Azione del curatore verso gli organi sociali alla luce del nuovo art. 118 l. fall.
16 Dicembre 2015
Premessa
Nell'ambito delle azioni giudiziarie aventi ad oggetto i rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento, la cui legittimazione attiva è attribuita, ex art. 43 r.d. n. 267/1942 (“l. fall”), al curatore, si inquadrano le azioni ex art. 146 l. fall., ovvero l'azione di responsabilità contro gli organi sociali (i.e.: gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori) e quella contro i soci della società a responsabilità limitata chiamati in solido con gli amministratori, qualora abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi, secondo quanto sancito dall'art. 2476, comma 7, c.c.
In tale contesto va analizzata la portata della novella dell'art. 118 l. fall. (come introdotta dalla l. n. 132/2015 che ha convertito il d.l. n. 83/2015 – nel seguito anche “riforma del 2015”), in forza della quale la chiusura della procedura fallimentare “non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi, ai sensi dell'art 43”. Tale riforma normativa mira a semplificare ed a conferire maggior snellezza alle procedure fallimentari nelle quali siano state intraprese le suelencate azioni da parte del curatore il quale, prima dell'entrata in vigore della stessa, optava per tener aperta la procedura nell'attesa dell'esito finale dei giudizi così intrapresi.
La nuova disciplina, peraltro, si prefigge di ridurre i casi di procedure fallimentari che durino oltre i termini massimi previsti dalla l. n. 89/2001 (c.d.: “legge Pinto”) e le conseguenti azioni risarcitorie e, in ogni caso, cerca di far chiarezza su talune circostanze dibattute in precedenza tra giurisprudenza e dottrina i cui termini vengono nel seguito sinteticamente analizzati. Il quadro normativo
L'art. 43 l. fall. conferisce al curatore del fallimento la legittimazione attiva a proporre o proseguire le azioni spettanti al fallito o alla società fallita, relative a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento. Tra queste azioni rientra l'azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali prevista dall'art. 146 l. fall. che è dal medesimo curatore esercitata, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori.
L'art. 118 l. fall. (come di recente modificato e integrato), stabilisce che nel (solo) caso in cui sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo (comma 1, n. 3) il curatore è autorizzato a porre in essere i passaggi conclusivi per la chiusura della procedura fallimentare, pur mantenendo la legittimazione attiva nelle succitate azioni. Non solo, ma la stessa norma, letta unitamente all'art. 120 l. fall. (al pari novellato), dispone i passaggi successivi alla chiusura del fallimento nei casi in cui restino pendenti le dette azioni inquadrando, entro determinati limiti, l'operato del curatore e del giudice delegato. Sintesi della riforma degli artt. 118 e 120 l. fall.
La riforma del 2015 dell'art. 118 l. fall. non può esser letta senza la modifica del successivo art. 120 l. fall.; le modifiche suddette, in sintesi, dispongono quanto segue:
Tali disposizioni, va precisato, sono previste esclusivamente per le procedure in cui è compiuta la ripartizione finale dell'attivo (ex art. 118, comma 1, n. 3); infatti, non si applicano ai casi in cui non siano state proposte domande di ammissione al passivo (v. punto n. 1, s.n.), ovvero qualora, anche prima della ripartizione finale dell'attivo, i crediti ammessi siano stati estinti e siano stati pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione (v. punto n. 2, s.n.), ovvero, ancora, nel caso in cui si accerti che la prosecuzione della procedura non consenta di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura (v. punto n. 4, s.n.). Su quest'ultimo punto va fatta una breve riflessione inerente il “giudizio” di accertamento svolto dal curatore e delibato dal giudice delegato che, si presume, dovrà includere un'analisi preliminare in ordine alla responsabilità e solvibilità sia degli organi sociali, sia, ove del caso, dei soci che rispondano in solido con gli amministratori (ex art. 2476, comma 7). Da tale analisi dovranno emergere le motivazioni in forza delle quali sia controindicato l'utilizzo delle azioni ex art. 146 l. fall. La riforma del 2015 inserita nel previgente quadro normativo
L'art. 146 l. fall., come anzidetto, conferisce al curatore, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori, il potere di esercitare le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, nonché contro i soci della società a responsabilità limitata chiamati in solido con gli amministratori qualora abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Tale azione, però, sebbene sia di esclusiva pertinenza degli organi fallimentari, scaturendo detta legittimazione attiva in favore di questi ultimi solo all'esito della dichiarazione di fallimento della società, non vede nella procedura fallimentare il suo necessario presupposto, come, ad esempio, per l'azione revocatoria fallimentare ad hoc prevista dall'art. 67 l. fall. (v. anche V. Zanichelli, Il Fallimento n. 2/2003, p. 213), anzi.
