione dell'avviso di udienza sia effettuata all'amministrazione interessata. Il dubbio si pone tenuto conto che la disciplina non precisa se il detto avviso debba essere notificato – nel caso di più frequente ricorrenza nella pratica, in cui la controparte del reclamante sia l'Amministrazione penitenziaria – al Direttore dell'istituto penitenziario, o al Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria, ovvero al Dap, o infine al Ministero della Giustizia presso l'Avvocatura dello Stato ex art. 144, c.p.c. La prassi operativa sembra orientata per la notifica unica (alla direzione penitenziaria) ovvero una doppia notifica (alla direzione penitenziaria e al Dap), secondo l'oggetto della doglianza (a es. nel caso di reclami in materia disciplinare, la notifica è solo alla direzione penitenziaria, laddove nel caso sia impugnata una determinazione generale, quale una circolare, l'avviso di udienza è notificato anche al Dap). Con riguardo alla notifica all'Avvocatura dello Stato distrettuale, dovrebbe applicarsi il principio generale di cui all'art. 1, comma 1, r.d. 30 ottobre 1933, n.1611, che prevede il patrocinio obbligatorio ed esclusivo dell'Avvocatura in tutte le controversie in cui sia parte un'Amministrazione dello Stato, innanzi a qualsiasi giudice ordinario ed amministrativo, con conseguente applicazione dell'art.11 r.d. 1611/1933 cit. che impone la notifica dell'atto introduttivo del giudizio del reclamo alla competente Avvocatura dello Stato. Con una specifica Circolare (Circ. Dap n. 92337 del 10 marzo 2014), il Dap ha stabilito alcune direttive organizzative per il contenzioso, nel senso di assegnare la gestione del primo grado alle Direzioni penitenziarie (che interloquiranno altresì con l'Avvocatura dello Stato ai fini della produzione delle memorie e dell'eventuale comparizione); di affidare il grado di impugnazione al Provveditore regionale ovvero all'Amministrazione centrale (qualora si tratti di impugnare decisioni su atti dell'Amministrazione centrale o relative a questioni innovative o di particolare rilievo, oppure se il reclamo riguarda detenuti sottoposti al regime speciale di cui all'art. 41-bis, ord. penit., o detenuti collaboratori di giustizia) con facoltà di delega al livello regionale; di riservare sempre la gestione dell'eventuale giudizio di legittimità all'Amministrazione centrale. Ai fini della proposizione del reclamo giurisdizionale, il difensore dell'interessato deve essere munito di procura speciale. Una importante novità rispetto al modello precedentemente adottato (quello di cui all'art. 14-ter, ord. penit.) concerne la partecipazione del detenuto che propone reclamo, il quale ai sensi della nuova disciplina processuale, può comparire personalmente in udienza. Si pone, al proposito, il problema dei detenuti sottoposti al regime speciale di cui all'art. 41-bis, l. 354/1975, in particolare sotto il profilo delle modalità con le quali può essere assicurata la partecipazione dei medesimi al procedimento. Sembra, al proposito, utilizzabile il disposto dell'art. 146-bis, disp. att., c.p.p., in tema di partecipazione a distanza per ogni tipo di procedimento relativo a detenuto in regime di cui all'art. 41-bis, ord.penit. Si ritiene, inoltre, opportuno sottolineare che l'avviso di fissazione dell'udienza dovrà indicare con sufficiente precisione l'oggetto del reclamo, in maniera tale da consentire all'Amministrazione convenuta di preparare adeguatamente la difesa prima dell'udienza, potendosi, in difetto, configurare un'ipotesi di nullità dell'avviso stesso e, conseguentemente, del relativo procedimento.

