Azioni di creditori e organi di procedure concorsuali verso amministratoriFonte: Cod. Civ. Articolo 2394
19 Giugno 2017
Inquadramento
La responsabilità degli amministratori verso i creditori della società per azioni è prevista dall'art. 2394 c.c. come conseguenza della violazione degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale che ne abbia determinato una diminuzione tale da renderlo inidoneo per difetto ad assolvere alla sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), così fondando il diritto del creditore di ottenere, a titolo di risarcimento del danno, l'equivalente della prestazione che la società non è più in grado di adempiere. La relativa disciplina è rimasta inalterata dopo la riforma del 2003. Permane dunque l'attualità del dibattito in ordine alla natura – contrattuale o extracontrattuale – di tale responsabilità e – surrogatoria o autonoma – della relativa azione, dovendosi tuttavia rilevare che in giurisprudenza prevale la seconda soluzione a entrambe le questioni; le quali, lungi dall'assumere interesse sul piano meramente speculativo, hanno ricadute significative su quello pratico. Dal differente inquadramento dogmatico dell'istituto discendono infatti differenti conseguenze, sia sul piano processuale (avuto riguardo in particolare al profilo dell'onere della prova e della decorrenza del termine di prescrizione), sia su quello sostanziale (in riferimento ai limiti del risarcimento e all'individuazione dei beneficiari dello stesso). La responsabilità verso i creditori sociali ricorre non solo a fronte dell'inosservanza, da parte degli amministratori, di specifici obblighi e divieti direttamente funzionali alla salvaguardia del patrimonio sociale – quali quelli previsti in caso di diminuzione del capitale (artt. 2446 e 2447 c.c.), al verificarsi di una causa di scioglimento (art. 2486 c.c.), in caso di acquisto di azioni proprie (art. 2357 c.c.) – ma pure a fronte della violazione di obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l'obbligo di amministrare la società e perseguirne l'oggetto sociale con la diligenza del mandatario (art. 2392 c.c.) e quello di amministrare senza conflitto di interessi.
Ogni atto dell'impresa è infatti idoneo a incidere – potenzialmente pregiudicandolo sino a renderlo insufficiente – sul patrimonio della società ed è dunque verificabile ai fini dell'affermazione della responsabilità di chi lo abbia posto in essere, fermo restando il principio della insindacabilità nel merito, ad opera del giudice, delle scelte di gestione. Tale insindacabilità non va intesa, comunque, nel senso di una preclusione nell'apprezzamento di situazioni, circostanze di fatto e ragioni connesse alle scelte di gestione, bensì nel senso che la responsabilità dell'amministratore potrà essere ravvisata soltanto qualora il giudice, valutandone la condotta con riferimento al momento in cui fu posta in essere, dunque ex ante, la giudichi non conforme a diligenza. La gestione della società, infatti, in quanto attività d'impresa, comporta fisiologicamente un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all'organo amministrativo in relazione alla scelta delle operazioni da intraprendere. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non possono essere la convenienza e/o l'utilità dell'atto in sé, né il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori (business judgement rule). Analoghi limiti al sindacato del giudice valgono allorquando la verifica relativa all'operato degli amministratori attenga alla fase della “crisi” dell'impresa, caratterizzata dalla sussistenza di presupposti di ordine economico, finanziario, patrimoniale e/o organizzativo che denotano una condizione significativa, ma ancora reversibile, di difficoltà nell'adempimento delle obbligazioni, tale da rendere concreto il rischio di insolvenza irreversibile. Quello della gestione della crisi di impresa è diventato un terreno di possibile responsabilità degli amministratori dopo che il legislatore del 2005 (l. n. 80 del 2005) ha introdotto nuovi strumenti alternativi al fallimento – piani di risanamento, art. 67, comma 3, lett. d, l. fall.; accordi di ristrutturazione, art. 182-bis, l. fall.; concordato preventivo, art. 160 e ss., l. fall.; ipotesi via via ampliate con interventi normativi successivi (da ultimo, art. 9 d.l. 83/2015) – volti a consentire, con il consenso dei creditori e sotto il controllo dell'autorità giudiziaria, il superamento della situazione di crisi, anche attraverso il ricorso a nuove fonti di finanziamento.