Le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, in generale, pertengono ai relativi legittimati attivi nel periodo in cui la società è in bonis. Una volta fallita la società, però, esse vengono racchiuse in un unicum previsto dall'azione ex art. 146 l. fall. che, come detto, spetta in via esclusiva al curatore. Questo “passaggio di testimone” tra i legittimati attivi nei confronti della società in bonis ed il curatore, vedeva, prima dell'entrata in vigore della novella del 2015, un punto “critico” nel momento di chiusura del fallimento, passaggio in forza del quale il curatore, da una interpretazione letterale delle norme previgenti (e non lontane dalle attuali), veniva “spogliato” dei suoi poteri, tra cui, appunto, la legittimazione ad agire. Cosicché, la pendenza di un'azione ex art. 146 l. fall. imponeva di fatto che l'intera procedura fallimentare restasse aperta. Il tema principale era, quindi, se i legittimati attivi di dette azioni nel periodo in cui la società era in bonis, una volta chiuso il fallimento, fossero (ed entro quali termini) autorizzati a proseguire le proprie azioni interrotte dalla procedura fallimentare, ovvero, se potessero introdurle ex novo alla chiusura del fallimento medesimo, ovvero ancora, se potessero riassumere le azioni del curatore interrotte dalla chiusura del fallimento (ipotesi, quest'ultima, “di scuola”).
In tal merito, prima della riforma del 2015, dopo un lungo dibattito giurisprudenziale, fa il punto la Suprema Corte (cfr. Cass. 14/03/2014, n. 6029) che sancisce che, l'intervenuta chiusura del fallimento, “può incidere sulle azioni, come la revocatoria [fallimentare, n.d.a.], che presuppongono in atto la procedura o esprimono posizioni solo della massa dei creditori (vedi pronuncia 9386/2011), ma non sulle azioni, o responsabilità, che sussistono anche al di fuori della Procedura, né la presuppongono”; tra queste ultime vanno decisamente incluse tutte le azioni di responsabilità come richiamate dall'art. 146, comma 2, l. fall. Con ciò, probabilmente, la Suprema Corte, pur non autorizzando in modo esplicito il curatore a restare in carica anche all'esito della chiusura del fallimento – al fine di coltivare e proseguire l'azione ex art. 146 l. fall. – e ciò in quanto, all'epoca, non v'era una fonte normativa che lo consentisse, si avvicinava di molto allo spirito della riforma in analisi, in parte precorrendola. Va ancora detto che, già nel 2001, una sentenza del Tribunale di Milano (cfr. Trib. Milano, 22/01/2001), risalente ma degna di nota e del tutto attuale per l'odierna disamina, apriva un varco in favore della “prosecuzione” dell'azione del curatore alla chiusura del fallimento, purché autorizzata da una deliberazione dell'assemblea dei soci “giacché l'azione che compete al curatore ex art. 146 l. fall. non assorbe anche la successiva ed eventuale azione sociale di responsabilità”.
