La Corte costituzionale salva la riforma della legge sulla responsabilità civile dei magistrati

Giuseppe Marra
06 Settembre 2017

In tema di responsabilità civile dello Stato per fatto illecito del magistrato, non è costituzionalmente necessario per tutelare l'autonomia e dell'indipendenza della magistratura che sia prevista una delibazione preliminare dell'ammissibilità della domanda contro lo Stato (il c.d. filtro), in quanto la disciplina in materia, pur riformata dalla l. n. 18/2015, vede la permanenza di una responsabilità solo indiretta del magistrato e un'azione di rivalsa con diversi presupposti, elementi che di fatto assicurano la serenità di giudizio dei magistrati e la loro soggezione solo alla legge.
La riforma del 2015 della legge Vassalli

In premessa va ricordato succintamente che la modifica della legge c.d. Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati è avvenuta a distanza di 27 anni, con la contestata (soprattutto dalla magistratura) l. 27 febbraio 2015 n. 18. Essa trae origine da alcune decisioni della Corte di giustizia Ue e dalla conseguente necessità di adeguare la normativa interna ai principi di diritto espressi dalla C.G.UE, come peraltro affermato espressamente dall'art. 1 della stessa legge di riforma.

La Corte di giustizia dell'Unione europea sintetizzando e sviluppando un orientamento giurisprudenziale avviato a partire dalla sentenza 30 settembre 2003, C 224-01, Kobler, poi precisato con la sentenza 13 giugno 2006, C 173- 03, Traghetti del Mediterraneo, ha per ultimo affermato, precisamente con la sentenza 24 novembre 2011, C 379-10, Commissione europea c. Repubblica italiana, il principio secondo cui la normativa nazionale non può escludere la responsabilità dello Stato (italiano) per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti dall'interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2 , della legge 117/1988.

Con la Riforma del 2015 è stata confermata l'opzione della responsabilità indiretta dei magistrati, conformemente a quanto previsto in tutti quei Paesi che hanno una normativa sulla responsabilità civile dei magistrati, ma le modifiche apportate dalla l. n. 18/2015 hanno inciso in modo assai significativo sulla disciplina prevista dall'originaria legge Vassalli. In particolare è stato eliminato completamente il filtro di ammissibilità della domanda (con l'abrogazione dell'art. 5), per cui tutte le azioni di risarcimento intentate in prima battuta contro lo Stato, anche quelle manifestamente inammissibili (ad esempio perché promosse fuori dai termini indicati dalla legge ) daranno vita ad un processo civile che non potrà essere definito in una sola udienza.

Oltre all'eliminazione del filtro di ammissibilità la nuova legge ha inoltre certamente ampliato l'ambito di applicazione della disciplina della responsabilità civile dei magistrati. Infatti il novellato art. 2, comma 3, che individua i casi di colpa grave, accanto alle ipotesi già presenti dell'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del processo o della negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del processo, introduce la nuova ipotesi del “travisamento del fatto o delle prove“, di cui è non chiara l'effettiva portata, soprattutto se si accede alla tesi, quella che appare più lineare dal punto di vista interpretativo, che tale ultima ipotesi è distinta ed autonoma rispetto a quelle già presenti.

Il Legislatore ha poi sostituito all'ipotesi della colpa grave connessa alla «[…] grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», quella della «violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea», in cui, vi è un richiamo espresso, a nostro avviso superfluo, alla normativa europea, che ben poteva rientrare però già nel concetto generale della violazione della legge.

Si evidenzia che nei presupposti dell'azione nei confronti dello Stato, con riguardo alle condotte che costituiscono colpa grave è stato eliminato il riferimento alla negligenza inescusabile del magistrato, invece previsto espressamente dal testo precedente dell'art. 2, comma 3, che quindi limitava l'ipotesi di responsabilità ai casi più macroscopici, quelli appunto in cui la negligenza inescusabile connotava la colpa grave del magistrato. La negligenza inescusabile o il dolo rimangono tuttavia presupposti, in astratto necessari, per esercitare l'azione di rivalsa da parte dello Stato,

L'ampliamento della portata applicativa della nuova disciplina si riscontra inoltre anche con riguardo alla limitazione della clausola di salvaguardia, che originariamente nel testo della legge Vassalli prevedeva che: «Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». La nuova disciplina invece esclude che la suddetta clausola di salvaguardia si applichi ai casi di dolo o di colpa grave indicati dai commi 3 e 3-bis dell'art. 2, ossia a quasi tutti i casi di colpa grave, compreso quello del travisamento del fatto o delle prove.

