L'omessa tenuta delle scritture contabili e il criterio di accertamento del danno
21 Agosto 2015
Massima
Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa, l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto. Il caso
La vicenda posta all'attenzione della Suprema Corte riguarda l'azione risarcitoria proposta dal curatore fallimentare nei confronti dell'amministratore unico di una spa per omessa tenuta dei libri sociali. Le Sezioni Unite osservano – in ossequio ai principi generali della responsabilità civile - che è onere del creditore fornire la prova del comportamento dell'amministratore non conforme al contratto o alla legge, oltre a dover allegare e provare il danno ed il nesso di causalità.
In motivazione «Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto».
La questione
La questione in esame è la seguente: in caso di azione di responsabilità nei confronti di amministratori di società di capitali, il danno da risarcire può essere individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare? Le soluzioni giuridiche
La materia della responsabilità degli amministratori di società di capitali ha dato luogo a plurimi interventi della giurisprudenza (per come dimostrato dalla sentenza che si annota resa dalle sezioni unite) volti a chiarire il significato di una disciplina, che si limita ad indicare in modo conciso i princìpi cui deve attenersi l'azione degli amministratori. In questa materia, la sfera di applicazione della discrezionalità del giudice è ampia per diverse ragioni. Agli amministratori è riconosciuta la piena libertà nel decidere le scelte di gestione (c.d. business judgement rule): l'ordinamento non impone agli stessi di non commettere errori e, pertanto, il giudice non potrà sindacare le scelte gestionali, ma deve piuttosto valutare se determinati atti siano in contrasto con i doveri di legge. È agevole verificare come una siffatta analisi, poiché richiede di valutare i comportamenti degli amministratori alla luce degli specifici obblighi imposti dalla legge o dall'atto costitutivo, ma anche con riferimento allo standard di diligenza richiesto lasci ampi spazi alla discrezionalità. In tale senso deve evidenziarsi come la conformazione del dovere di diligenza dei componenti dell'organo gestorio, come noto, è stata modificata in seguito alla riforma del diritto delle società di capitali; ed invero, mentre il testo originario del codice civile prevedeva, che gli amministratori devono adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo con la diligenza del mandatario (art. 2392 c.c.), la nuova disciplina fa riferimento alla diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze (art. 2392, comma 1, c.c.). La diligenza costituisce tuttavia un paradigma astratto del comportamento che gli amministratori devono assumere; resta pertanto necessariamente affidata all'opera di integrazione del giudice la definizione del grado della stessa; operazione questa nella quale non ci si può avvalere delle categorie concettuali civilistiche elaborate con riferimento a fattispecie di amministrazione di tipo conservativo in cui la semplice assunzione di rischi può costituire fonte di responsabilità. In dottrina si è sottolineata la necessità di differenziare la diligenza (e la conseguente responsabilità) in relazione alle caratteristiche della società (tipo, dimensioni, settore dell'attività ecc.) ed alle competenze del singolo amministratore. In quest'ottica, assumono rilievo le qualità personali dell'amministratore che hanno indotto a nominarlo, sicché non sembra possibile richiedere indifferentemente lo stesso grado di diligenza ad un manager e ad un consulente legale nominato nel consiglio di amministrazione. Per quanto riguarda poi la responsabilità conseguente alla violazione di specifici obblighi posti a carico degli amministratori dalla legge o dallo statuto, le fattispecie che sono state di frequente sottoposte all'attenzione dei giudici sono molteplici e variegate; tuttavia, non può tacersi che, nell'esperienza italiana, la maggior parte delle azioni di responsabilità è stata proposta dagli organi delle procedure concorsuali ed ha come presupposto la continuazione dell'ordinaria attività d'impresa, nonostante il patrimonio netto della società sia sceso al di sotto del minimo legale. Le difficoltà legate alla individuazione della violazione del dovere di diligenza riverberano conseguenze anche sul piano squisitamente risarcitorio. Invero, proprio la circostanza che, nella maggior parte dei casi, ai gestori sia imputata una responsabilità per una serie di atti rende particolarmente ardua la determinazione del pregiudizio, con conseguente incremento dell'àmbito dei poteri dell'organo giudicante. Le difficoltà di definizione del perimetro della responsabilità costituiscono la ragione alla base dell'orientamento della giurisprudenza, che, nella ipotesi di azioni esercitate dagli organi delle procedure concorsuali, ha più volte determinato l'ammontare dell'obbligo di risarcimento degli amministratori nella differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare , considerando l'inadempimento degli stessi in rapporto di causalità con il dissesto. Conseguenza evidente di una tale soluzione interpretativa è la sostanziale traslazione del rischio d'impresa