L'occupazione illegittima di immobile nell'alternativa tra il diritto del proprietario ai frutti civili e l'obbligo del possessore senza titolo al risarcimento del danno
04 Ottobre 2016
Premessa
La tutela risarcitoria della lesione del diritto di proprietà, derivante dalla altrui occupazione senza titolo, presuppone che dal fatto illecito sia derivato al proprietario un pregiudizio di natura patrimoniale ma è controverso se questo danno debba considerarsi in re ipsa, e dunque se il proprietario possa limitarsi a provare il fatto illecito, ovvero se debba esserne data la prova in concreto secondo lo schema della responsabilità aquiliana e della causalità giuridica, che ammette la risarcibilità solo dei danni conseguenza. L'applicazione dei principi che regolano la responsabilità extracontrattuale tuttavia mal si concilia con quelle disposizioni che, disciplinando gli effetti del possesso, tutelano le ragioni del possessore di buona fede ma non quelle di chi possiede in mala fede, rispetto alle quali prevale il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti percepiti e percipiendi, e introducono nell'ordinamento una disparità di trattamento a seconda che il fatto illecito, consistente nella occupazione senza titolo di un immobile, sia commesso da un privato o dalla pubblica amministrazione: in quest'ultimo caso, la giurisprudenza, anche alla luce delle più recenti novelle legislative, sembra orientata ad accordare al proprietario una tutela più ampia e più in sintonia con le pronunce della Cedu. I due orientamenti della Cassazione
Il danno subito dal proprietario di un immobile a causa della altrui illecita occupazione sta vivendo una stagione di incertezze messe plasticamente in evidenza da due distinte pronunce della Cassazione, la quale ha affermato in un caso che questo è sempre un danno in re ipsa (Cass. civ., sez. II, sent., 15 ottobre 2015, n. 20823) e in un altro caso che non può mai qualificarsi danno evento e deve essere sempre dimostrato nelle sue conseguenze pregiudizievoli (Cass. civ., sez. III, sent., 21 settembre 2015, n. 18494; Cass. civ., sez. II, sent., 27 marzo 2015, n. 6285). L'orientamento più rigoroso poggia sulla tesi – poi definitivamente accolta dalle Sezioni Unite con le sentenze gemelle del 2008 (Cass. civ., Sez. Un., sent., 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974 e 26975) – che non esistono danni evento, nel senso che deve tenersi ben distinto l'evento dannoso dalle sue conseguenze pregiudizievoli e che non basta accertare il primo per darsi l'esistenza di un danno ingiusto. La Suprema Corte si è anche fatta carico di stabilire, quando si controverte in materia di occupazione di immobile senza titolo, in cosa debba consistere il danno risarcibile. È stato puntualizzato, infatti, che questo danno si atteggia in maniera diversa a seconda che il legittimo proprietario sia privato del godimento di un immobile nel quale svolgeva una qualche attività la cui prosecuzione è preclusa a causa del fatto del terzo ovvero non vi svolgeva qualche attività e neppure traeva dal detto immobile alcuna utilità diretta o indiretta (percependo un canone di locazione oppure mettendolo a disposizione di parenti o amici per soddisfare esigenze di natura familiare o amicale). Nella prima ipotesi, si potrà configurare un pregiudizio di natura patrimoniale consistente nella privazione – protratta nel tempo – del godimento che sarà risarcibile come danno emergente, che ovviamente dovrà essere allegato e provato; nella seconda ipotesi (e si fa l'esempio della occupazione di un terreno rispetto al quale il proprietario si limiti a goderne a distanza senza svolgervi alcuna attività, lasciandolo inutilizzato), non si potrà configurare alcun danno perché, rimanendo immutata la situazione, il proprietario non subisce alcuna conseguenza pregiudizievole, a meno che non si dimostri che il fatto del terzo ha precluso la possibilità di un godimento diretto che era stato programmato prima dell'occupazione ovvero ha impedito al legittimo proprietario di trarre indirettamente una utilità del bene, ad esempio non potendolo concedere in locazione e così perdendo una vantaggiosa offerta: in breve, sarà