Responsabilità civile dei giudici: una legge con molte ombre

Claudio Castelli
05 Marzo 2015

La nuova legge sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati (Legge 27 febbraio 2015, n.18), pubblicata in G.U. il 4 marzo 2015, recante le modifiche alla previgente normativa (Legge Vassalli, L. n. 117/2015), ha: eliminato il filtro di inammissibilità; esteso la risarcibilità dei danni non patrimoniali; ridefinito la colpa grave; ed infine aumentato la misura della rivalsa. Mentre sono rimasti inalterati alcuni fondamentali principi affermati nella Legge Vassalli.
La legge Vassalli : una buona legge

La legge Vassalli (Legge 14 aprile 1988, n. 117) che disciplina la responsabilità civile dei giudici era, aldilà dei sommari giudizi che oggi l'accompagnano, una buona legge. La legge era nata in una situazione difficile, dopo l'abrogazione a seguito del referendum popolare del 1987 degli artt. 55 e 56 c.p.c., che di fatto escludevano una responsabilità civile del giudice (L'art. 55 c.p.c. limitava la responsabilità civile a dolo, frode e concussione e al diniego di provvedere a seguito di messa in mora ed era subordinata all'autorizzazione del Ministro della Giustizia). Il problema, all'epoca come oggi, era di cercare e trovare un difficile equilibrio tra il rispetto del principio costituzionale (art. 28 Cost.) della responsabilità degli atti compiuti da parte di tutti i funzionari pubblici e la specificità e rilevanza dell'attività giurisdizionale che non consente citazioni dirette e ingerenze sull'attività interpretativa.

La scelta era stata di perseguire questo obiettivo attraverso due strumenti:

  • l'introduzione di un filtro di ammissibilità (art. 5, L. n. 117/1988 );
  • la tipizzazione delle ipotesi di colpa grave perseguibili (art. 3, L. n. 117/1988).

La legge ha sicuramente funzionato per evitare interventi strumentali sulla giurisdizione, ridimensionando i fortissimi allarmi che all'epoca l'avevano accompagnata (Emblematico fu l'amplissimo ricorso negli organi collegiali ai verbali e ai plichi per rimarcare il dissenso sulla decisione, poi gradualmente caduto in desuetudine), mentre non ha sicuramente incoraggiato il ricorso dei cittadini contro decisioni colpevoli che avessero provocato dei danni. Anche se il dato numerico citato (450 ricorsi e 7 affermazioni di responsabilità) dimostra lo scarso ricorso a questo strumento e nulla più, in assenza di una disamina sulla qualità ed i contenuti delle azioni proposte.

Non solo, ma in più pronunce la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità e congruità di tale normativa (Corte Cost., 9-18 gennaio 1989, n.18; Corte Cost., 9-22 ottobre 1990, n.468) sottolineando che «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione».

Cosa voleva l'Europa

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea con più pronunce, anche relative ad altri Paesi, aveva sancito che doveva essere prevista la responsabilità civile per manifesta violazione del diritto europeo e che tale responsabilità dovesse ricadere sullo Stato, precisando che «il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato» (CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler, Punto 42).

Del resto il problema nasce con due procedimenti portati all'attenzione della Corte di Giustizia che riguardano sentenze emesse dall'organo di ultima istanza, di cui quello che interessa l'Italia (CGUE, 13 giugno 2006, causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo Spa) si riferisce ad una erronea interpretazione da parte della Corte di Cassazione delle norme comunitarie relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato. Quello che la Corte di Giustizia vuole è che la responsabilità dello Stato sorga anche quando una violazione manifesta del diritto «risulti da un'attività di interpretazione di norme di diritto ovvero di valutazione dei fatti e delle prove» (CGUE, 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo Spa, Punti 33 -40) e che la sussistenza della responsabilità dello Stato non sia limitata ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice (Punti 42 -45).

Da questo e non da una pretesa inadeguatezza dei limiti posti alla responsabilità dei giudici è derivata la procedura di infrazione.

Altrimenti si rischierebbe un contrasto con la raccomandazione del Comitato dei ministri n.12 del 17 novembre 2010 del Consiglio d'Europa che suggerisce che «l'interpretazione della legge, l'apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne nei casi di dolo e colpa grave».

In realtà le pronunce della Corte Europea venivano utilizzate in un contesto parlamentare in cui già erano stati presentati diversi disegni di legge, proposte ed emendamenti tesi a modificare la normativa con un approccio ostile alla magistratura (Vedi l'emendamento Pini approvato dalla Camera dei Deputai il 2 febbraio 2012 che introduceva la responsabilità diretta del giudice, poi superato dall'emendamento Severino).

La nuova disciplina

La nuova legge opera un intervento ortopedico sulla legge Vassalli che rimane la base normativa.