sugli amministratori in caso di insolvenza. La responsabilità di costoro viene in una siffatta prospettiva ad assumere il ruolo di “surrogato della responsabilità limitata dei soci” e sui gestori viene ribaltato l'integrale peso economico dell'insolvenza, prescindendo dal rapporto tra le cause del deficit fallimentare ed il comportamento degli stessi. A ben vedere, la giurisprudenza in tema di determinazione del danno risarcibile dagli amministratori di società di capitali è pervenuta, sia pur attraverso un itinerario concettuale diverso, ad un orientamento, che ricorda l'esperienza francese in cui da tempo sono state elaborate soluzioni volte a far ricadere sugli amministratori il peso economico dell'insufficienza dell'attivo delle procedure concorsuali. In tale ordinamento, il cardine della disciplina è costituito dalla diversa regolamentazione della responsabilità degli amministratori nelle società in bonis ed, in caso di sottoposizione a procedura concorsuale, sul presupposto che gli strumenti di diritto comune appaiono insufficienti in tale ipotesi; pertanto, si sono succeduti diversi interventi del legislatore, volti a disciplinare la responsabilità degli amministratori nel caso di dissesto della società. Tuttavia, sul rilievo che per quanto concerne l'accertamento di tale nesso di causalità e della determinazione del danno stesso, le azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci non differiscono strutturalmente dagli altri giudizi di responsabilità, la decisione in commento si segnala invece per l'apprezzabile rigore con il quale ha valutato la relativa prova, ravvisando la necessità di procedere alla enucleazione di precisi fatti portatori di ben individuati e ben quantificati danni e rifiutando di applicare sommarie presunzioni di responsabilità, che talora la giurisprudenza - configurando una sorta di damnum in re ipsa - riconnette a taluni comportamenti che pur sono dotati di intrinseca illiceità non solo in ambito extra-civile (p. es. penale o tributario), ma anche in ambito meramente civile seppure in un terreno diverso da quello della responsabilità per danni verso la società o verso i creditori (ad esempio, comportamenti tali da giustificare una revoca dalla carica per giusta causa). Pertanto, per il giudice della nomofilachia la violazione degli obblighi inerenti alla tenuta dei libri contabili comporta la necessità della individuazione delle irregolarità rilevanti con indicazione delle relative conseguenze, nonché la necessità di dimostrare la gravità e la valenza di ogni carenza e/o falsità nella tenuta delle scritture. In questa prospettiva merita di essere rilevato che lo sbilancio patrimoniale di una società insolvente può avere cause molteplici e la sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto anche da ragioni di mercato, dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce, cioè da attività sottratte al vaglio di legittimità del giudice, che, come si è già rilevato, non può entrare nel merito delle decisioni imprenditoriali. D'altro canto, l'identificazione del danno con il deficit fallimentare può essere esagerata per difetto, in quanto i crediti ammessi al passivo del fallimento possono essere inferiori al passivo effettivo a causa di rinunzie all'insinuazione o ad errori formali dei creditori o per eccesso, poiché l'alienazione dell'attivo da parte degli organi della procedura consente di realizzare valori inferiori, rispetto a quello derivante dalla vendita dei medesimi cespiti da parte di un'impresa in attività. Né può tacersi che l'attivo fallimentare si compone anche di voci in nessun modo collegate alla gestione degli amministratori, quali le somme riscosse in seguito all'esercizio delle azioni revocatorie. Sotto il profilo quantitativo, preme inoltre rilevare come il danno arrecato dalla mala gestio possa essere anche superiore al deficit fallimentare; il che è evidente se si tiene in conto, che gli organi delle procedure concorsuali agiscono anche in base all'azione sociale di responsabilità finalizzata ad assicurare alla società un integrale ristoro dei danni arrecati dagli amministratori anche se non sia compromessa la soddisfazione dei creditori sociali. Alla luce di tali considerazioni, non risulta giustificato affermare la responsabilità degli organi gestori per un importo quale il deficit fallimentare che può essere in parte causato da ragioni indipendenti dai comportamenti degli amministratori. Ed invero, il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi non va confuso con il risultato della gestione patrimoniale nel suo complesso. Siffatte considerazioni hanno determinato una revisione del criterio del deficit fallimentare in favore del principio per cui l'ammontare del danno risarcibile deve essere correlato alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e, pertanto, la giurisprudenza ha assunto un atteggiamento di maggior cautela, richiedendo che, per il risarcimento del danno, sia necessario provare il pregiudizio economico delle singole operazioni poste in essere dagli amministratori. Le riflessioni sin qui svolte non escludono che il deficit fallimentare possa essere impiegato come parametro per la determinazione del danno in ipotesi particolari. Pertanto, a tale criterio viene riconosciuto mero