risarcibile il lucro cessante, se dimostrato (Cass. civ., sez. III, sent., 29 marzo 2012, n. 5058). Occorre anche aggiungere che la giurisprudenza ha temperato gli effetti di questa interpretazione così rigida dei principi che regolano la materia della responsabilità civile, precisando che comunque il pregiudizio potrà essere provato anche per presunzioni (Cass. civ., sez. I, sent. 1 ottobre 2015, n. 19655). Orbene, premesso che nella realtà è abbastanza improbabile che l'usurpazione di un bene immobile da parte di un terzo che vi si insedi senza un valido titolo avvenga quando è in atto il godimento del legittimo proprietario (il quale, peraltro, normalmente potrà esperire i rapidi rimedi possessori), aderendo alla impostazione più intransigente si rischia di lasciare senza tutela alcune ipotesi particolari, quale – ad esempio – il bene di proprietà di un fallito che sia nella custodia del curatore e nel quale – per ragioni abbastanza comprensibili – la curatela non vi si svolga alcuna attività nel momento in cui un terzo vi si insedia, occupandolo. Ed è appena il caso di aggiungere che la tesi del danno conseguenza, che è onere del proprietario allegare e provare, è senz'altro peggiorativa rispetto a quell'orientamento secondo il quale il danno è in re ipsa (e dunque è sufficiente dimostrare solo la materiale occupazione del bene) ed è escluso unicamente se si prova (e l'onere grava sull'occupante) che il legittimo titolare del diritto si sia intenzionalmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione, non potendosi, in tal caso, ragionevolmente ipotizzare la sussistenza di un concreto pregiudizio derivante dal mancato godimento del bene per effetto dell'illecito comportamento altrui (Cass. civ., sez. II, sent., 7 agosto 2012, n. 14222). C'è da chiedersi, allora, se il più recente – anche se non ancora univoco – orientamento della Cassazione in materia di danno da occupazione illegittima di immobile sia coerente con i principi generali che regolano il risarcimento del danno e con le disposizioni che – a diverso titolo – tutelano il diritto di proprietà (disposizioni, queste ultime, che sotto l'ombrello della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, sembrano prevedere più ampie garanzie per il proprietario rispetto al passato tutte le volte che l'occupante non sia un privato bensì la pubblica amministrazione). I confini del danno in re ipsa
Certamente, nel nostro ordinamento gli spazi all'interno dei quali si muove il concetto di danno evento si sono oramai ampiamente ristretti dopo alcuni interventi della Cassazione e della Corte Costituzionale. Come è noto, infatti, secondo la giurisprudenza non si può e non si deve confondere il fatto dannoso (ossia l'evento) con le conseguenze pregiudizievoli (ossia il danno). È stata abbandonata (ma, vedremo tra un attimo, non definitivamente) la teoria del danno in re ipsa consistente nella immediata lesione del valore o bene tutelato dall'ordinamento, tanto più se da norme di rango costituzionale (Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184), ed ha incontrato un diffuso favore la tesi che subordina il risarcimento alla esistenza di un danno ingiusto, ossia di un pregiudizio che, secondo il criterio della causalità giuridica, sia una conseguenza del fatto dannoso (Cass. Civ., Sez.Un., sent., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. Civ., sez. III, sent., 31 maggio 2003 n. 8827 e 8828). Principio che è stato ribadito in innumerevoli decisioni rese non solo e non soltanto in materia di danno alla persona ma anche in altri e diversi ambiti: nel danno da violazione della privacy (Cass. Civ., sez. VI, sent., 5 settembre 2014, n. 18812), nel danno alla reputazione (Cass. Civ., sez. III, sent., 18 novembre 2014, n. 24474; Cass. Civ., sez. III, sent., 12 giugno 2015, n. 12225), nel danno da illegittima assunzione a termine da parte di una p.a. (Cass. Civ., sez. lav., sent., 23 dicembre 2014, n. 27363; ma in senso contrario Cass. Civ., sez. lav., sent., 22 gennaio 2015, n. 1181 che invece ha affermato che nell'ipotesi di utilizzo abusivo di successivi contratti di lavoro a tempo determinato, un lavoratore del settore pubblico