La responsabilità datoriale per le molestie sessuali sul luogo di lavoro
02 Febbraio 2016
Massima
Il datore di lavoro deve considerarsi responsabile per i danni causati ad una propria dipendente da molestie poste in essere da altri dipendenti, in tutti i casi in cui il comportamento di questi ultimi sia riferibile – sia pure marginalmente od indirettamente – alle mansioni in concreto esercitate dagli stessi. Il nesso di occasionalità necessaria tra svolgimento della prestazione lavorativa e danno da fatto illecito commesso da dipendente a carico di terzi (dovendosi includere in tale categoria anche i colleghi di lavoro dello stesso danneggiato), costituente il substrato della responsabilità datoriale in questione, è interrotto nei soli casi in cui la condotta dell'agente sia frutto di un'iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni affidate dal datore di lavoro. In siffatte fattispecie, anche in assenza di permanenti conseguenze pregiudizievoli sul piano psicofisico per il soggetto danneggiato, è sempre possibile procedere ad una valutazione equitativa del danno. Il caso
Una lavoratrice viene fatta oggetto di molestie sessuali da parte di due componenti dell'area manageriale della società presso la quale è impiegata. Tali molestie sono plurime e reiterate nel tempo, a dispetto del fatto che il rapporto di lavoro in questione è a tempo determinato con durata di appena cinque mesi. La dipendente evoca direttamente in giudizio il proprio datore di lavoro, postulando la sua responsabilità diretta ex art. 2087 c.c. per i danni patiti. La società, costituendosi in giudizio, contesta tale profilo in diritto sostenendo che la condotta dei propri dirigenti non potrebbe costituire fonte di sua responsabilità giuridica atteso che, per le sue stesse caratteristiche, tale condotta si porrebbe inevitabilmente al di fuori delle mansioni e dei compiti affidati ai dirigenti. Per la società dunque conseguirebbe l'inapplicabilità dell'art. 2087 c.c.. Il Tribunale di Milano, nella sentenza in commento, dopo aver accertato la sussistenza delle condotte indicate dalla ricorrente come molestie a sfondo sessuale nei termini di cui all'art. 26, D.lgs. n. 198/2006 – anche se nei confronti di uno solo dei due dirigenti accusati – accoglie il ricorso, e condanna la società datrice di lavoro al risarcimento del danno. In punto di liquidazione dello stesso, il giudice milanese procede ad una quantificazione in via equitativa in misura pari ad una mensilità stipendiale per ogni mese di lavoro effettivamente prestato dalla ricorrente. Circa il quantum, il Tribunale rigetta la richiesta di liquidazione del danno richiesta mediante applicazione in via analogica delle tabelle predisposte dallo stesso ufficio giudiziario con riferimento all'invalidità temporanea. La questione
La sentenza in questione presenta diversi spunti di interesse, tra i quali:
Le soluzioni giuridiche
Le soluzioni adottate dal Tribunale milanese nella sentenza in commento costituiscono puntuale applicazione degli orientamenti interpretativi prevalenti, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, sulle tematiche sopra evidenziate. Con riferimento al primo profilo, il giudice del lavoro di Milano individua la nozione di molestia sessuale sul luogo di lavoro facendo riferimento all'art. 26, D.lgs. n. 198/2006. Tale nozione è stata oggetto di definizione normativa, nello specifico ambito giuslavoristico, a seguito della Dir. CE n. 2002/73, che ha fornito la definizione specifica di molestie sessuali in aggiunta a quelle di discriminazione (diretta e indiretta) e di molestie o “mobbing di genere”. In particolare, le molestie sessuali sono definite dalla direttiva menzionata come tutti quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando, anche in tal caso così come nel mobbing di genere, un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. La definizione di molestia sessuale rileva quindi, alla luce di tale definizione, tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo. In termini oggettivi, rileva la verificazione di un dato comportamento indesiderato, ed in quanto tale inevitabilmente “subito” dalla vittima. Dal punto di vista soggettivo tale comportamento viene sanzionato perché idoneo a ledere la dignità della persona, a prescindere dal dolo specifico di raggiungere tale obiettivo. La molestia, infatti, sia di genere che sessuale, così normativamente configurata risulta integrabile – e quindi fonte di risarcimento del danno ingiusto - anche qualora l'autore