Fase istruttoria. Il procedimento, pur nella sua più garantistica veste, rimane fortemente limitato sotto il profilo delle facoltà attribuite alle parti, rispetto ad un ordinario giudizio penale o civile. In tale cornice, si affacciano dubbi sulle facoltà attribuite all'amministrazione destinataria dell'avviso di udienza. Stando, infatti, alla lettera della norma, quest'ultima avrebbe la possibilità di formulare osservazioni e richieste del che sorge il quesito se l'amministrazione possa, altresì, chiedere l'assunzione di prove e produrre documenti. Tale ultima attività, peraltro, non suppone l'esistenza di soglie temporali di decadenza, valendo soltanto il limite temporale stabilito dall'art. 666, comma 3, c.p.p., per il deposito di memorie (Cass. pen., 19 maggio 2000, Di Bella, in Cass. Pen., 2001, 922. Si osserva altresì che l'art. 35-bis, ord. penit., fa riferimento a osservazioni e richieste, laddove l'art. 666, comma 3, c.p.p., parla di memorie). Di qui, la conseguenza, secondo un orientamento giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. I, 27 aprile 1995, Esposito, in Cass. Pen., 1996, 2701; Cass. pen., Sez. I, 23 aprile 1993, Moretti, in CED Cass.; Cass. pen., Sez. I, 1 luglio 1991, Ottonello, in Cass. Pen., 1993, 1170), che nel procedimento camerale non si configura uno stringente onere probatorio per la parte, essendo sufficiente la segnalazione al giudice della necessità di acquisire il riscontro alle allegazioni poste a fondamento della richiesta (art. 666, comma 5, c.p.p.). Invero, l'onere probatorio che incombe sulla parte degrada ad onere di allegazione, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi alla autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti (Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 2000, Sciuto, in Cass. Pen., 2002, 2815). Nella fase istruttoria, è ampio il ruolo del giudice nel disporre gli accertamenti valutati necessari (art. 185, disp. att. c.p.p., che esclude particolari formalità processuali), mediante il modulo descritto dall'art. 666, comma 5, c.p.p. che assegna al giudice dispone di poteri tipici della fase del merito (l'art. 666, comma 5, c.p.p., presenta una situazione davvero singolare nell'ordinamento processuale e, chiaramente, derogatoria rispetto alla generale regola dettata dall'art. 190, comma 1, c.p.p. per cui le prove sono ammesse a richiesta di parte). L'elencazione contenuta negli artt. 666, comma 5, c.p.p., e art.185, disp. att. c.p.p. (acquisizione di documenti, di informazioni citazione ed esame di testimoni, espletamento di perizia) non è esauriente, bensì meramente esemplificativa, essendo preceduta tra l'altro (art. 185, att. c.p.p.) da un anche che lascia supporre l'eventualità di ulteriori mezzi di prova) ed è contrassegnata, inoltre, da una rara genericità che rinviene, quale unico limite esterno, il rispetto del contraddittorio. Ed anche se l'art. 185, disp. att. c.p.p., contempla l'inconsueta prescrizione normativa, per cui la ricerca della prova non è ancorata a particolare formalità, pur a riguardo dell'assunzione di atti circondati, in sede cognitiva, da profili di articolata prescrizione (si pensi alla prova testimoniale ed ai limiti imposti ad essa dagli artt. 194-207, c.p.p.), la materia resta - per gli aspetti fondamentali - regolata dai generali essenziali principi di cui all'art. 191, c.p.p. (inutilizzabilità di prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge), norma che, nella sua previsione sostanziale, da un lato richiama divieti anche esterni al codice di rito, come quelli discendenti dagli artt. 13, 14, 15 Cost. (Cass. pen., Sez. un. 13 luglio 1998, Gallieri,in Cass. Pen., 1999, 465) e, d'altro canto, deve calarsi ed armonizzarsi al di fuori del rigido e specifico contesto probatorio proprio della fase dibattimentale disciplinata, al proposito, dall'art. 526, c.p.p..

Fase decisoria. L'art. 35-bis stabilisce (comma 3), il contenuto della decisione giudiziale, in caso di accoglimento del reclamo (per il caso di rigetto, si nota che nulla è previsto con riguardo al regime delle spese sostenute dall'amministrazione “resistente” al reclamo rivelatosi infondato):

  • reclamo in materia disciplinare: qualora il reclamo sia stato proposto ai sensi dell'art. 69, comma 6, lett. a) – ed abbia quindi ad oggetto un provvedimento di natura disciplinare – il magistrato si sorveglianza, in caso di accoglimento del reclamo, ne dispone l'annullamento. Si tratta di una novità assai incisiva, attesa la scelta del legislatore di optare per l'annullamento anziché, per la semplice disapplicazione dell'atto amministrativo. L'impugnativa in materia disciplinare avrà dunque effetto demolitorio dell'atto amministrativo, collocandosi tale attività giudiziale nell'ambito della tutela giurisdizionale del giudice ordinario sugli atti della P.A. che incidono su diritti e per i quali sussiste riserva di legge (art. 113 Cost.). La nuova disciplina pone, peraltro, il magistrato di sorveglianza di fronte all'alternativa secca tra reiezione del reclamo e accoglimento del medesimo, del che, in materia disciplinare, non residua la possibilità di modificare la sanzione irrogata, qualora ritenuta eccessiva. Tale quadro, se pure consente di evitare una eccessiva ingerenza del magistrato nell'esercizio del potere disciplinare da parte dell'autorità