Le modifiche più significative apportate sono:

  • Viene eliminato il filtro di inammissibilità (abrogazione dell'art.5, L. n. 117/1988).
  • La risarcibilità ai danni non patrimoniali, prima limitata ai soli casi derivanti da privazioni della libertà personale, viene estesa (modifica dell'art. 2, comma 1, L. n. 117/1988, comma 1 ultima parte).
  • L'interpretazione non è più causa esimente in caso di dolo e colpa grave (nuova formulazione art. 2, comma 2, , L. n. 117/1988).
  • Nella casistica della colpa grave la «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» diventa «violazione manifesta delle legge, nonché del diritto dell'Unione Europea», aggiungendo una specificazione che occorre tener conto «del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza» (art. 2, commi 3 e 3-bis, L. n. 117/1988).
  • Sempre nella casistica viene aggiunta l'ipotesi di travisamento del fatto o delle prove (art. 2, comma 3, L.n. 117/1988).
  • La misura della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del giudice viene aumentata da un terzo alla metà dello stipendio percepito per un'annualità (modifica dell'art.8, comma 3, L. n. 117/1988).

Restano inalterati alcuni fondamentali principi già affermati nella legge Vassalli.

In primis l'azione giudiziaria contro lo Stato può essere presentata solo una volta esauriti i mezzi ordinari di impugnazione ed i rimedi previsti dalla legge e comunque quando non sia più possibile la modifica o la revoca del provvedimento. L'azione risarcitoria può essere esercitata durante il processo solo qualora il grado di giudizio durante il quale sia avvenuto il fatto supposto dannoso sia ancora pendente dopo tre anni dal fatto.

Ciò chiarisce che non sono possibili azioni strumentali dirette a costringere il giudice ad astenersi e quindi a spogliarsi del procedimento (in eclatante violazione dell'art. 25 Cost.). Difatti anche un'azione proposta immediatamente dopo un provvedimento sgradito andrebbe comunque proposta contro lo Stato e quindi il Giudice non sarebbe parte. Tale azione, oltre ad essere inammissibile, si presterebbe alle sanzioni previste per le liti temerarie. In ciò nessuna modifica vi è rispetto all'impianto originario della legge Vassalli, anche se le preoccupazioni derivano proprio dalla abrogazione del filtro di inammissibilità che aveva anche il pregio di stabilire termini rapidi e cogenti.

È possibile fare ricorso nei confronti di qualsiasi provvedimento, anche se la dizione della norma (anch'essa invariata rispetto al passato), chiarisce che è onere della parte avere esperito tutti i possibili rimedi, ivi comprese le istanze di modifica e revoca, per far revocare o correggere il provvedimento di cui si denuncia l'erroneità e la dannosità. In difetto non si potrà avere risarcimento alcuno. Per cui non sarà possibile non reagire ad un provvedimento, riservandosi una successiva azione civile.

D'altra parte non è necessario che il provvedimento o comportamento foriero di danno sia quello definitivo, ben potendosi avere provvedimenti non definiti che di per sé, anche per un tempo limitato, cagionano danni.

La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa a meno che il magistrato non sia intervenuto volontariamente e non fa stato nel procedimento disciplinare (art. 6, comma 2, L. n. 117/1988).

L'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ha inizio solo se si ha affermazione di responsabilità dello Stato.

Quanto all'inizio dell'azione disciplinare mancano invece norme espresse sul momento in cui il Procuratore Generale debba avere notizia del procedimento e quindi esercitare l'azione disciplinare. La norma è invariata, ma rispetto al passato cambia radicalmente il contesto della legge e lo stesso regime di obbligatorietà dell'azione disciplinare. Difatti in precedenza era il Tribunale che una volta superata favorevolmente la fase dell'ammissibilità, doveva ordinare la trasmissione degli atti ai titolari dell'azione disciplinare. L'eliminazione di tale provvedimento, che riconosceva un fumus all'azione, e l'assenza di qualsiasi disposizione normativa in materia, salvo quella generale di cui agli art. 14 e 15 del D. lgs. n.109/2006 sulla disciplina degli illeciti disciplinari, porta a formulare due differenti ipotesi: ritenere che la semplice proposizione di un ricorso imponga l'esercizio dell'azione disciplinare ovvero valutare che tale obbligo scatti solo all'esito della sentenza sfavorevole allo Stato. La seconda ipotesi mi sembra preferibile nel silenzio della legge, non essendo sufficiente un semplice ricorso di una parte per un atto significativo e di per sé negativo quale l'esercizio dell'azione disciplinare (che è ben più di una semplice segnalazione), ma essendo necessario un accertamento giudiziale, sia pure non definitivo. Ciò tra l'altro garantirebbe a sufficienza contro azioni strumentali e avventate.

