La responsabilità dell’avvocato ed il pregiudizio del suo cliente
03 Novembre 2016
Massima
La responsabilità dell'avvocato - nella specie per omessa proposizione di impugnazione - non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone. Il caso
Un cliente promuoveva un giudizio risarcitorio nei confronti del proprio difensore per responsabilità professionale, dolendosi della circostanza che lo stesso professionista non aveva reiterato la richiesta di costituzione di parte civile, dichiarata inammissibile. Il Tribunale e la Corte di Appello rigettavano la domanda sul rilievo della assenza del nesso causale tra la condotta dell'avvocato ed i danni lamentati, dal momento che l'attore avrebbe potuto agire in sede civile per chiedere il risarcimento dei danni. Avverso la decisione di secondo grado era proposto ricorso in Cassazione. La questione
La questione in esame è la seguente: a quali condizioni l'avvocato può essere chiamato a risarcire i danni al proprio cliente per errato svolgimento della propria attività professionale? La soluzione giuridica
La sentenza in commento affronta il tema della responsabilità civile dell'avvocato a causa del negligente adempimento degli incarichi affidatigli dal proprio cliente, ancorando la responsabilità professionale alla verificazione ed all'accertamento di un pregiudizio concreto subito dal cliente. In particolare, il giudice di legittimità nel rigettare il gravame ha evidenziato la mancanza, nel caso di specie, di ogni pregiudizio in capo al ricorrente conseguente alla declaratoria di inammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento penale, sotto il duplice profilo dell'assoluzione dell'imputato in appello con sentenza passata in giudicato in mancanza di impugnazione da parte del P.M., e della libera riproponibilità della domanda risarcitoria in sede civile. Ciò posto, è noto che l'obbligazione assunta dall'avvocato tradizionalmente è ricondotta nell'alveo delle obbligazione di mezzi, ovvero in quella categoria pacificamente ritenuta meramente descrittiva e non dogmatica ed indicativa, appunto, di un vincolo obbligatorio non avente ad oggetto il raggiungimento di un risultato pratico, ma lo svolgimento di una prestazione diligente (Cass. civ., 10 giugno 2016 n. 11906; Cass. civ., 08 settembre 2015 n. 17758). Infatti, il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera intellettuale al solo fine di raggiungere il risultato sperato dal cliente, ma non a conseguirlo, con la conseguenza che la diligenza, oltre a costituire la misura per valutare l'esattezza dell'adempimento, rappresenterebbe ed esaurirebbe l'oggetto stesso dell'obbligazione. La categoria dell'obbligazione di mezzi, pertanto, viene utilizzata dalla giurisprudenza dominante per determinare il contenuto della prestazione dovuta dai professionisti intellettuali, ed in particolare dagli avvocati; si sostiene infatti che l'oggetto del contatto d'opera intellettuale non sia il risultato al quale il creditore ambisce in concreto, ma la sola attività del professionista, con la conseguenza che, essendo il cosiddetto rischio del lavoro posto a carico del cliente, il compenso per la prestazione svolta dal professionista sarà dovuto a prescindere dal risultato raggiunto. Secondo l'orientamento consolidato in giurisprudenza, pertanto, l'inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale, e in particolare a quel dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art 1176, comma 2, c.c., che deve essere commisurato alla natura dell'attività esercitata (Cass. civ., 14 agosto 1997 n. 7618); ricorre invece la particolare ipotesi di limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c., solo in caso di prestazione implicante problemi tecnici di particolare difficoltà. Appare, però, necessario precisare che tale classificazione è corretta soltanto per quelle obbligazioni derivanti dal mandato professionale, ovvero dal c.d. il cosiddetto contratto di patrocinio, strumento negoziale attraverso il quale il professionista assume l'incarico di rappresentare il cliente in giudizio. Infatti, nella diversi ipotesi in cui l'avvocato si obblighi soltanto a formulare un parere pro veritate, i doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione, gravanti sul professionista, non costituiscono obbligazioni di mezzi (Cass. civ., 14 novembre 2002 n. 16023, nella specie, è stata riconosciuta la responsabilità dell'avvocato che non aveva provveduto ad informare il cliente, formulando parere stragiudiziale, della possibilità che venisse eccepita la prescrizione). In tal senso, si è rilevato che un risultato — inteso come momento finale e conclusivo della prestazione — sarebbe dovuto in ogni obbligazione, in quanto implicherebbe il doveroso impiego dei mezzi necessari per il conseguimento dello scopo stesso. In sostanza, il risultato non si identificherebbe necessariamente con l'integrale soddisfazione dell'interesse del cliente, ma nel compimento di tutte quelle scelte di natura discrezionale rese necessarie affinché l'opera possa dirsi compiuta (Cass. civ., n. 1268/1998); ciò, attraverso un confronto tra quanto non si è raggiunto e ciò che, con l'osservanza delle regole tecniche della professione, si sarebbe dovuto e potuto conseguire se si fosse usata la diligenza richiesta. In giurisprudenza, per esempio, si è sostenuto che si sia in presenza di una obbligazione di risultato quando l'avvocato assume obblighi precisi la cui violazione sia fonte di danno, come ad esempio l'espresso compimento di atti processuali o di notifiche in termini utili: in questi casi, infatti, la colpa professionale sarebbe in re ipsa, perché costituita dal solo fatto di aver lasciato decorrere inutilmente i termini. Ciò detto, relativamente alla natura della obbligazione professionale, questione preliminare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile dell'avvocato è l'accertamento del nesso causale tra il compimento dell'atto omesso e il successo nella controversia giudiziaria. Invero, non ogni errore professionale è fonte di un'obbligazione risarcitoria. È necessario in primo luogo che — accertato l'inadempimento — vi sia stato un danno per il cliente e, in secondo luogo, che tale danno possa essere collegato causalmente alla condotta inadempiente del professionista. Inoltre, come già esaminato, si richiede sempre la considerazione e la valutazione dell'esito della causa omessa e mal coltivata (Cass. civ., 24 maggio 2016 n. 10698), oscillando, quanto ai criteri utilizzati, tra la ragionevole certezza o la semplice probabilità di successo (Cass. civ., 22 maggio 2015 n. 10526). Ciò significa che la responsabilità dell'avvocato non si fonda tanto sul presupposto della colpa, quanto sulla valutazione positiva che, alla proposizione di una diversa azione o al diligente compimento di determinate attività, sarebbero seguiti effetti vantaggiosi per l'assistito cliente, atteso che l'accertamento di un comportamento negligente in capo al difensore non può, in ogni caso, comportare in via automatica un giudizio di responsabilità dello stesso (Cass. civ., 02 febbraio 2016 n. 1984; Cass. civ., 13 novembre 2015 n. 23209; Cass. civ., 07 agosto 2002 n. 11901). Ciò implica una valutazione prognostica positiva circa il sicuro o probabile fondamento dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente svolta, cosa che si traduce in una verifica a posteriori diretta ad accertare se — ove vi fosse stata una corretta esecuzione del mandato — il cliente avrebbe avuto serie e concrete probabilità di accoglimento della sue domande (Trib. Roma, 1 giugno 2016, n. 11138; Trib. Bari, 27 maggio 2015, n. 2472; Trib. Milano, 25 marzo 1996). In ogni caso, data la particolare difficoltà della prova della ricorrenza del nesso causale — anche considerando le difficoltà di conseguire a priori la certezza del raggiungimento del risultato sperato e voluto dal cliente — la giurisprudenza, in vista di una maggior tutela nei confronti del cliente medesimo — ha spesso utilizzato il criterio della «probabilità degli effetti», ritenendo sufficiente, nella ricerca del nesso causale tra la condotta del professionista e l'evento dannoso, la prova che l'opera del legale, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, ma serie ed apprezzabili probabilità di successo (App. Milano, 13 ottobre 2004). Si richiede pertanto la dimostrazione del fatto che la vittoria in giudizio si sarebbe avuta almeno con ragionevole certezza, ossia con quella certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente (Cass. civ., 18 aprile 2007 n. 9238). In tal modo si è voluto evitare al cliente una prova impossibile consistente nella dimostrazione in concreto e con certezza assoluta che la corretta attività del legale avrebbe comportato l'esito positivo della causa. In tal senso si è osservato che il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni, che a norma dell'art. 1223 c.c. devono essere dimostrati in concreto e consistere in una diminuzione patrimoniale, conseguiti alla mancata comunicazione dell'avvenuto deposito di una pronuncia sfavorevole, con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione, deve dimostrare che questa, ove proposta, avrebbe avuto concrete probabilità di essere accolta. Quindi il cliente non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneità della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto, secondo il criterio del “più probabile che non”, poiché l'accertamento del rapporto di causalità ipotetica derivante dalla condotta omissiva passa attraverso l'enunciato “controfattuale” che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, alla luce del quale verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato (Cass. civ., 29 settembre 2009 n. 20828; v., sull'accertamento del nesso di causalità in sede civile, Cass. civ., 11 gennaio 2008 n. 576). Osservazioni
Il giudice, per pronunziarsi circa l'inadempimento del legale patrocinante e l'eventuale conseguente risarcibilità del danno provocato, non può allora semplicemente valutare il mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente. Deve, invece, stabilire se gli elementi di fatto e di diritto del procedimento non celebrato, valutati con rigore, avrebbero annullato o ridotto al minimo l'opinabilità dell'esito del procedimento medesimo. L'affermazione della responsabilità dell'avvocato implica l'indagine − svolta positivamente sulla base degli elementi di prova che il cliente ha l'onere di fornire − circa il fondamento sicuro e chiaro dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e coltivata diligentemente Tale certezza morale può dirsi raggiunta anche con il criterio della probabilità degli effetti di una diversa e diligente condotta dell'avvocato. Si ritiene, dunque, che non sia necessario che i fatti sui quali la presunzione si fonda siano tali da fare apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva. È, invece, sufficiente che il collegamento avvenga alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento a una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo le regole di esperienza colte dal giudice per giungere al convincimento sulla probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto esposto con quello accertato. Può, dunque, dirsi che la definizione dell'obbligazione gravante in capo all'avvocato come obbligazione di mezzi o di comportamento non preclude in concreto l'esame dell'esito negativo della lite per l'accertamento di un eventuale rapporto causale, esistente fra la mancata attuazione del risultato sperato dal cliente e l'inadempimento o il difettoso adempimento dell'attività professionale.
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