Ferma restando infatti l'obbligatorietà dell'alternativa tra ricapitalizzazione e liquidazione al verificarsi della causa di scioglimento prevista dall'art. 2484, comma 1, n. 4 c.c. (rule of law); la possibilità di accedere a una variegata gamma di “strumenti di salvataggio concordati” in presenza dei presupposti di cui si è detto vale a fondare la responsabilità dell'amministratore in caso di inerzia nell'individuazione e attivazione di uno di tali strumenti, ovvero nel caso di in cui venga adottato uno strumento inadeguato, sempre che tale inadeguatezza – evidentemente rilevata ex post – venga ritenuta tale con la ragionevolezza del giudizio ex ante (R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, in Società, 2013, 669). Giudizio reso ancor più delicato e difficoltoso ove si consideri che, nella fase del “declino” dell'impresa, l'interesse dei creditori alla conservazione del patrimonio sociale quale garanzia generica non è più necessariamente convergente con quello, proprio dei soci, al perseguimento dell'oggetto sociale. Non è superfluo rammentare che in tali ipotesi – come del resto ogni volta che si verte in ipotesi di responsabilità da omissione (artt. 40 e 41 c.p.) – sarà comunque necessario provare l'esistenza di un pregiudizio causalmente collegato alla scelta che si assume errata e, dunque, la percorribilità di una strada alternativa secondo il criterio della c.d. causalità adeguata (cfr. Cass., 8 luglio 2010, n. 16123). La responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali – mancando tra i primi e i secondi un rapporto obbligatorio di natura negoziale – secondo la giurisprudenza prevalente si configura come responsabilità da fatto illecito riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana delineato dall'art. 2043 c.c., del quale l'art. 2394 c.c. costituisce un'esplicitazione. Un orientamento (minoritario in giurisprudenza) ne sostiene invece la matrice contrattuale ponendo alla base di tale responsabilità la violazione di un obbligo di protezione previsto direttamente dalla legge e individuato, in linea generale in quello delineato dall'art. 1173 c.c., nello specifico – proprio sulla base dell'art. 2394 c.c. – nel divieto di compromettere l'integrità del patrimonio sociale. Come già accennato, dal differente inquadramentoteorico discendono conseguenze significative sul piano pratico con riferimento, in particolare, al profilo del riparto dell'onere della prova, alregime della prescrizione (artt. 2393 comma 4, 2941 n. 7, 2949 e 2394 comma 2 c.c.) e ai limiti risarcitori (art. 1225 c.c.).
La proposizione dell'azione non richiede la preventiva infruttuosa escussione del patrimonio sociale ma l'allegazione e la prova della sua insufficienza al soddisfacimento delle ragioni dei creditori, situazione che ricorre allorquando le passività superano le attività e che – come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. 22 aprile 2009, n. 9619) – si risolve in un'incapacità definitiva, diversa e ben più grave di quella che connota lo stato di insolvenza che ricorre invece – a prescindere dalla consistenza e dall'integrità del patrimonio sociale – quando la società, versando in una situazione di illiquidità, non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Ai fini della legittimazione attiva non è richiesto il possesso di un titolo esecutivo, ma è sufficiente la mera titolarità del credito sia pure condizionato o a termine (cfr.Trib. Milano 2 ottobre 2006, in Giur. it. 2, 2007, 382), del quale – in caso di contestazione – può essere chiesto l'accertamento incidentale nella stessa causa introdotta con l'azione ex art. 2394 c.c. Gli obbligazionisti, nella loro veste di creditori sociali, possono esercitare individualmente nei confronti degli amministratori (sia l'azione ex art. 2395 c.c., sia) l'azione ex art. 2394 c.c., a meno che l'esercizio dell'azione non sia incompatibile con le deliberazioni assunte dall'assemblea ai sensi dell'art. 2415 c.c.: tanto emerge dalla previsione contenuta nell'art. 2419 c.c. Poiché, inoltre, l'assemblea degli obbligazionisti può sempre deliberare su qualunque questione d'interesse comune degli stessi, ben potrà l'assemblea deliberare l'esercizio dell'azione a mezzo del rappresentante comune, titolare della rappresentanza processuale degli obbligazionisti per la tutela degli interessi comuni (art. 2418 c.c.).
Ancora aperto – benché la prevalente giurisprudenza si sia assestata sulla prima soluzione – è il dibattito sulla natura autonoma o surrogatoria dell'azione che, al pari di quello sulla natura aquiliana o contrattuale della stessa, ha importanti ricadute sul piano pratico. Qualificare l'azione come autonoma o come surrogatoria comporta infatti che nel primo caso: a) i creditori possono chiedere la condanna direttamente in loro favore (e non per la società); b) non è dunque necessaria la presenza in giudizio della società; c) le eccezioni che gli amministratori potrebbero opporre alla società non avrebbero alcun rilievo rispetto ai creditori sociali; d) la sospensione della prescrizione (prevista dall'art. 2941, comma 1, n. 7 c.c.) non si applica all'azione dei creditori.
Gli argomenti a favore dell'una e dell'altra tesi si fondano sui medesimi riferimenti normativi suscettibili di opposta lettura (M. Fabiani, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi dell'impresa, in Riv. delle Soc., fasc.2-3/2015):
In ogni caso è innegabile (anche alla luce dell'affermazione conclusiva da ultimo richiamata) che le variegate violazioni che fondano la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali in molti casi coincidono – nel senso che ne sono un sottoinsieme, visto che devono necessariamente ledere l'integrità del patrimonio sociale – con quelle che ne determinano la responsabilità verso la società azionabile ex art. 2393 c.c. e/o 2393-bis c.c. che ha (pacificamente) natura contrattuale. L'interesse alla non dispersione del patrimonio sociale è infatti comune a creditori e soci. Alla luce del disposto dell'art. 2394 comma 3 c.c., non può neppure dubitarsi del fatto che le due azioni possono concorrere fermo restando che, in tal caso, il convenuto che sia riconosciuto responsabile è tenuto a risarcire il danno – nei limiti del pregiudizio cagionato – una sola volta, direttamente alla società, così reintegrandone il patrimonio con conseguente elisione pure del danno subito dai creditori. Proprio perché non (necessariamente) comporta la reintegrazione del patrimonio sociale, la rinuncia all'azione da parte della società non è opponibile ai creditori, che pertanto potranno ugualmente esperire l'azione al fine di ottenere il soddisfacimento del proprio credito a differenza che nell'ipotesi di transazione sull'azione sociale. In questo caso infatti i creditori non potranno agire ex art. 2394 c.c.; ove però il risultato della transazione sia insufficiente a soddisfare le proprie ragioni, potranno impugnarla ex art. 2901 c.c., agendo in revocatoria (art. 2394 comma 3 c.c.).