Da questi brevi cenni si comprende bene che la riforma avvenuta con la l. n. 18/2015 ha modificato in maniera significativa la disciplina dettata dalla legge Vassalli, pur permanendo l'impossibilità per il cittadino leso dalla condotta gravemente colposa del magistrato di agire direttamente contro di esso per ottenere il risarcimento del danno.

Le questioni rimesse alla Corte Costituzionale

Più tribunali (Verona, Treviso, Catania, Enna, Genova) hanno sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale, sotto diversi profili, che in questa sede non è possibile affrontare esaustivamente per ragioni di spazio.

Le questioni sollevate dai tribunali di Verona, Treviso, Catania ed Enna, sono state dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionali per difetto di rilevanza nei procedimenti a quibus, mentre la rimessione da parte del Tribunale di Genova, effettuata con riferimento agli artt. 3, 25, 101, 104 e 111 Cost., è stata dichiarata infondata, quindi con un giudizio nel merito delle censure proposte.

Il Tribunale ordinario di Genova ha prospettato plurimi dubbi di legittimità costituzionale del solo art. 3, comma 2, l. n. 18/2015, il quale, abrogando l'art. 5 l. n. 117/1988, ha eliminato il cosiddetto filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria proposta nei confronti dello Stato, facendo richiamo al contenuto delle sentenze della C. cost. n. 468 del 1990 e C. Cost., n. 18/1989, circa il "rilievo" costituzionale del filtro.

Il giudice a quo ha reputato che la disposizione denunciata violerebbe, anzitutto, l'art. 111 Cost., per contrasto con il principio di ragionevole durata del processo. Il meccanismo di “filtro” risponderebbe, infatti, al comune interesse tanto del cittadino, che si ritenga leso, quanto dello Stato, potenziale responsabile, a che l'eventuale inammissibilità della domanda risarcitoria sia dichiarata al più presto e con procedura snella. In assenza di tale meccanismo, i tempi per la pronuncia sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole».

La norma censurata violerebbe, inoltre, l'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della disparità di trattamento e della irragionevolezza. L'abolizione del “filtro”, da essa disposta, contrasterebbe, infatti, con il sempre più diffuso ricorso del legislatore a meccanismi di questo tipo e, in particolare, con l'avvenuta introduzione di «pronunce semplificate di inammissibilità» in rapporto alle impugnazioni ordinarie: istituti, questi ultimi, comparabili all'azione prevista dalla l. n. 117/1988, atteggiandosi essa, spesso, come un «processo sul processo» (il riferimento del rimettente è alle previsioni degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., quanto all'appello, e degli artt. 360-bis e 375, comma 1, nn. 1 e 5, c.p.c., quanto al ricorso per cassazione).

L'intervento abrogativo censurato pregiudicherebbe, inoltre, l'attuazione del giusto processo – così integrando un ulteriore vulnus all'art. 111 Cost. − anche nel giudizio nel quale si assume essersi verificato il fatto dannoso. Imbrigliando immediatamente le azioni di responsabilità inammissibili o palesemente infondate, il meccanismo processuale soppresso svolgerebbe, infatti, una essenziale funzione di tutela della serenità di giudizio del giudice, scongiurando il pericolo della cosiddetta «giurisprudenza “difensiva”», ossia che il giudice abdichi alla propria posizione di terzietà e imparzialità in favore delle decisioni che appaiono per lui meno “rischiose”.

Risulterebbero altresì violati, ad avviso del rimettente, i principi di soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) e di autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.), alla luce delle affermazioni della giurisprudenza costituzionale secondo cui la presenza di un “filtro”, che ponga il giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie, dovrebbe ritenersi indispensabile per la salvaguardia dei corrispondenti valori (i giudici genovesi hanno richiamato a tal proposito le sentenze C. Cost. n. 468/1990, C. Cost. n. 18/1989 e C. Cost. n. 2/1968).

La norma censurata si porrebbe, infine, in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.). In mancanza del meccanismo del “filtro”, infatti, il magistrato sarebbe incentivato ad esercitare la facoltà di intervento nel giudizio risarcitorio prevista dall'art. 6 l. n. 117/1988, non essendo più nettamente distinto l'esame dei profili di ammissibilità della domanda da quello del merito: ciò che, rendendolo parte di quel giudizio, farebbe scattare l'obbligo di astensione nel processo originario ai sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3, c.p.c. In ogni caso, il giudice potrebbe ravvisare i presupposti per un'astensione facoltativa. In conseguenza, la proposizione dell'azione di responsabilità potrebbe costituire indiretto strumento per distogliere la causa dal suo giudice naturale.