che richieda il risarcimento del danno non è tenuto a provare concretamente il medesimo), nel caso di illegittima segnalazione alla Centrale Rischi (Cass. Civ., sez. III, sent., 5 marzo 2015, n. 4443), nel danno “ulteriore” da concorrenza sleale (Cass. Civ., sez. I, sent., 20 luglio 2015, n. 15134) , nel danno da diffamazione (Cass. Civ., sez. III, sent., 29 luglio 2015, n. 16055), nel caso di danno alla professionalità (Cass. Civ., sez. lav., sent., 11 agosto 2015, n. 16690), in materia di brevetti e violazione della privativa (Cass. Civ., sez. I, sent., 8 settembre 2015, n. 17791), nel danno da concorrenza sleale (Cass. Civ., sez. I, sent., 23 dicembre 2015, n. 25921), nel danno da fermo tecnico (Cass. Civ., sez. III, sent., 8 gennaio 2016, n. 124). Dinanzi a così imponente giurisprudenza si potrebbe pensare che il concetto giuridico di danno in re ipsa sia stato definitivamente espunto dall'ordinamento, ma così non è. Non è infrequente, infatti, imbattersi in decisioni nelle quali è stato affermato il diritto della parte lesa al risarcimento del danno anche in assenza della prova di concrete conseguenze pregiudizievoli. Così la Cassazione, nel delineare i confini all'interno dei quali è consentito al giudice liquidare il danno in via equitativa, ha precisato che un danno risarcibile deve essere dimostrato ovvero deve essere incontestato ovvero, ed infine, deve ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa (Cass. Civ., sez. III, sent., 8 gennaio 2016, n. 127; Cass. Civ., sez. III, sent., 31 marzo 2016, n. 6218); da segnalare, inoltre, un recente arresto del Consiglio di Stato (Cons. Stato, 14 marzo 2016, n. 992) che ha considerato in re ipsa il pregiudizio economico conseguente alla mancata aggiudicazione di un appalto al quale si aveva diritto. Ciò che davvero desta sorpresa è l'ambito in cui, in maniera più ricorrente, la giurisprudenza ha riconosciuto la risarcibilità del danno in re ipsa: in materia di distanze legali e di immissioni moleste (Cass. Civ., sez. II, sent., 31 ottobre 2014, n. 23283), ossia situazioni nelle quali viene in rilievo proprio la tutela del diritto di proprietà. In particolare l'inosservanza delle distanze legali tra costruzioni darebbe sempre diritto al risarcimento del danno perché sarebbe intrinseca alla illecita condotta la abusiva imposizione di un servitù e dunque la limitazione al godimento dell'immobile, con conseguente riduzione temporanea del valore, senza necessità di una specifica attività probatoria: danno conseguenza e non danno evento, precisa la Cassazione, che però deve ritenersi in re ipsa (Cass. Civ., sez. II, sent., 12 febbraio 2016, n. 2848; In senso difforme Trib. Milano, Sez. IV, sent., 25 agosto 2015, n. 9590, secondo il quale la violazione delle distanze legali, pur potendo comportare, in via astratta, «un danno per il proprietario confinante in quanto implica una imposizione di servitù sul proprio fondo e, quindi, una limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima», non dà diritto automaticamente al risarcimento se non si prova la concreta esistenza del danno, che non può dunque ritenersi in re ipsa). La decisione si colloca nel solco di un orientamento abbastanza consolidato della Suprema Corte, la quale aveva affermato i superiori principi in un suo precedente del 2010 che è bene segnalare per la trattazione più diffusa della questione. Due sono i passaggi rilevanti. Innanzitutto la constatazione che l'inosservanza della normativa in materia di distanze tra costruzioni lede il diritto di proprietà comprimendo una delle facoltà in cui questo diritto si esercita, e cioè il godimento del bene. E questa lesione è immanente, è nello stesso fatto lesivo, dunque è in re ipsa. In secondo luogo, la precisazione che il danno, pur se in re ipsa, e pur sempre un danno conseguenza: esso, cioè, “è l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima inteso come pieno godimento del bene” (Cass. Civ., sez. II, sent., 16 dicembre 2010, n. 25475). A questo punto, però, si fatica a comprendere perché una parziale compressione del diritto di proprietà (rectius, della facoltà di godimento in cui il diritto normalmente si estrinseca) è immediatamente