Larghe perplessità sono state avanzate sull'introduzione nella casistica delle fattispecie di colpa grave della nuova ipotesi del travisamento del fatto o delle prove per la sua ambiguità. Per travisamento del fatto si intende un'inconciliabile contraddittorietà emergente in modo inequivoco tra il provvedimento giurisdizionale reso e le risultanze degli atti e le relative prove acquisite. Questa è la definizione ricavabile dall'interpretazione giurisprudenziale maturata in tutti gli ambiti, non solo civile e penale, ma anche disciplinare, dove già è previsto uno specifico illecito disciplinare dalla lettera h) dell'art. 2, comma 1, D. lgs. 23 febbraio 2006, n.109 (CSM sez. disc. 18 marzo 2013, n. 47; CSM sez. disc. 25 ottobre 2013, n. 140; CSM sez. disc. 26 settembre 2008, n. 141; v. Fresa, Il travisamento del fatto nel sistema disciplinare, in www.movimentoperlagisutizia.it/csm/disciplinare). Se si accoglie tale interpretazione si rientra pienamente nello stesso solco delle altre fattispecie, di cui all'art. 3, L. n. 117/1988, che richiedono un elevato grado di colpa. Lo stesso Parlamento si è reso conto dell'estrema delicatezza della questione e la Commissione Giustizia della Camera si è fatta carico di affrontare la problematica in sede di relazione alla legge, anche al fine di «orientare in futuro l'interprete circa l'effettiva intenzione del legislatore nel momento in cui va ad introdurre questa nuova fattispecie di colpa grave».

L'interpretazione costituzionalmente orientata fornita dal Parlamento tende ad impedire che il travisamento del fatto e delle prove, diventi un'invasione del terreno interpretativo e valutativo proprio e necessario per l'attività giurisdizionale e per la sua autonomia ed indipendenza.

«Pertanto, se si vogliono rispettare i citati principi costituzionali occorre evitare il travaso della nozione di travisamento in quelle di interpretazione e valutazione. Ove il "travisamento" si traduca in valutazioni manifestamente abnormi del dato normativo o macroscopici ed evidenti stravolgimenti di quello fattuale, allora non ricorrerà più un'attività definibile come interpretazione o valutazione. Solo allora, tramite questa lettura costituzionalmente orientata, il travisamento potrà legittimamente costituire il presupposto della responsabilità civile, lasciando intatta la clausola di salvaguardia che mira a garantire l'autonomia e l'imparzialità del giudice nell'attività di interpretazione di norme di diritto e in quella di valutazione del fatto e delle prove».

Occorrerà ora vedere se il chiarimento che lo stesso Parlamento ha inteso fornire ampiamente in sede di lavori parlamentari (E' significativo che ben un quarto della relazione alla legge della Commissione si occupa di questa problematica) sarà sufficiente ad evitare invasioni o stravolgimenti o se i timori avanzati da più parti si riveleranno fondati.

Un'evoluzione densa di pericoli

La nuova legge avrà a livello processuale un'immediata applicazione, saltando quindi il filtro di ammissibilità. E' difficile oggi valutare se la nuova legge avrà una vasta applicazione e quindi un forte impatto sugli uffici giudiziari. Abbiamo due esempi del tutto contrastanti al riguardo: mentre la legge Vassalli ha avuto un utilizzo estremamente contenuto, viceversa la legge Pinto (L. n. 89/2001) ha letteralmente intasato le Corti di Appello.

Quanto comunque preoccupa è il clima di disprezzo per la giurisdizione in cui questo è avvenuto, quasi che il rivolgersi al giudice sia un rischio e non la normalità in caso di controversie e di rottura della legalità.

La spinta che viene realizzata è di una progressiva assimilazione della magistratura al pubblico impiego.

La direzione in cui va questa normativa si inserisce nell'alveo già sperimentato con la nuova normativa sulle ferie e disciplina la magistratura come una qualsiasi categoria del pubblico impiego, senza riconoscerne la specificità e la valenza costituzionale in quanto titolare di un potere dello Stato.

L'idea di fondo è che l'attività giurisdizionale possa risolversi in un ruolo meramente esecutivo e applicativo, disconoscendo la fondamentale funzione del giudice come ricognizione e ricostruzione di un ordinamento multi fonte e come interprete.

Il fortissimo rischio è di una compressione del libero convincimento del giudice e l'inserimento tra i vari fattori che portano il magistrato ad una decisione, comunque dovuta, di ragioni di convenienza e di opportunità rispetto ai rischi risarcitori che una pronuncia può comportare. Il che inevitabilmente viene a privilegiare le parti più forti.

La prospettiva di una giurisprudenza difensiva è oggi, purtroppo, all'ordine del giorno. Ma una giurisprudenza difensiva è negazione stessa della giustizia.

I processi degraderebbero a pratiche dove le persone protagoniste degli stessi sparirebbero e gli unici elementi che rileverebbero sarebbero i tempi e le soluzioni meno rischiose.

Infine vi è un formidabile pericolo, anche per l'impatto psicologico che la norma viene ad avere, di influire negativamente sulla produttività.

È inevitabile che a fronte di un comando del legislatore di maggiore attenzione e qualità, in assenza di risorse e di assistenza, la reazione più immediata e naturale sia di ridurre quantità ed allungare i tempi.

Proprio quanto oggi non possiamo permetterci.

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