Nel giudizio costituzionale vi è stato l'intervento dell'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quanto alla censura circa la violazione dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura, l'Avvocatura dello Stato ha rilevato che, anche alla luce delle precedenti sentenze della Corte Costituzionale richiamate dal giudice rimettete, nell'ordinamento emerge solo la necessità di prevedere adeguate garanzie e limiti nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati, correlate alla peculiarità delle funzioni giudiziarie e alla natura dei relativi provvedimenti, non anche quello dell'imprescindibilità di una fase di valutazione preliminare dell'ammissibilità della domanda risarcitoria indiretta.

Dette garanzie e limiti non mancherebbero nell'attuale assetto normativo, caratterizzato dalla previsione della sola legittimazione passiva dello Stato nell'azione risarcitoria, con esclusione dell'azione diretta verso il magistrato; dalla previsione di un termine di decadenza (ora triennale) per la proposizione dell'azione, inferiore a quello quinquennale valevole per tutti gli altri dipendenti pubblici, e di uno ancora più breve (biennale) per l'azione di rivalsa; dall'onere, per il danneggiato, di esperire preventivamente tutti i rimedi impugnatori avverso il provvedimento che si assume dannoso; dalla previsione di rigidi presupposti sostanziali che delimitano l'àmbito della colpa grave e di un tetto massimo (pari alla metà dello stipendio annuo) alla eventuale condanna del magistrato in sede di rivalsa.

La questione riferita all'art. 25 Cost. sarebbe, infine, inammissibile per difetto di rilevanza, essendo argomentata con il riferimento all'astratta possibilità che il magistrato sia indotto a spiegare intervento volontario nella causa risarcitoria con maggiore frequenza che non in passato: evenienza che non risulta, tuttavia, essersi concretamente verificata nel giudizio a quo. Lo stesso rimettente, d'altra parte, condivide la tesi secondo cui la proposizione dell'azione di responsabilità non comporta alcun obbligo di astensione del magistrato e, correlativamente, non ne consente la ricusazione.

La questione risulterebbe, comunque sia, infondata nel merito, posto che, in nessun caso, l'esercizio dell'azione risarcitoria potrebbe costituire strumento per sottrarre la causa al giudice naturale. Seguendo il ragionamento del rimettente, d'altronde, anche nella vigenza del filtro una situazione come quella ipotizzata (intervento del magistrato e richiesta di astensione) si sarebbe potuta parimente verificare.

La sentenza della Corte Cost. n. 164/2017

Nell'ampia ed articolata motivazione la Corte costituzionale, con la sentenza C.Cost., 3 aprile 2017 (dep. il 12 luglio 2017), n. 164, rammenta in via preliminare come un forte stimolo alla riforma operata dalla l. n. 18 del 2015 sia venuto proprio dai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all'obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell'Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla l. n. 117/1988 sono state ritenute incompatibili (C.G.UE, grande sezione, sent. 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo Spa), tanto da dar luogo all'apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (C.G.UE, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana).

Nel contesto di tale indirizzo giurisprudenziale, la Corte costituzionale evidenzia che risultano affermati tanto il principio di equivalenza quanto il principio di effettività, i quali così assurgono a cardini necessari di ogni diritto nazionale in tema di responsabilità dello Stato per le conseguenze del danno provocato da provvedimenti giurisdizionali adottati in violazione del diritto europeo.

Il principio di equivalenza − secondo denominazione propria ed originale della Corte di giustizia – postula che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato, per la responsabilità civile in esito alla violazione del diritto europeo per mezzo di provvedimento giurisdizionale, non possono essere «meno favorevoli» di quelle riguardanti analoghi reclami di natura interna, vale a dire delle altre “normali” azioni risarcitorie esercitabili dai cittadini nei confronti dello Stato in altre e diverse materie.

Il principio di effettività esige, poi, che i meccanismi procedurali del diritto nazionale non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.

Fatta questa premessa la sentenza in commento entra nel cuore delle questioni, affermando che « [...] tali principi − pur se non immediatamente e specificamente pretensivi dell'abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità” contemplato dall'art. 5 l. n. 117 del 1988 – hanno rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo inevitabilmente per ispirare e permeare l'intervento riformatore, sul punto, della l. n. 18 del 2015. Al riguardo, il legislatore ha ritenuto che, per un verso, l'azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per altro verso, che l'esperienza applicativa della l. n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l'effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato. [...] Come più volte affermato da questa Corte, nella materia in esame occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia (C. Cost., 14 marzo 1968 n. 2); dall'altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità della magistratura, in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni (C. Cost., 3 febbraio 1987 n. 26)».