Una ipotesi particolare attiene alle attività di controllo e certificazione demandata alle società di revisione, che, collocandosi a valle della tenuta della contabilità e della formazione dei bilanci relativi agli esercizi anteriori all'assunzione della carica di amministratore, non dispensa quest'ultimo dalla verifica in ordine alla loro corrispondenza alla reale situazione economico-patrimoniale della società, tanto ai fini della redazione del bilancio successivo, quanto ai fini dell'individuazione dei provvedimenti da adottare per far fronte allo stato di difficolta in cui versava la società (cfr. Cass. 7 maggio 2015, n. 9193). Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il Tribunale e la Corte di appello avevano rigettato la domanda di risarcimento proposta nei confronti di una società di revisione, dall'amministratore di una s.p.a. fallita, a sua volta condannato in sede di azione responsabilità promossa dalla curatela. Nel caso in esame, l'amministratore aveva dedotto l'errata valutazione del valore di alcuni marchi, e la relativa sopravvalutazione aveva determinato il fallimento della società; la responsabilità extracontrattuale della società di revisione viene negata anche dalla Suprema Corte, che ribadisce l'autosufficienza della condotta negligente dell'amministratore al fine della configurazione della fattispecie di responsabilità a suo carico. Nel caso in cui la società sia sottoposta a procedura concorsuale (fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria), l'azione di responsabilità prevista dall'art. 2394 c.c., al pari di quella sociale prevista dagli artt. 2393 e 2393-bis c.c., spetta agli organi della procedura (curatore, commissario liquidatore e commissario straordinario) i quali le esercitano: in caso di fallimento previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, negli altri due casi previa autorizzazione dell'autorità che vigila sulla procedura. Tanto si evince dalla disciplina dettata dagli artt. 2394-bis c.c. e 146 l. fall. – che invero, in materia di responsabilità degli amministratori di s.p.a., non hanno introdotto modifiche rispetto a quella precedente, se non meramente formali di strutturazione delle norme – e 206 l. fall. (rimasto immodificato in sede di riforma) richiamato dall'art. 36 d.lgs. 270/99.
Le norme della legge fallimentare e l'art. 2394-bis c.c. attribuiscono al curatore una legittimazione speciale e, nei limiti del concorso, trasferiscono la pretesa alla ricostituzione della garanzia o il credito risarcitorio, senza che possa parlarsi di successione nel rapporto processuale se già avviato. In particolare, la legittimazione esclusiva di tali organi (che, per l'azione sociale, discende dall'attribuzione agli stessi della legittimazione all'esercizio di tutti i diritti patrimoniali del fallito evincibile dagli artt. 43, comma 1 e 200, comma 2 l. fall.), con riferimento all'azione dei creditori, si fonda sull'esigenza di assicurare il principio della par condicio creditorum, e non presenta alcun profilo di contrasto con la previsione contenuta nell'art. 2418, comma 3 c.c. che, pure in caso di procedure concorsuali, attribuisce la rappresentanza anche processuale per la tutela degli interessi comuni al rappresentante comune degli obbligazionisti (il quale, come già evidenziato, giusta delibera ex art. 2415 c.c. può agire ex art. 2394 c.c.). La previsione va infatti riferita, all'evidenza, alle pretese da far valere nei confronti della società (e dunque della curatela).
Quella dell'azione ex art. 146 l. fall., dal punto di vista statistico, è l'ipotesi maggiormente rilevante in cui viene fatta valere la responsabilità degli amministratori ex art. 2394 c.c. È infatti difficile, anche se non certo da escludere – e la scarsa casistica lo dimostra – che i creditori, soprattutto quelli commerciali, abbiano la possibilità e/o la capacità di rendersi conto del fatto che la società versa nella condizione di insufficienza patrimoniale che costituisce il presupposto della responsabilità nei loro confronti, fondandone l'interesse ad agire; e magari, quando se ne rendono conto, è oramai tempo di avviare il procedimento per la declaratoria di fallimento. Tra le contestazioni mosse più frequentemente agli amministratori, in caso di azione promossa dagli organi delle procedure concorsuali, vi sono l'omessa tenuta delle scritture contabili e la violazione dei limiti ai poteri gestori in caso di scioglimento (art. 2486 c.c.), che hanno ricaduta differente sul profilo della quantificazione del danno. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, l'azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. compendia in sé entrambe le azioni (quella spettante alla società e in via surrogatoria ai soci e quella spettante ai creditori) ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali. Dal carattere unitario e inscindibile dell'azione ex art. 146 l. fall. – secondo buona parte della giurisprudenza – discende la possibilità, per il curatore, di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni sul piano del riparto dell'onere della prova, del regime della prescrizione (art. 2393, comma 4, 2941 n. 7, 2949 e 2394, comma 2 c.c.) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.). Altra parte della giurisprudenza sostiene invece che, in caso di procedure concorsuali, l'unitarietà attiene solo al profilo della titolarità e che le due azioni – conservando differente petitum e causa petendi – continuano a seguire le relative discipline, con conseguente possibilità di far valere l'uno o l'altro dei profili di responsabilità.