La nuova disciplina, quindi, supera in ogni caso quanto stabilito dalla surrichiamata giurisprudenza, poiché, adesso, non solo si conferisce continuità post-fallimentare alle azioni di responsabilità ex art. 146 l. fall., ma i relativi “oggetti” sono resi “indisponibili” ai creditori sociali che, in nessun caso, “potranno agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi”. Tali novità, però, fanno sorgere alcuni dubbi interpretativi. Ma prima di affrontarli, per comprendere la portata di tale evoluzione normativa, è necessario fare un passo indietro sui fondamenti delle azioni ex art. 146 l. fall. ed in particolare sull'azione di cui alla lettera a).
L'azione di responsabilità svolta dal fallimento nei confronti degli organi sociali ex art. 146 l.fall., per costante ammissione della giurisprudenza e, dopo la riforma del diritto societario, anche per espressa previsione di legge (ex art. 2394-bis c.c.), incorpora con carattere “unitario ed inscindibile” (v. ex multis: Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488) le azioni sociali di responsabilità ai sensi degli artt. 2393 c.c. (azione sociale per violazione dei doveri di legge), 2393-bis c.c. (azione in capo ai soci, o alle minoranze, per violazione dei doveri di legge) e l'azione di responsabilità a favore dei creditori sociali ai sensi dell'art. 2394 c.c. (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale). Tali ultime azioni concesse dal Codice Civile alla società, ai soci ed ai creditori sociali, in pendenza della procedura fallimentare, erano e sono ai medesimi interdette in favore del curatore. Dopo la chiusura della procedura, prima della riforma in analisi, i legittimati attivi (della società c.d. “in bonis” e tornata tale), rientravano nella titolarità dei propri diritti e, salve le prescrizioni di legge, potevano, attraverso le stesse, tutelare i propri interessi patrimoniali. In particolare, i creditori terzi potevano agire contro gli organi sociali per il ristoro dei danni al patrimonio della società causati dalla condotta contra legem degli organi stessi. In forza della citata riforma, però, non pare più ben definito cosa residui, in termini di causa petendi e petituma favore delle azioni dei suddetti soggetti esterni alla curatela laddove, la novella in parola, usando come discrimen il termine “oggetto” (dei giudizi), pone un limite non ben definibile ex ante a carico della riacquisita legittimazione attiva dei suindicati soggetti. Infatti, la nuova norma, chiuso il fallimento, non sembra vietare le azioni ex artt. 2393, 2393-bis e 2394 c.c. che, peraltro, “sussistono anche al di fuori della procedura”, come insegna la suprema Corte, e non la presuppongono (v. sempre: Cass. n. 6029/2014 supra), anzi; più semplicemente sembra imporre un limite ai (soli) “creditori” che, in nessun caso, “potranno agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi”.
L'art. 120 l. fall., poi, in commi non attinti dalla riforma del 2015 (i.e.: commi 1, 2 e 3) conferma (v. comma 3) che i creditori della società, tornata in bonis, riacquistino il libero esercizio delle azioni verso il debitore (o la società debitrice) per la parte non soddisfatta dei loro crediti, salvo quanto previsto in tema di esdebitazione dagli articoli 142 e ss. l. fall. Va, quindi, rilevato che dal combinato disposto delle due norme a confronto (i.e.: artt. 118 e 120 l. fall.), emerge in generale che, secondo l'art. 118, comma 2, terzo periodo e seguenti, l. fall, dopo la chiusura del fallimento, “il curatore può mantenere la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi, ai sensi dell'art 43 [l. fall.]” e che, secondo l'art. 120, comma 2, l. fall., “le azioni esperite dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite” e ciò, anche tenuto conto di quanto disposto dal comma 1 (s.n.) che, a sua volta, sancisce la decadenza di tutti gli organi preposti al fallimento con la chiusura del medesimo. Tali norme apparirebbero in aperta contraddizione ove non si tenesse conto della successiva statuizione del comma 4 dell'art. 120 l. fall. che, ut supra novellato, prevede che “nell'ipotesi di chiusura [del fallimento] in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto” e, soprattutto, che “in nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi”. Da quest'ultimo passaggio sembrerebbe, quindi, che in deroga alla regola generale di cui all'art. 120, commi 1 e 2, l. fall., il curatore disponga della facoltà (“può”) di mantenere la legittimazione processuale nelle azioni esperite dal medesimo per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento; ma, esercitata detta facoltà, resta da comprendere quali siano le azioni residue (ed i relativi contenuti e limiti) posti in capo ai terzi.