Ad avviso dei giudici costituzionali tale bilanciamento è stato salvaguardato anche dalla l. n. 18/2015, fondamentalmente tramite una più netta divaricazione tra la responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato − che le istituzioni europee chiedevano con forza di espandere − e la responsabilità civile del singolo magistrato. Il Legislatore della riforma avrebbe cioè mirato a superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di responsabilità dello Stato e del magistrato e, in tale prospettiva, ha quindi ampliato il perimetro della prima a prescindere dai confini, più ristretti, della seconda, così stemperando il meccanico ed automatico effetto dell'accertamento della responsabilità dello Stato sul magistrato nel giudizio di rivalsa. In tale cornice si collocherebbe quindi la scelta legislativa discrezionale di abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità”, che non è perciò sindacabile se non nei limiti della sua palese irragionevolezza.

Riassuntivamente la Corte Costituzionale conclude affermando che: «Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell'ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la l. n. 18/2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell'azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due àmbiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l'abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla ‘serenità del giudice' come pure la temuta deriva verso una ‘giurisprudenza difensiva', ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l'elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale»

È altresì dichiarata infondata la censura dell'art. 3, comma 2, l. n. 18/2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e di quello principale – agevolata dall'eliminazione del filtro di ammissibilità – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o all'astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse nel giudizio intentato nei confronti dello Stato.

A tal fine la Corte costituzionale ritiene sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2014, n. 16627), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Cass. civ, Sez. Un., sent. 23 giugno 2015, n. 13018 – neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi sarebbe, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

In conclusione

La sentenza della Corte costituzionale, al di là dell'approfondita esamina di tutte le questioni sollevate dal tribunale di Genova, offre un'interpretazione riduttiva della riforma apportata dalla l. n. 18/2015, e ciò appare forse necessario per giustificare il mutamento di opinione avvenuto rispetto ai precedenti di cui alle sentenze C. Cost. 18 gennaio 1989 n. 18 e C. Cost., 22 ottobre 1990 n. 468, in cui si enunciò l'assunto della “ indispensabilità” di un filtro a garanzia della indipendenza ed autonomia della funzione giudiziaria.

Ovviamente questo mutamento si spiega in ragione del notevole tempo trascorso dalle predette pronunce ed in considerazioni delle sopravvenute decisioni della Corte di giustizia UE, anche se in verità esse non riguardavano nello specifico la presenza del filtro di ammissibilità alle azioni intentate contro lo Stato.

In altri termini la Corte Costituzionale è sembrata per certi versi condizionata da ragioni “politiche”, ossia dalla diversa considerazione nei confronti della magistratura che si è sviluppata nel corso dei decenni e che ha portato alla riforma della legge Vassalli (molto più protettiva nei confronti dell'attività giudiziaria), tant'è che tra le sue argomentazioni più forti vi è quella di rispettare la discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza, lasciando al tempo la verifica se l'attuazione della riforma porterà ad un abuso dell'azione risarcitoria, con tutte le conseguenze paventate dal giudice genovese .

Dal punto di vista strettamente giuridico quindi la Corte poteva giungere, senza grande sforzo, ad una conclusione opposta, proprio partendo dalle considerazione espresse nei suoi precedenti giurisprudenziali.

Va infine detto che sulle altre censure della l. n. 18/2015 riguardanti l'ampliamento delle ipotesi di colpa grave al travisamento del fatto o delle prove, nonché la diversa ed equivoca riformulazione della clausola di salvaguardia dell'attività di interpretazione delle norme da parte del magistrato, la Corte Costituzionale non è entrata nel merito dichiarando inammissibili le relative questioni di legittimità costituzionali. Per cui non è escluso che vi potranno essere in futuro nuove eccezioni di incostituzionalità sulla portata applicativa della legge di riforma, magari sollevate nel corso di qualche giudizio promosso con finalità ritorsive nei confronti del magistrato.

Guida all'approfondimento

F.BONACCORSI, La nuova legge sulla responsabilità civile dello Stato per illecito del magistrato, in Danno e resp., 2015, fasc.5, pag.445 ss.;

F.DAL CANTO, La riforma della responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato : alla ricerca di un equilibrio difficile, in Quaderni cost., 2015, fasc.2, pag. 405-408;

L.LA GRECA, La responsabilità civile dei magistrati . Prime riflessioni a margine della recente riforma, in Arch.pen., 2015, fasc.2 web;

G.MARRA, Responsabilità civile dei magistrati : sollevata la questione di incostituzionalità dell'esclusione del filtro di ammissibilità “, Milano, 13/06/2016;

R.ROMBOLI, Una riforma necessaria o una riforma punitiva ?, in AA.VV., La nuova responsabilità civile dei magistrati, in Foro It., 2015, V, pag. 348.

(FONTE: www.ilpenalista.it)

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