Legittimazione
Le norme della Legge Fallimentare e l'art. 2394-bis c.c. attribuiscono al curatore una legittimazione speciale e, nei limiti del concorso, trasferiscono la pretesa alla ricostituzione della garanzia o il credito risarcitorio, senza che possa parlarsi di successione nel rapporto processuale se già avviato. In particolare, la legittimazione esclusiva di tali organi (che, per l'azione sociale, discende dall'attribuzione agli stessi della legittimazione all'esercizio di tutti i diritti patrimoniali del fallito evincibile dagli artt. 43, comma 1, e 200, comma 2, L. Fall.), con riferimento all'azione dei creditori, si fonda sull'esigenza di assicurare il principio della par condicio creditorum,e non presenta alcun profilo di contrasto con la previsione contenuta nell'art. 2418 comma 3 c.c. che, pure in caso di procedure concorsuali, attribuisce la rappresentanza anche processuale per la tutela degli interessi comuni al rappresentante comune degli obbligazionisti (il quale,come già evidenziato, giusta delibera ex art. 2415 c.c. può agire ex art. 2394 c.c.). La previsione va infatti riferita, all'evidenza, alle pretese da far valere nei confronti della società (e dunque della curatela).
Sempre in punto di legittimazione, occorre fare cenno ai problemi interpretativi posti dall'art. 63, comma 6, del c.d. Codice Antimafia che prevede, in caso di dichiarazione di fallimento successiva al sequestro, la chiusura del fallimento da parte del Tribunale con decreto ex art. 119 l. fall. “se nella massa attiva del fallimento sono ricompresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro”. La S.C. con riferimento alla vecchia disciplina ha chiarito che, ove i beni o le quote di una società di capitali siano stati sottoposti a sequestro penale, preventivo o di prevenzione; la dichiarazione di fallimento – non comportando l'estinzione della società, ma solo la liquidazione dei beni – “non reca alcun pregiudizio alla procedura di prevenzione patrimoniale, diretta alla confisca dei beni aziendali (sia quando il fallimento sia stato pronunciato prima del sequestro penale, sia quando sia stato dichiarato successivamente), dovendo essere privilegiato l'interesse pubblico perseguito dalla normativa penalistica rispetto all'interesse meramente privatistico della "par condicio creditorum" perseguito dalla normativa fallimentare” (cfr. Cass., n. 25736/16). In motivazione la Suprema Corte ha inoltre ribadito che, ove il sequestro di prevenzione (e la successiva confisca) ricadano sulle quote di partecipazione dell'indiziato di mafia in una società di capitali, non interferiscono in alcun modo con la dichiarazione di fallimento della società, né rileva che il creditore sociale dimostri la propria buona fede nell'acquisto del titolo sui beni aziendali, in quanto tale stato soggettivo incide esclusivamente sui conflitti interni alla procedura di confisca, mentre i beni aziendali non sono colpiti in modo diretto da questa, al pari della società in sé considerata (Cass. n. 8238/2012). Alla luce della formulazione dell'attuale art. 63 del codice antimafia sopra richiamata, laddove il sequestro di prevenzione ricada sull'intero capitale sociale e sull'intero compendio aziendale, secondo un'opzione interpretativa, il fallimento andrebbe chiuso e la legittimazione attiva a esperire l'azione di responsabilità contro gli amministratori transiterebbe in tali ipotesi in capo agli organi della procedura di prevenzione. Tale tesi non pare tuttavia sostenibile ove si consideri che anche il sequestro totalitario di capitale e azienda – considerata la relativa definizione – non può ritenersi comprensivo del credito risarcitorio di natura extracontrattuale spettante ai terzi nei confronti degli amministratori infedeli, che dunque, in ragione del fallimento, potrà essere fatto valere esclusivamente dalla curatela fallimentare ex art. 146 l. fall. quale credito della massa. Come infatti la S.C. ha avuto modo di osservare con risalente ma tutt'altro che superata pronuncia (cfr. Cass., n. 2391/63), “per una definizione, anche ai fini tributari, dell'azienda, occorre far riferimento a quella generale contenuta nell'art. 2555 c.c., per la quale l'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. E, poiché, per gli artt. 2558, 2559 e 2560 c.c., la cessione dell'azienda importa la successione nei contratti, la cessione dei crediti e dei debiti gravanti sull'azienda stessa, resta delineata la sua natura giuridica, che può essere definita come quella di una 'universitas rerum', comprendente cose corporali (mobili ed immobili), cose immateriali, compreso l'avviamento, rapporti giuridici di lavoro con il personale, debiti e crediti con la clientela, elementi questi unificati tutti dalla volontà del titolare in vista dello scopo perseguito, unificati cioè in senso funzionale della destinazione ad un fine comune”. Altra questione discussa è quella dell'esperibilità dell'azione dei creditori in caso di ammissione della società al concordato preventivo, procedura che consente all'imprenditore in crisi – in accordo con i debitori e sotto il controllo del Tribunale che si avvale di un commissario giudiziale – di evitare il fallimento eliminando in parte e/o ristrutturando i debiti contratti nell'esercizio dell'impresa, attraverso un piano di risanamento che comporta la prosecuzione dell'attività da parte del medesimo imprenditore (artt. 160 e ss. l. fall.).