lesiva del diritto medesimo, con la conseguenza che l'autore della costruzione in spregio alla normativa in materia di distanza sarà tenuto a risarcire senz'altro il proprietario senza che questo dimostri il concreto pregiudizio (così, sembra di capire, schiudendo le porte ad una liquidazione equitativa del danno) ed invece, quando la compressione del diritto di proprietà è massima, come nella occupazione di bene immobile in assenza di valido titolo, il danno non è in re ipsa ed il proprietario è onerato di provare il danno emergente (se l'occupazione è avvenuta nonostante il proprietario godesse direttamente o indirettamente del bene) o il lucro cessante (se il proprietario, pur non godendo del bene, dimostra che comunque la illecita condotta altrui gli ha impedito di trarre una utilità dal bene medesimo perché, per esempio, ha fatto sfumare la possibilità di concederlo in locazione a terzi, secondo un ben preciso programma preesistente all'atto usurpativo). Peraltro, ancora meno convincente appare, a questo punto, la distinzione tra la situazione in cui il proprietario subisce la illecita altrui condotta quando è nel godimento diretto o indiretto del bene e la situazione (potenzialmente inoffensiva) in cui invece il proprietario gode “a distanza” del bene (nel senso che di fatto non vi svolge alcuna attività e non ne trae alcuna utilità). Se identico è il modo di atteggiarsi del diritto di proprietà, ci si sarebbe dovuto attendere la medesima distinzione anche quando la violazione è conseguente alla inosservanza delle norme in materia di distanze legali: se il proprietario del fondo, danneggiato dalla costruzione realizzata dal vicino a distanza non regolamentare, non vi svolgesse alcuna attività (e cioè non ne gode direttamente e/o indirettamente), non subirebbe alcun pregiudizio dalla altrui illecita condotta e dunque potrebbe sperare di fare cessare la violazione ma non anche di ottenere il risarcimento del danno. Invece la Cassazione, quando definisce il danno del proprietario da violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, non distingue affatto tra tipologie di godimento. Ed in effetti classificare il godimento a seconda che questo sia diretto, indiretto o “a distanza” e fare discendere tutta una serie di conseguenze sul piano del danno da occupazione illegittima, trascura il fatto che è godimento anche il non uso del bene e probabilmente tradisce anche lo spirito della legge. Anche a voler dare per acquisito che il diritto di proprietà, pur essendo riconosciuto dalla Carta Costituzionale, non è tra i diritti fondamentali della persona (essendo collocato nella parte dedicata ai diritti economici) e che non basta neppure – al fine di un suo upgrade – che esso sia espressamente tutelato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che, essendo norma interposta perché di natura convenzionale il cui inserimento tra le fonti del nostro ordinamento è avvenuto attraverso il suo recepimento mediante legge ordinaria, non prevale sulla Carta Costituzionale), graduare – di fatto – la tutela del diritto in ragione della intensità del godimento mal si concilia non solo con la definizione codicistica della proprietà ma anche con le norme che la disciplinano e con quelle che regolano gli effetti del possesso. Più esattamente, inquadrando l'occupazione di immobile senza titolo nell'ambito dell'illecito civile e ritenendo che il proprietario abbia diritto al risarcimento del danno secondo lo schema della responsabilità extracontrattuale, si finisce per relegare in secondo piano – se non addirittura disapplicare – alcune disposizioni che invece tutelano la proprietà. L'ordinamento accorda una tutela specifica al proprietario, il quale, a mente dell'art. 948 c.c., può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene. La norma, però, lascia irrisolta la questione risarcitoria perché, perseguendo innanzitutto lo scopo di mettere il proprietario nelle condizioni di ripristinare la legalità, accenna appena al risarcimento del danno, circoscrivendolo alla ipotesi in cui il possessore o il detentore abbiano cessato il possesso o la detenzione dopo la domanda giudiziale per fatto ad essi imputabile: il proprietario potrà proseguire l'azione nei confronti del convenuto e costui dovrà recuperare la cosa a proprie spese ovvero dovrà corrisponderne il valore al proprietario, oltre al risarcimento del danno. La tutela risarcitoria è dunque prevista, ma in maniera residuale e solo nel caso in cui il possessore o il detentore abbia perduto il possesso della cosa dopo la domanda giudiziale. Che accade quando la cosa rimanga nella materiale disponibilità del possessore? Il proprietario, dimostrando il proprio titolo, potrà senz'altro recuperarla e, secondo l'orientamento più rigoroso cui sopra si è fatto cenno, potrà anche ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali la cui esistenza riesca a provare, secondo lo schema consueto dell'illecito civile. Ma è davvero questo il rimedio tipico previsto dal legislatore? In dottrina vi è stato chi ha evidenziato che «la responsabilità del possessore di mala fede non segue i binari dell'art. 2043» perché «egli risponde dei frutti (anche civili) indipendentemente dai danni arrecati al proprietario» (Sacco R., Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu – Messineo, Giuffrè, pag. 361). Secondo un'altra corrente di pensiero, «al rivendicante spetta in ogni caso, e senza bisogno di provare di aver sofferto un danno particolare, la restituzione dei frutti percepiti e percipiendi, cioè di quanto si pensa avrebbe ottenuto, se avesse avuto il godimento della cosa, in base ad una gestione ordinaria. Ciò però non può escludere il risarcimento del danno ulteriore (cioè, in definitiva, del lucrum cessans), secondo le regole generali, posto che, s'intende, egli dimostri che la mancata disponibilità della cosa gli ha impedito di conseguire dei vantaggi particolari, in questo senso ulteriormente depauperando la sua sfera particolare» (Natoli U., Il possesso, in Il diritto privato oggi a cura di Cendon, Giuffré, pag. 232). In effetti, se si inquadra senz'altro la tutela del proprietario all'interno dello schema della responsabilità aquiliana, si finisce per riconoscere al possessore in mala fede un vantaggio sul piano processuale che mal si concilia con le norme che disciplinano gli effetti del possesso. Si pensi al caso del possessore che ignori con colpa grave di ledere un altrui diritto (situazione equiparata dall'art. 1147 c.c. alla mala fede) e che durante il periodo in cui egli ne ha la disponibilità conceda l'immobile in locazione percependo il canone: se il proprietario che agisce in rivendica non riuscisse a dimostrare di avere subito un pregiudizio dalla altrui “illecita” condotta, il Giudice dovrebbe accogliere la domanda volta ad ottenere la restituzione dell'immobile ma dovrebbe rigettare quella tesa al risarcimento del danno. Ciò sarebbe apertamente in contrasto con l'art. 1148 c.c., a mente del quale il possessore in mala fede è obbligato a restituire i frutti percepiti e quelli che avrebbe potuto percepire usando la ordinaria diligenza. Vero è che la norma, regolando l'acquisto dei frutti se il possessore è in buona fede, nulla dice qualora il possessore sia mala fede; ma che quest'ultimo sia obbligato a restituire i frutti, anche quelli percipiendi e non solo quelli percepiti prima della domanda giudiziale, si desume proprio dalla disciplina dettata per il possesso di buona fede. Ed in effetti, se ai sensi dell'art. 1148 c.c. lo stato di buona fede cessa con la domanda giudiziale, e se da questo momento, quindi, il possessore non può più beneficiare di quel particolare favore concesso dall'ordinamento a chi ignori senza colpa grave di ledere un altrui diritto ed è per ciò obbligato a restituire anche i frutti non percepiti ma che avrebbe ragionevolmente percepito se avesse usato la ordinaria diligenza, a maggior ragione è tenuto alla restituzione di questi frutti il possessore in mala fede, con la differenza, però, che questi sarà obbligato a restituire anche quelli che avrebbe potuto percepire prima della domanda giudiziale e non solo quelli effettivamente percepiti. Pertanto, qualora fosse accertato che la situazione di possesso ha avuto la sua genesi nella piena consapevolezza del possessore di ledere un altrui diritto, sarebbe in re ipsa non