non abbia avuto l'intenzione di infliggere comportamenti degradanti e/o umilianti al soggetto molestato. Ciò che conta, infatti, è che detto comportamento sia indesiderato e che dia luogo, comunque, ad una violazione della dignità altrui. È interessante osservare come in questo caso sussista responsabilità risarcitoria a prescindere dall'elemento soggettivo in capo all'autore della molestia. Non rileva, infatti, ai fini della concreta configurabilità della fattispecie, il fatto che costui fosse certo che la propria condotta non costituisse né una forma di molestia in genere, né più specificamente una forma di molestia a carattere sessuale. Le linee guida comunitarie hanno sostanzialmente trasposto in modo integrale i principi della normativa comunitaria nella disciplina di settore. La norma richiamata dal Tribunale di Milano nella sentenza in esame ha infatti puntualmente affermato che sono considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ossia «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26 comma 2, D.lgs. n. 198/2006, cd. Codice delle Pari Opportunità). Tale norma, si legge nella medesima pronuncia, si affianca al generale obbligo datoriale di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (art. 2087 c.c.). L'inadempimento di questa obbligazione è pacificamente ricondotta in via interpretativa ad una forma tipizzata di responsabilità contrattuale. Il secondo punto riguarda l'imputabilità al datore di lavoro (nel caso in esame, va ripetuto, una società) della condotta illecita posta in essere in danno di terzi da propri dipendenti. Anche in questo caso la sentenza richiama il prevalente orientamento giurisprudenziale sul punto, secondo cui fini della configurabilità della responsabilità indiretta del datore di lavoro non è necessario che fra le mansioni affidate e l'evento sussista un nesso di causalità, essendo invece sufficiente che ricorra un semplice rapporto di cd.”occasionalità necessaria”. Si tratta di un concetto più volte richiamato dalla Corte di Cassazione anche con riferimento a fattispecie diverse da quella in esame, come ad esempio la responsabilità delle SIM per i danni arrecati a terzi da loro preposti, od ancora la responsabilità dello Stato per il fatto illecito del proprio funzionario (anche, per ipotesi, in danno di altro funzionario o dipendente pubblico). In tale ottica, l'incombenza affidata deve quindi essere tale da determinare una situazione che renda anche solo possibile, o semplicemente più agevole, la produzione dell'evento dannoso. Tanto basta a che il datore di lavoro venga chiamato a rispondere per i danni arrecati a terzi (ivi inclusi i colleghi di lavoro del danneggiante); la responsabilità del datore di lavoro sussiste anche se il soggetto agente abbia operato oltre i limiti dell'incarico e contro la volontà del committente od abbia addirittura agito con dolo, purché nell'ambito delle sue mansioni. La nozione di cd. occasionalità necessaria in esame, secondo alcuni autori, troverebbe a ben vedere il proprio limite operativo nell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza della condotta del dipendente danneggiante rispetto al procedimento lavorativo. Verrebbe quindi in tal senso a mutuarsi il principio di diritto più volte espresso dalla Corte di Cassazione circa la permanenza della responsabilità dell'imprenditore per violazione della disciplina antinfortunistica anche in presenza di un concorso di colpa del lavoratore infortunatosi, salvo – appunto – l'abnormità della condotta di quest'ultimo rispetto al concreto contenuto della propria prestazione lavorativa. Da ciò derivano interessanti conseguenze in tema di individuazione e riparto dell'onere della prova. Sarà quindi obbligo gravante sulla vittima delle molestie l'allegazione e la prova del fatto che queste ultime si siano svolte in ambito lavorativo: da intendersi, tale ultima nozione, in senso tanto spaziale che temporale. Una volta fornita tale prova da parte del soggetto molestato spetterà poi al datore di lavoro provare, al contrario, l'abnormità (nel senso di estraneità fattuale) della condotta del proprio dipendente rispetto al concreto contenuto della prestazione lavorativa che quest'ultimo era chiamato a svolgere. L'ultimo profilo di interesse riguarda il criterio di liquidazione del danno. Dopo aver ritenuto – correttamente – non invocabile la tabella predisposta dallo stesso ufficio giudiziario milanese in materia di liquidazione del danno da inabilità temporanea, stante la palese assenza di