In passato la questione assumeva scarsa rilevanza pratica atteso che l'ammissione al concordato preventivo postulava un giudizio di meritevolezza in assenza del quale, di fatto, l'impresa giungeva al fallimento. L'eliminazione di tale requisito discesa dalle modifiche alla legge fallimentare introdotte con il d.lgs. 5/06 (in tal senso cfr. Cass. 24 giugno 2014, n. 14552) rende la questione più interessante essendovi piena compatibilità tra l'ammissione della società “in crisi” alla procedura e il pregresso compimento, ad opera degli amministratori, di violazioni che la crisi abbiano determinato. Pur tuttavia i precedenti sul punto continuano a essere numericamente scarsi e risalenti nel tempo.
Mancando un'espressa previsione in tal senso, secondo un orientamento, stante il disposto dell'art. 81 c.p.c., la titolarità permane in capo ai creditori: semmai, il terzo assuntore del concordato preventivo di una società in stato di insolvenza è legittimato, in qualità di successore a titolo particolare del liquidatore, a spiegare intervento nel giudizio di responsabilità da quest'ultimo promosso, ai sensi dell'art. 2394 c.c., nei confronti degli amministratori e dei sindaci delle società, in rappresentanza della massa dei creditori (Cass. civ., SSUU, sentenza n. 4309 del 23 febbraio 2010).
Più di recente è stata ritenuta ancora non improcedibile o inammissibile l'azione di responsabilità promossa dal singolo creditore di una società ammessa alla procedura concorsuale del concordato preventivo con cessione dei beni, non essendo di ciò impeditiva la previsione di cui all'art 184 l. fall., che disciplina l'effetto vincolante esdebitatorio del concordato preventivo nei confronti di tutti i creditori. Una volta ammessa la compatibilità dell'azione di responsabilità ex art. 2394 c.c. con la sottoposizione della società alla procedura di concordato preventivo, deve affermarsi la legittimazione attiva del singolo creditore, non comportando la procedura concordataria la perdita della capacità processuale in capo agli organi sociali in favore del Commissario Giudiziale ovvero del Liquidatore (Tribunale Piacenza, 12 febbraio 2015, n. 113, in ilfallimentarista.it). Decorrenza e scadenza del termine di prescrizione
Il termine di prescrizione è quinquennale (art. 2949, comma 2 c.c.) e inizia a decorrere dal momento in cui il patrimonio sociale è divenuto insufficiente a soddisfare i creditori. Poiché però secondo l'art. 2935 c.c. – che è norma di carattere generale – la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, occorre guardare non già al momento in cui l'insufficienza patrimoniale si verifica, ma a quello in cui si manifesta, diventando oggettivamente conoscibile da parte dei creditori alla stregua di fatti sintomatici di assoluta evidenza come la chiusura della sede, la pubblicazione di bilanci fortemente passivi, l'assenza di cespiti suscettibili di espropriazione forzata.
Tale è l'orientamento della giurisprudenza dominante che, nell'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, esclude la rilevanza di impedimenti soggettivi quali, per esempio, le scarse cognizioni tecniche del creditore e la conseguente sua incapacità di leggere un bilancio e, per converso, afferma la rilevanza di impedimenti che incidano sul piano oggettivo quali quelli derivanti dalla alterazione di poste del bilancio determinanti ai fini della individuazione della consistenza patrimoniale (in tal senso Cass. 5 luglio 2002, n. 9815). Il momento in cui si esteriorizza l'insufficienza del patrimonio non coincide (come già evidenziato) con il determinarsi dello stato d'insolvenza. Rispetto alla dichiarazione di fallimento può essere dunque anteriore, perché (per esempio) emergente da un bilancio depositato, o posteriore perché accertato dagli organi fallimentari nel corso delle operazioni di valutazione dell'eventuale attivo o all'esito delle rettifiche delle voci bilancio risultate false. Il dies a quo di decorrenza della prescrizione, ove l'azione venga esercitata ex art. 146 l. fall., può quindi essere anche precedente o successivo alla data di dichiarazione di fallimento, ferma restando la sussistenza di una presunzione iuris tantum di coincidenza tra i due momenti e l'onere dell'amministratore convenuto di provare l'anteriorità del primo rispetto al secondo.