A tal fine, il rinvio fatto dall'art. 118 all'art. 43 l. fall. è generico e, in teoria, riguarderebbe ogni azione in cui il curatore potrebbe operare quale legittimato attivo. Per cercare di circoscrivere dette azioni, quindi, si potrebbe provare ad individuarle a contrario attraverso la lettura dell'art. 120, comma 2, l. fall, che individua le azioni che “non” possono essere proseguite dal curatore in quelle esperite “per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento”. Tale definizione è altresì insufficiente ai nostri fini, in quanto, anche in tali azioni rientrano tutte le azioni spettanti al curatore, ovvero, sia quelle di cui fallimento è presupposto (e.g.: revocatoria fallimentare), sia quelle spettanti al curatore ex art. 146 l. fall. in “surroga” alla società, ai soci e ai creditori. Sulle prime non si intravedono grossi problemi interpretativi, ma sulle seconde è forse il caso di svolgere qualche ulteriore breve considerazione.
Ebbene, sino a prima della riforma del 2015, chiuso il fallimento, società, soci e creditori tornavano ad essere legittimati attivi delle rispettive azioni di responsabilità verso gli organi sociali quantomeno sul residuo capitale non percepito dal fallimento e sugli interessi maturati. Dopo la riforma, sembrerebbe di no, o meglio, l'ultimo periodo dell'art. 120, comma 4, l. fall. cerca di restringere il campo di azione dei creditori, rendendo loro indisponibile quanto è “oggetto” dei giudizi rimasti aperti rispetto a quelli intrapresi dal curatore. Sembra, peraltro, si possa sostenere che detta norma, laddove, stabilisca di conferire al curatore la scelta dell'individuazione dell'oggetto del giudizio, non intenda racchiudere in tale definizione il solo petitum, come a stretto rigore si dovrebbe intendere, ma anche causa petendi e, ciò, peraltro, con effetti anche post-fallimentari includendo nell'oggetto, quindi, anche il residuo del passivo ammesso, ma non percepito dai creditori della società fallita all'esito del riparto finale dell'attivo ex art. 118, comma 1, n. 3, l.fall. Sembrerebbe che detta interpretazione, seppur implicitamente, sia condivisa dal Tribunale di Roma che, nella persona del Presidente della Sezione Fallimentare, all'interno della comunicazione del 6/10/2015 (prot. 1263/2015), ha richiesto ai curatori, tra l'altro, alla luce della riforma in oggetto, anche quanto segue: “(…) il Tribunale ritiene necessario che i curatori di fallimenti la cui chiusura è impedita esclusivamente dalla pendenza di una o più cause depositino telematicamente una dichiarazione che attesti la situazione espressamente considerata dal nuovo art. 118 ed indichi: 1) per ciascun giudizio pendente: la causa petendi, l'entità del petitum, il suo grado e stato, nonché una stima previsionale delle relative spese; 3) le somme incassate dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato. Alla dichiarazione dovrà essere allegata una relazione del legale della procedura in ordine ai tempi di definizione ed alle probabilità di esito favorevole della causa [omissis]”. Dal tenore della riforma, quindi, sembrerebbe che i creditori siano stati definitivamente “espropriati” del diritto di agire nei confronti degli organi sociali anche dopo la chiusura del fallimento della società debitrice, una volta, cioè, che la società sia (eventualmente) tornata in bonis.