danni permanenti di tipo fisio-psichico, il Giudice ha proceduto ad una razionale applicazione dei principi in materia di liquidazione in via equitativa del danno (artt. 1226 e 2056 c.c.). Quest'ultima è infatti possibile in tutti i casi in cui, accertata la fondatezza della domanda in punto di an debeatur risulti impossibile, per le peculiarità oggettive del caso concreto e per la correlata impossibilità di procedere ad una prova diretta circa l'entità patrimoniale dello stesso, accertare con certezza il quantum debeatur. In tali ipotesi il giudicante è tenuto ad effettuare una valutazione – appunto – di tipo equitativo avendo però cura di esplicitare i motivi ed i criteri posti alla base della stessa. Così è accaduto nel caso in esame, nel quale il Giudice ha tenuto conto della limitata durata del rapporto lavorativo tra le parti (cinque mesi) e della frequenza pressoché giornaliera delle molestie; ha così liquidato il danno in misura pari ad una mensilità stipendiale supplementare per ogni mese di lavoro effettivamente svolto. Osservazoni
È di particolare interesse osservare come, nel caso portato all'attenzione del Tribunale di Milano, venga espressamente dato atto in sentenza degli sforzi e dei tentativi della società datrice di lavoro di contrastare il fenomeno delle molestie sessuali sul luogo di lavoro, prevedendo addirittura dei veri e propri “modelli difensivi” nel regolamento aziendale. Il giudicante, pur manifestando vero e proprio apprezzamento per l'attività di prevenzione posta in essere dal datore di lavoro, ha tuttavia ritenuto che ciò non bastasse a far venire meno quel nesso di occasionalità necessaria che, come detto, costituisce l'elemento costitutivo della responsabilità risarcitoria gravante in capo a quest'ultimo (sul concetto di cd. occasionalità necessaria rispetto alla prestazione lavorativa del proprio dipendente come fonte di responsabilità civile del datore di lavoro: Cass. civ., sez. lav., n. 27127/2013; Cass.civ., sez. lav., n. 4656/2011; sul concetto di cd. occasionalità necessaria con riferimento alla responsabilità delle SIM per i danni causati a risparmiatori dai propri preposti: Cass. civ., n. 12448/2012; sul concetto di cd. occasionalità necessaria con riferimento alla responsabilità dello Stato verso i terzi per gli atti compiuti da funzionari e dipendenti: Cass. civ., n. 18184/2007 (fattispecie relativa ad illecito commesso da militare ad altro militare). Appare quindi evidente come tale responsabilità acquisisca connotati sempre più riconducibili ad una vera e propria responsabilità oggettiva – sempre ritenuta estranea dalla Corte di Cassazione alla natura ed alle connotazioni strutturali della responsabilità ex art. 2087 c.c. - sulla falsariga di quanto sembra sempre di più accadere, ad esempio – per la responsabilità da danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c.. Tale peculiarità si coglie con ancora maggiore evidenza se si pensa che, al contrario, la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di responsabilità ex art. 2087 c.c. tende ad escludere la responsabilità del datore di lavoro in tutti i casi in cui l'evento dannoso a carico del dipendente non costituisca conseguenza di «un comportamento colpevole del datore, alla violazione di uno specifico obbligo di sicurezza da parte dello stesso o al mancato apprestamento di misure idonee alla prevenzione di ragioni di danno» (Cass., n. 1312/2014), bensì vero e proprio evento imprevedibile secondo le regole di ordinaria diligenza. La responsabilità del datore di lavoro per le molestie sessuali arrecate ad una sua dipendente da altri lavoratori sussiste in tutti i casi in cui vi sia occasionalità necessaria tra le mansioni svolte dai soggetti agenti e la condotta lesiva della dignità del soggetto molestato. La prova circa l'interruzione del nesso di occasionalità necessaria in questione spetta al datore di lavoro stesso, ma deve considerarsi quanto mai complessa. Oggetto di tale dimostrazione è infatti il rilievo per cui la condotta del soggetto molestatore debba considerarsi, per le concrete modalità di esecuzione, del tutto avulsa dal rapporto lavorativo in essere. Se si considera che, alla luce dell'esperienza giurisprudenziale maturatasi nel tempo – e soprattutto negli ultimi anni – le molestie sessuali costituiscono normalmente un aspetto di più ampie ed articolate discriminatorie e/o mobbizzanti, appare tuttavia evidente come tale prova sia quanto mai ardua.
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