Il principio è stato ribadito anche recentemente dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 12 giugno 2014, n. 13378: l'azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c. promossa dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. - nel testo vigente prima della riforma avvenuta con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile "ratione temporis" - è soggetta a prescrizione che decorre dal momento dell'oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti - e non anche dall'effettiva conoscenza di tale situazione -, che, a sua volta, dipendendo dall'insufficienza della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d'insolvenza di cui all'art. 5 della l. fall., derivante, "in primis", dall'impossibilità di ottenere ulteriore credito). Sempre con riferimento al profilo della prescrizione nel caso di azione esercitata dagli organi delle procedure concorsuali, da un lato va rammentata l'indistinguibilità della posizione di ogni singolo creditore trattandosi di azione funzionale alla tutela della massa (cfr. Cass. 5 aprile 2013, n. 8426), dall'altro va evidenziato che la perdita della legittimazione attiva in capo ai singoli creditori allorquando intervenga il fallimento non è causa di sospensione della prescrizione. Ne consegue che – una volta riacquistata la legittimazione in seguito alla chiusura del fallimento – i creditori subiranno le conseguenze della prescrizione eventualmente maturata medio tempore a causa dell'inerzia della curatela (cfr. Cass. 2 luglio 2007, n. 14961). Sul punto va precisato che la sopravvenuta chiusura del fallimento non determina l'improseguibilità delle azioni esercitate dal curatore che, come quelle di responsabilità spettanti alla società ed ai creditori sociali, sussistono anche al di fuori della procedura e non la presuppongono (così Cass. 14 marzo 2014, n. 6029).
Ove si opti per la natura contrattuale dell'azione ex art. 146 l. fall. (ovvero per la tesi del cumulo dei vantaggi), ai fini della decorrenza dovrà pure ritenersi operativa la causa di sospensione della prescrizione prevista dall'art. 2941, comma 1, n. 7 c.c.; nella prima ipotesi, ai fini del dies ad quem, ci si dovrà altresì interrogare sulla portata – innovativa o meramente ricognitiva – della previsione contenuta nell'art. 2393, comma 4 c.c. (secondo il quale “l'azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell'amministratore dalla carica”).
Sostenere che tale disposizione individui il momento iniziale di decorrenza della prescrizione, significa ravvisare una deroga alla regola generale posta dall'art. 2395 c.c. secondo la quale la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Resterebbero infatti “salve” le violazioni le cui conseguenze dannose dovessero insorgere o comunque manifestarsi a distanza di oltre cinque anni dalla cessazione dalla carica degli autori. Da qui l'opinione, diffusa in dottrina, che il termine in questione sia un termine di decadenza introdotto nell'ottica della tensione a una maggiore stabilità organizzativa e contabile dell'ente titolare del diritto al risarcimento (Panzani, in Le Società, 02, 1477 s; Picciau, sub art. 2393, in Marchetti - Ghezzi - Notari Commentario alla Riforma delle Società, 2005, 590).
In punto di prescrizione, non va dimenticata inoltre l'ipotesi prevista dall'art. 2947, comma 3, c.c. – configurabile in caso di perfetta coincidenza tra gli elementi costitutivi dell'illecito penale e di quello civile, senza che rilevi l'assenza di prova della pendenza di un procedimento penale – la cui generalizzata applicabilità “senza alcuna discriminazione” a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria conseguente al reato è stata ribadita dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 1641/17 (in questo portale, con nota di Fanciaresi, Legittimazione del curatore all'azione di responsabilità verso gli amministratori e pagamenti preferenziali) resa proprio in materia di responsabilità di amministratori di società. Soprattutto laddove si verta in ipotesi di azione ex art. 146 l. fall., infatti, in moltissimi casi, le condotte poste a base dell'azione di responsabilità esercitata in sede civile, sono idonee a integrare una o più delle ipotesi di reato previste dalla medesima legge (si pensi a titolo esemplificativo alle varie ipotesi di bancarotta previste dagli artt. 216 e ss. l. fall.) e, come infatti la S.C. ha avuto modo di affermare, “qualora l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, all'azione civile di risarcimento si applica, ai sensi dell'art. 2947, terzo comma, cod. civ., l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato, decorrente dalla data del fatto, purché il giudice civile accerti, "incidenter tantum", con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l'esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi” (cfr. Cass., n. 24988/14). Quella del riparto dell'onere della prova è questione direttamente connessa a quella relativa alla natura – aquiliana o contrattuale – dell'azione prevista dall'art. 2394 c.c.
Di tale agevolazione potrà avvalersi il curatore che agisce ex art. 146 l. fall., ove si acceda alla tesi del cumulo dei vantaggi ovvero a quella della natura contrattuale dell'azione. Egli avrà dunque esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, incombendo per converso sull'amministratore convenuto l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso e comunque l'insussistenza della colpa, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi connessi alla carica.
Le cause aventi a oggetto la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali, come già evidenziato nella maggior parte dei casi azionata ex art. 146 l. fall., sono cause di carattere prevalentemente documentale, nell'ambito delle quali in molti casi – soprattutto a fronte delle difese spiegate dai convenuti costituiti – si rendono necessari approfondimenti istruttori a mezzo di ctu contabile.