valore di regola residuale quando non è possibile determinare altrimenti il pregiudizio, come il caso, frequente in procedure concorsuali relative ad imprese di piccole dimensioni, in cui mancano le scritture contabili della società. Si deve aggiungere poi, che l'applicazione di un siffatto criterio costituisce non una sanzione, ma una tecnica di calcolo del danno prodotto in assenza di altri elementi che consentano di provare il pregiudizio determinato dai singoli comportamenti. Ne consegue che appare ragionevole considerare applicabile tale parametro per l'individuazione dell'ammontare del risarcimento non solo nei confronti degli amministratori in carica al momento dell'apertura della procedura concorsuale, cui può essere imputata la mancanza o la frammentarietà delle scritture contabili, ma anche per coloro che hanno ricoperto in precedenza tale ruolo. Benvero, una soluzione diversa potrebbe incoraggiare manovre volte a rendere più difficile l'esperimento di un'azione di responsabilità attraverso la sottrazione di documenti e scritture contabili e la nomina di un amministratore di comodo. Nella medesima prospettiva, deve reputarsi ammissibile la liquidazione in via equitativa del danno nell'ipotesi di impossibilità, o estrema difficoltà, di fornire adeguata prova, evitando che il buon esito dell'azione sia compromesso da carenze documentali molto spesso correlate a comportamenti degli stessi soggetti responsabili. Osservazioni
La sentenza di legittimità in commento in tema di azione risarcitoria a carico degli amministratori rappresenta il punto di approdo di un percorso che risponde ad un riesame critico delle proprie decisioni. E tale itinerario ha condotto al superamento delle posizioni, che, in linea di principio, tendevano a ribaltare sugli amministratori l'esposizione complessiva dell'impresa insolvente, accogliendo soluzioni che, sul piano della sintassi degli interessi, rappresentano il logico punto di equilibrio tra il rispetto dei princìpi della responsabilità civile e le esigenze di tutela dei creditori. Non sfugge certo il rischio che l'applicazione di così rigorosi principi, specie in situazioni di fatto di una qualche complessità (si pensi - per rimanere al tema, assai ricorrente, delle irregolarità contabili - all'ipotesi di irregolarità che si riversino nella contabilità di esercizi sociali successivi, nel corso dei quali si verifichino numerosi avvicendamenti nella cariche amministrative e sindacali), possa condurre con troppa frequenza a verdetti assolutori, pur quando si sia in presenza di gestioni sociali palesemente contra legem e di contemporaneo dissesto economico della società, nella difficoltà di offrire - in base ai predetti principi - la prova del nesso eziologico tra le due circostanze. La verità è che la corretta e rigorosa applicazione dei criteri di causalità non consente di delineare un criterio generalmente valido per la determinazione del danno prodotto dagli illeciti degli amministratori, che quindi dovrà essere determinato di volta in volta, in relazione alle particolarità del singolo caso. Una conclusione del genere, certo, può lasciare un senso di deludente incertezza, e suscitare, ancora una volta, la riflessione intorno al rischio di un "eccesso garantistico", di vedere cioè troppe volte amministratori e sindaci di società in situazioni di crisi, pur colpevoli di illeciti idonei a generare responsabilità, assolti per difetto di prova del danno. È un rischio che, in effetti, esiste e che è aumentato dal fatto che - a fronte della rilevata necessità di enucleare precisi fatti portatori di ben determinati danni - è assai difficile, talora, scomporre una gestione complessiva, magari protrattasi per lunghi periodi di tempo, in singoli atti, ai quali si possano riconnettere singolarmente i danni; a ciò si aggiunga - è quasi ovvio, ma val la pena rammentarlo - che i comportamenti degli amministratori, frutto di scelte gestionali, non sono, né potrebbero essere, censurabili nel merito e dunque si sottraggono al sindacato giurisdizionale, che unicamente può riguardare la legittimità di tali comportamenti. È innegabile, quindi, che le azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci, se pur non differiscono dalle altre azioni di responsabilità, trattandosi di applicare le comuni regole delle azioni ex contractu o ex delicto, esse soffrono, proprio a cagione della rigorosa applicazione delle predette regole generali, alcune limitazioni di ordine probatorio; per meglio dire, esse soffrirebbero tali limitazioni, se la giurisprudenza di tali regole generali non facesse sovente uso troppo disinvolto ed accomodante. Nondimeno, la corretta applicazione dei principi generali in tema di responsabilità civile non può soffrire deroghe in nome di "vantaggi sotto il profilo pratico", dando luogo a figure di responsabilità presunta che non trovano riscontro nelle norme. Ad ogni buon conto, il nuovo assetto giurisprudenziale rifiuta l'automatica applicazione del criterio determinativo del danno basato sulla differenza tra attivo e passivo fallimentare, ritenendo di dover rigorosamente verificare la sussistenza del nesso eziologico tra comportamenti illeciti degli amministratori e danno per la società.
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