Va poi detto che l'azione concessa dal Codice ai creditori sociali (ex art. 2394 c.c.) si fonda sulla violazione da parte degli organi medesimi dell'obbligo di preservare l'integrità del patrimonio (inteso quale garanzia precostituita dell'adempimento delle obbligazioni sociali). L'azione del Codice, che preesiste rispetto a quella prevista dall'art. 146 l. fall. che, a sua volta la ingloba, tutela gli interessi di soggetti del tutto alieni alla società fallita, e dovrebbe poter riconquistare una propria autonomia all'esito della chiusura del fallimento in cui, si badi, sono i beni ed (in parte) i diritti del fallito (ex art. 42 l. fall.) ad essere oggetto di momentanea indisponibilità, non, invece, i diritti dei relativi creditori il cui esercizio, ex art. 51 l. fall., era sino ad oggi solo momentaneamente “sospeso”; la riforma, però, sembra propendere per il contrario, riducendo o, forse, azzerando, i diritti dei creditori della società tornata in bonis. Non solo, ma tale azione sebbene anch'essa sia finalizzata a reintegrare il patrimonio sociale analogamente all'azione ex art. 146 l. fall., è di natura del tutto diversa da quest'ultima e, soprattutto, è concessa a terzi estranei alla società, soggetti che, il più delle volte, a causa della discrepanza informativa, sono rimasti “intrappolati” nello stato di insolvenza dell'ente e che, come unico rimedio, hanno (rectius: avevano) solo il diritto di rivalersi nei confronti degli organi sociali.
Non è, inoltre, del tutto chiaro se, nella definizione di “creditori” inserita nella novella dell'art. 120 l. fall., si possano includere genericamente tutti creditori della massa, ivi compresa la società tornata in bonis (fatta salva, forse, la delibera dell'assemblea?) ed i soci titolari dell'azione ex art. 2393-bis c.c., ovvero, si debba considerare i soli creditori sociali titolari dell'azione di cui all'art. 2394 c.c. Dal dato letterale potrebbe, infatti, interpretarsi che i creditori di cui alla norma fallimentare surrichiamata siano solo quelli titolari dell'azione codicistica ex art. 2394 c.c., ma ciò, per mere ragioni di logica giuridica sembrerebbe poco ammissibile per almeno due motivi: (i) quando il curatore inizia l'azione ex art. 146 l. fall. nella stessa racchiude l'unicum delle tre azioni previste dal codice civile, né potrebbe separarle; (ii) l'azione ex art. 146 l. fall. è mirata alla reintegrazione (attraverso il risarcimento del danno) del patrimonio sociale, quindi, non può essere solo rappresentativa dell'unico interesse ad agire dei “creditori” sociali uti singuli, sebbene, il patrimonio sociale sia principalmente posto a garanzia degli stessi. Alla luce di tale lettura appare poco chiaro, infine, quali azioni e quali oggetti delle azioni residuino in capo a soggetti diversi dal curatore una volta chiuso il fallimento. Una cosa si può però concludere: le azioni eventualmente intraprese in parallelo rispetto a quella ex art. 146 l. fall. che prosegua dopo la chiusura del fallimento, non potranno avere in comune lo stesso oggetto dell'azione del curatore, oggetto che, quindi, dovrà essere attentamente analizzato da chi intenda proporre un'azione “esterna”. Tale conclusione svuota di molto le azioni parallele previste dal Codice Civile in quanto è facilmente ipotizzabile che il contenuto degli oggetti di entrambe le azioni (eso ed endo fallimentari) non potrebbe che essere il medesimo, prevalentemente inquadrato nel risarcimento del danno a copertura dei crediti rimasti insoddisfatti dall'eventuale ripartizione dell'attivo. Conclusioni
Alla luce di una prima schematica lettura della novella in analisi emergono alcune (provvisorie) conclusioni:
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