il danno ma il diritto del proprietario alla fruttificazione e basterebbe la prova, a questo punto, della “illiceità” del possesso e non anche del fatto che il possessore abbia percepito i frutti, egli dovendo comunque restituire anche quelli che avrebbe potuto percepire e che non ha lucrato perché, ad esempio, ha destinato l'immobile ad uso personale. Accogliendo la tesi che nega dignità al danno (ma è più esatto parlare di fruttificazione) in re ipsa da occupazione senza titolo, si creano tutte le premesse per riservare al medesimo diritto, quello di proprietà, un diverso trattamento a seconda che l'occupazione del bene immobile avvenga per scopi di interesse pubblico ovvero per finalità private. Non è questa la sede anche solo per ripercorrere sommariamente l'excursus legislativo e giurisprudenziale sull'ampiezza della tutela da accordare al proprietario che sia stato privato del suo bene ad opera della pubblica amministrazione, ma non si può concludere questo ragionamento senza dare conto della più recente giurisprudenza e delle novelle al Testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità. In particolare, ha affermato la Cassazione che “alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno della dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni” (Cass. civ., Sez.Un., sent., 19 gennaio 2015, n. 735). Il risarcimento dovrà ristorare il privato anche del pregiudizio sofferto nel periodo di occupazione illegittima, durante il quale il proprietario ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno (Cass. civ., Sez. Un., sent., 19 gennaio 2015, n. 735) senza la necessità (così sembrerebbe) di dover dare la prova del danno secondo lo schema tipico dell'illecito aquiliano. Ed in effetti il diritto incondizionato del proprietario al risarcimento del danno derivante dalla privazione dell'immobile durante la occupazione illegittima da parte della Pubblica Amministrazione è oramai sancito dall'art. 42-bis D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 il quale espressamente prevede che «per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore» venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità. La norma, che ha superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale (Cort. Cost., sent., 30 aprile 2015, n. 71), ha introdotto nell'ordinamento una eccezione alle regole generali in materia di illecito civile; in particolare, ha sdoganato la figura del danno in re ipsa, che potrà e dovrà configurarsi ogni qual volta venga in evidenza la lesione del diritto di proprietà per mano della pubblica amministrazione. Si potrà anche non essere d'accordo con la tesi – qui sostenuta – di ricercare la tutela della proprietà non all'interno delle norme e dei principi che regolano la responsabilità da illecito extracontrattuale bensì tra quelle espressamente previste dal codice a presidio del diritto dominicale, ma non potrà accettarsi che diverse saranno le conseguenze per il proprietario a seconda che l'autore dell'illecito sia un privato ovvero la pubblica amministrazione. In cocnclusione
In definitiva, la tesi secondo la quale il proprietario che agisca in rivendica ha diritto al risarcimento del danno solo se ne prova l'esistenza, finisce per restringere la tutela accordata dall'ordinamento alla proprietà e conduce inevitabilmente alla disapplicazione di alcune disposizioni che, disciplinando gli effetti del possesso, sanzionano – sembra di poter dire indipendentemente dalla prova positiva – colui il quale abbia consapevolmente e/o intenzionalmente privato il legittimo proprietario del pieno godimento del bene immobile. Inoltre, così opinando si espone il medesimo diritto ad una diversa tutela quando il fatto illecito, consistente nella occupazione senza titolo, è commesso da un privato e non dalla pubblica amministrazione: e questa conseguenza sarebbe davvero poco comprensibile proprio adesso che il legislatore ha dato all'espropriazione per pubblico interesse un assetto che sembra più attento, finalmente, alle ragioni dominicali e, a ben vedere, anche più aderente alle norme poste dal codice civile a difesa della proprietà.
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