È ormai pacificamente riconosciuta la natura di documento della relazione del curatore fallimentare (art. 33 l. fall.). In tal senso, fin dal 1995 si è espressa la Corte Costituzionale (sentenza 27 aprile 1995, n. 236) e ormai è consolidato il tenore della giurisprudenza di merito e di legittimità civile e penale (cfr. Cass. 2 settembre 1998, n. 8704 e Cass. Pen. 26 luglio 2013, n. 49132). Occorre tuttavia distinguere – ai fini dell'efficacia probatoria della relazione ex art. 33 l. fall. – i diversi profili del suo contenuto. In particolare:
In ordine al contenuto della relazione ex art. 33 l. fall. (e non solo), non pare infine superfluo evidenziare che eventuali ragioni di riservatezza, pure contemplate dall'art. 90 l. fall. che detta la disciplina relativa alla ostensibilità del fascicolo della procedura, in mancanza di diversi mezzi di prova, non possono essere addotte a giustificazione della mancata produzione di documenti necessari a provare i fatti sottesi alla pretesa azionata, per esempio in ipotesi di richiesta di sequestro conservativo formulata ante causam o contestualmente all'iscrizione del giudizio di merito atteso che, diversamente opinando, il provvedimento che dovesse concedere la misura (a maggior ragione se inaudita altera parte) si risolverebbe in un mero di atto di fede. Restando in tema di mezzi istruttori, può essere altresì utile soffermarsi sui presupposti per l'emissione dell'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., spesso richiesto dagli amministratori convenuti dalle curatele fallimentari.
Posto che l'ordine di esibizione è strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile "aliunde" e l'iniziativa non presenti finalità esplorative (v. per tutte, Cass. 16 novembre 2010, n. 23120); ai fini della sua ammissione occorre non solo specificarne l'oggetto nella richiesta ma – a rigore – pure dimostrare di non avere avuto accesso al fascicolo fallimentare, di norma consultabile sia pure con le modalità (autorizzazione del giudice delegato) e nei limiti fissati dall'art. 90 l. fall. cui si è fatto cenno. In proposito va tuttavia posto in luce un passaggio della motivazione della sentenza n. 9100/15 della Suprema Corte già richiamata. Le Sezioni Unite infatti (pur non affrontando funditus la questione perché estranea al thema decidendum),partendo dalle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione in ordine al principio, di origine prevalentemente giurisprudenziale, della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova – secondo il quale l'onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d'azione di una sola delle parti in causa dev'essere assolto da quella medesima parte, rischiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio dell'altra – da un lato hanno sottolineato la necessità di “forse meglio chiarire se quel che, di volta in volta, giustifica l'inversione dell'onere della prova, come disegnato dall'art. 2697 c.c., sia la disponibilità in capo all'altra parte della materialità della prova stessa (per lo più documentale) o piuttosto la paternità storica dei fatti da provare”, dall'altro hanno colto l'occasione per affermare che, all'evidenza, “sarebbe difficile parlare di disponibilità del materiale probatorio da parte dell'amministratore di una società fallita, per ciò stesso ormai spossessato dell'azienda e dei relativi documenti”. Ai fini della quantificazione del danno, occorre tenere presente che – alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio sopra richiamato – non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è idoneo a fondare la responsabilità dell'amministratore che lo abbia compiuto e che, d'altro canto, non tutte le violazioni di obblighi derivanti dalla carica comportano necessariamente una lesione del patrimonio sociale e, dunque, l'individuazione di un danno risarcibile. Anche in dottrina, inoltre, è accolto il principio per cui non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori possono dar luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato il danno sofferto dal patrimonio sociale, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti. Quantificare il danno nell'azione di responsabilità significa accertare innanzitutto in quale misura il patrimonio della società ha risentito ed è stato intaccato dalla condotta negligente dell'amministratore; e occorre poi stabilire in che modo il pregiudizio si sia riverberato sul patrimonio del singolo creditore. La casistica non è ampia, in quanto difficilmente (come detto prima) l'azione viene intentata dai creditori sociali sin quando la società è in bonis. È sulla misura del danno che si confrontano gli interpreti, se cioè da commisurare proporzionalmente alla riduzione del patrimonio sociale, ovvero se da rapportare all'inadempimento e alla connessa perdita interamente.