penitenziaria, lascia scoperti quei casi in cui il giudice ravvisi corretta l'incolpazione disciplinare ma – appunto – eccessiva la relativa sanzione inflitta. L'unica soluzione, in detti casi, sarà quella di una indicazione del magistrato di sorveglianza, nella motivazione dell'ordinanza di accoglimento del reclamo, nel senso di rilevare che la sanzione era troppo grave rispetto alla violazione, consentendo quindi all'amministrazione di eventualmente provvedere adeguandosi al provvedimento del magistrato di sorveglianza, irrogando quindi una sanzione più lieve. Trattandosi di effetti ex tunc, l'efficacia dell'annullamento del provvedimento disciplinare consentirà di rivalutare le istanze di liberazione anticipata eventualmente respinte alla luce dell'episodio disciplinare che aveva dato origine alla sanzione poi annullata in sede di reclamo; oltre al fatto che della contestazione disciplinare non si potrà più tenere conto (qualora l'annullamento consegua, beninteso, alla accertata insussistenza del fatto contestato), ai fini della eventuale applicazione all'interessato di benefici penitenziari;
  • reclamo in materia di diritti: quando il reclamo è stato proposto nella materia indicata dalla lett. b) del citato comma 6 dell'art. 69, ord. penit., il magistrato ordina all'amministrazione interessata di porre rimedio all'accertata sussistenza del pregiudizio oggetto del reclamo entro il termine stabilito dallo stesso giudice nell'ordinanza. La dizione normativa precisa che l'ordine di rimedio è legittimo soltanto nel caso in cui il giudice abbia accertato l'attualità del pregiudizio (che deve pertanto sussistere sia al momento della presentazione del reclamo – fondando tale elemento l'interesse ad agire dell'interessato – che al momento della decisione, poiché l'istituto del reclamo è finalizzato ad assicurare una tutela preventiva ed immediata che inerisce alla natura stessa della tutela giurisdizionale attribuita al magistrato di sorveglianza nella prospettiva indicata dalla sentenza Torreggiani. La decisione assunta dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-bis, l. 354/1975 ha, comunque, efficacia limitata all'oggetto del procedimentonel quale è stato emanato. Il legislatore non ha, infatti, ritenuto di introdurre una disposizione – analoga a quanto disposto per la sentenza penale dagli artt. 651 e ss. c.p.p. – in ordine all'efficacia di giudicato delle ordinanze con cui il magistrato abbia accolto o respinto il reclamo nell'eventuale giudizio civile per risarcimento del danno promosso dal detenuto o dall'internato in relazione al pregiudizio oggetto del reclamo proposto ai sensi dell'art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit.
Le impugnazioni

Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito della decisione stessa (art. 35-bis, comma 4, l. 354/1975). Nel silenzio della legge, il procedimento di reclamo di fronte al tribunale di sorveglianza distrettuale sarà trattato con le forme del procedimento di sorveglianza camerale partecipato (artt. 666, 678 c.p.p.). I principi generali in tema di impugnazione impongono – secondo la prassi operativa - il divieto, per il giudice che ha emesso l'ordinanza impugnata, di far parte del tribunale di sorveglianza competente a decidere il reclamo. Il comma 4-bis, art. 35-bis, ord. penit., prevede la facoltà per le parti di interporre ricorso per cassazione nei confronti della decisione del tribunale di sorveglianza. La scelta del legislatore allinea la disciplina delle impugnazioni relative al nuovo reclamo giurisdizionale a quella generale stabilita dall'art. 666 c.p.p., con l'importante differenza che il ricorso può essere esperito soltanto per violazione di legge (art. 35-bis comma 8). Sul piano procedurale, è problematico il coordinamento fra le nuove ipotesi di impugnazione di cui ai commi 4 e 4-bis dell'art. 35-bis (reclamo al tribunale di sorveglianza avverso la decisione del magistrato di sorveglianza e ricorso per cassazione avverso la conseguente decisione) e la norma di cui all'art.71-ter, l. 354/1975, che disciplina la ricorribilità in Cassazione delle ordinanze del magistrato e del tribunale di sorveglianza anche da parte dell'amministrazione penitenziaria per il tramite dell'Avvocatura dello stato, oltre che dell'interessato e del pubblico ministero, con un termine pari a (solo) 10 giorni. Non avendo la l. 10/2014, di conversione del d.l. 146/2013, espressamente abrogato l'art. 71-ter l. 354/1975 viene in rilievo il problema della sfera di operatività residua della disposizione della legge penitenziaria. Se pare, invero, da escludere la possibilità di una concorrenza fra il meccanismo di impugnazione previsto dall'art. 71-ter con quello delineato dall'art. 35-bis, la soluzione interpretativa che maggiormente persuade sembra quella di ritenere, alla luce della natura norma speciale e posteriore assunta rispetto alla prima disposizione dall'art. 35-bis, quest'ultimo troverà esclusiva applicazione in tutte le ipotesi in cui il provvedimento sia emesso secondo la procedura e nelle ipotesi ivi previste, che fanno riferimento al solo art. 69, comma 6, come riformulato dalla l. 10/2014. L'art. 71-ter continuerà, per converso, a trovare applicazione in tutte le altre ipotesi, laddove il magistrato di sorveglianza non proceda ai sensi dell'evocato art. 35-bis, ord. penit.