Ampia è invece la casistica in materia di azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l. fall. Numerosa e variegata è infatti la gamma delle possibili condotte compiute in violazione degli obblighi connessi alla carica e con effetti lesivi del patrimonio sociale. In tali ipotesi, dopo un lungo iter interpretativo giurisprudenziale (cfr. Cass. 3 giugno 2014, n. 12366), il danno oggi non viene più automaticamente identificato nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, a meno che non si dimostri che il dissesto economico della società e il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori. Non è sufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità degli amministratori, addurre che l'evento dannoso è pari al disavanzo fallimentare, bensì occorre dimostrare non solo la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge ma anche la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società. In altri termini, il danno arrecato dagli amministratori responsabili di violazioni della legge e dello statuto va debitamente provato e quantificato in relazione al concreto pregiudizio arrecato da ciascun atto di mala gestio. Può essere individuato in via presuntiva (art. 1226 c.c.) nella differenza fra attivo e passivo solo in caso di radicale impossibilità di ricostruire le vicende societarie per mancanza o assoluta inattendibilità delle scritture contabili, a condizione che sia allegato e dimostrato uno specifico inadempimento, imputabile all'amministratore, tale da determinare specifici effetti pregiudizievoli - “inadempimento qualificato” - che non può consistere nell'omessa tenuta delle scritture contabili, se è vero che “la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l'attività dell'impresa, non li determina” (in tal senso Cass. sez. un. 9100/15, già citata). Che l'irregolare e anche disordinata tenuta della contabilità integri una violazione dei doveri dell'amministratore – potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società – si evince anche da pronunce assai risalenti della S.C. che infatti reputano tale violazione idonea a fondare solo una pronuncia di condanna generica al risarcimento (cfr., ex multis, Cass. n. 4338/76) che, come pure costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, non investe la sussistenza del danno (cfr. Cass. n. 20444/16). Eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall'art. 2484 n. 4 c.c. e così consentire l'indebita prosecuzione dell'ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge,ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato all'evidenza, non già dalla misura del "falso", ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte dunque devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d'ufficio (Trib. Milano, 21 luglio 2014).
Anche per la quantificazione dei danni derivanti dalla promozione di azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali, ad opera della curatela, va accertato il nesso di causalità tra le condotte illecite e il danno riferibile a siffatte condotte, che a sua volta deve essere determinato nel suo ammontare e provato a cura del curatore. E questo va fatto attraverso la verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievoli per la società, di volta in volta poste in essere dagli amministratori (Cass. 8 febbraio 2000 n. 1375; e la citata Cass. 3 giugno 2014 n. 12366, che ha rimesso alle Sezioni Unite proprio la questione della stima del danno in ipotesi di azione ex art. 146 l. fall., infine risolta appunto dalle SS.UU. con la recente sentenza 6 maggio 2015, n. 9100), tralasciando il principio della automatica identificazione del danno nello sbilancio fallimentare, a favore di quello del nesso di causalità materiale. La verifica va compiuta alla luce del criterio da ultimo indicato anche allorquando l'azione ex art. 146 l. fall. si fondi sulla violazione dei limiti ai poteri gestori posti dall'art. 2486 c.c. a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 c.c.. Anche in tal caso va dunque escluso qualsivoglia automatismo e non si può procedere, in mancanza di specifici accertamenti, alla liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla illecita prosecuzione dell'attività. Non tutta sarà infatti riferibile a tale condotta, potendo la stessa almeno in parte sorgere in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione della cessata operatività dell'impresa. Il principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità in un caso regolato dal vecchio testo dell'art. 2449 c.c. (cfr. Cass. 23 giugno 2008, n. 17033) è tutt'ora valido. Ai fini della responsabilità derivante da illecita prosecuzione dell'attività sociale, occorre dunque verificare se la perdita incrementale è integralmente riconducibile “alle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento.” (Cass., n. 16211/07). In ossequio al principio di causalità (ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9100/15), al fine di imputare all'amministratore colpevole il danno effettivamente derivato dall'illecita prosecuzione dell'attività, occorrerà dunque confrontare i bilanci – vale a dire quello relativo al momento in cui si è realmente verificata la causa di scioglimento e quello della messa in liquidazione (ovvero in mancanza del fallimento) – dopo avere effettuato, non solo le rettifiche volte a elidere le conseguenze della violazione dei criteri di redazione degli stessi, cioè l'occultamento della perdita ma pure, quelle derivanti dalla necessità di porsi nella prospettiva della liquidazione, visto che proprio alla liquidazione, se si fosse agito nel rispetto delle regole, si sarebbe dovuti giungere.
Le Sezioni Unite – nel riaffermare la generalizzata legittimazione della curatela fallimentare all'esercizio di qualunque azione di responsabilità – hanno chiarito che il principio vale anche in relazione all'ipotesi di bancarotta preferenziale, evidenziando da un lato che il curatore è legittimato non solo all'azione ex art. 146 l. fall., ma pure a quella concorrente di risarcimento del danno da reato ex art. 185 c.p., dall'altro che la condotta sussumibile nell'ipotesi delittuosa della bancarotta preferenziale è tutt'altro che neutra per la massa ove si consideri che “il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata appunto dall'inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori”. Invero la S.C., nel rinviare al giudice di merito, non ha fornito indicazioni sui criteri da utilizzare per la quantificazione del danno che tuttavia, a parere di chi scrive, non potrà prescindere – tanto con riferimento alla componente patrimoniale del danno, quanto con riferimento alla sua componente non patrimoniale (ex art. 185 c.p.) oggetto di una valutazione essenzialmente equitativa – dagli elementi che connotano la condotta, che sarà onere della curatela attrice allegare e provare, quali – a titolo meramente esemplificativo – l'entità dei pagamenti preferenziali, il rapporto tra questi e i crediti pretermessi, la sussistenza di vincoli di cointeressenza con i creditori avvantaggiati, la presenza di garanzie personali in relazione ai debiti contratti con costoro. Riferimenti
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