La casalinga, riduzione di capacità lavorativa e danno patrimoniale: tra onere probatorio e criteri di liquidazione

07 Gennaio 2015

Il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che - come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale, e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca ha l'onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale.
Massima

Cass. civ., sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25726

Il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che - come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale, e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca ha l'onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale.

Sintesi del fatto

A seguito di un incidente stradale, Tizia subisce lesioni alla propria salute che a suo dire hanno ricadute negative sulla propria capacità lavorativa di casalinga. I giudici di merito – con statuizione confermata dalla Corte di Cassazione – rigettano la domanda ritenendo la stessa sprovvista di prova, non avendo Tizia provato la perdita di occasioni lavorative quale conseguenza della lamentata lesione ovvero l'impedimento del lavoro domestico e l'esecuzione dello stesso con modalità più gravose.

In motivazione

“Il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che - come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale, e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca ha l'onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale”.

La questione

La questione in esame è la seguente: lesione alla salute subita dalla casalinga che riverbera conseguenze sulla capacità di lavoro costituisce una voce di danno patrimoniale ovvero di danno non patrimoniale, e su chi incombe l'onere della prova?

La soluzione giuridica

La pronuncia in commento segna il definitivo tramonto dell'epoca in cui il danno alla casalinga veniva liquidato quale danno biologico, generalmente con un appesantimento del valore del punto tabellare, mentre, in precedenza, un indirizzo più restrittivo negava ogni rilievo al lavoro domestico nel campo della responsabilità civile.

Nell'ultimo decennio, grazie anche all'intervento delle Sezioni Unite di San Martino, l'attenzione, con riferimento al danno patrimoniale si è focalizzata sulla incidenza della invalidità sulla futura attività lavorativa e, con riferimento alla casalinga, sulla maggiore difficoltà o impossibilità di svolgere l'attività domestica, ripudiando ogni automatismo tra percentuale invalidante e danno patrimoniale.

Il nuovo corso del danno patrimoniale ritiene, con orientamento consolidato, che trattasi di danno patrimoniale che ha la funzione di ristorare la differenza tra il patrimonio della persona prima e dopo l'illecito.

La perdita della capacità lavorativa della casalinga, sia temporanea che permanente, deve essere dimostrata sia pure per presunzione, dovendosi dare prova del danno lamentato su circostanze di valenza oggettiva e comunque certa, desumibili eventualmente anche dalla relazione di CTU, fornendo anche la prova di aver sopportato e di dover sopportare esborsi per far fronte alle incombenze domestiche.

In caso di esiti permanenti residuati alla lesione della salute, occorre dimostrare che tali esiti impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale (Cass. n. 23573/2011; Cass. n. 16392/2010).

Invero, in caso di illecito lesivo della integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine alla attività lavorativa da parte di un soggetto, è legittimamente risarcibile come danno biologico - nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato - con la conseguenza che la anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale, che andrà, invece, autonomamente liquidato qualora alla detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica, che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno (Cass. n. 25289/2009).

La capacità lavorativa specifica consiste, dunque, nella contrazione (attuale o potenziale) dei redditi dell'infortunato, determinata dalle lesioni subite, sussistendo quest'ultimo tipo di pregiudizio allorquando, dopo la lesione ed a causa di essa, la vittima non sia più in grado di percepire il medesimo reddito di cui godeva prima del sinistro; ovvero - nel caso in cui non fosse percettore di reddito - non possa più aspirare ad ottenere quel livello reddituale che avrebbe verosimilmente raggiunto in assenza della lesione; ovvero, infine, nel caso cui alleghi e dimostri - con probabilità non trascurabile - che, a causa del sinistro subito, abbia perduto la possibilità di conseguire un risultato favorevole sperato ed impedito dalla condotta illecita subita (Cass. n. 21014/2007; Cass. n. 13409/2001; Cass. n. 10289/2001).

La giurisprudenza consolidata della S.C. reputa poi che il diritto al risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica non sorge al solo verificarsi di una lesione della salute di non modesta entità, essendo anche necessario che il lavoratore danneggiato fornisca la prova idonea a dimostrare che la lesione conseguente all'evento dannoso ha prodotto una contrazione effettiva del suo reddito. Tra la lesione della salute e la diminuzione della capacità di guadagno non sussiste infatti alcun rigido automatismo (Cass. n. 18866/2008; Cass. n. 17397/2007; Cass. n. 12463/2012, in tema di risarcimento danni a seguito di sinistro, non può farsi discendere in modo automatico dall'invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, atteso che tale danno deriva solo da una lesione che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. Detto danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse - o presumibilmente in futuro avrebbe svolto - un'attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l'infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell'infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte).

Pertanto, viene ribadito, che il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall'accertamento dell'invalidità permanente, poiché esso sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica, essendo imposta la prova, anche tramite presunzioni, dello svolgimento di un attività produttiva di reddito e di perdita, dopo l'infortunio, della capacità di guadagno rispetto a tale attività ovvero della capacità, anche generica, di attendere ad altri lavori confacenti alle attitudini del danneggiato.

In altri termini, la liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un'automatica conseguenza dell'accertata esistenza di lesioni personali, ma esige che sia verificata la attuale o prevedibile incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima (Cass. n. 4493/2011)

La prova del danno, consistente nella lesione della capacità di lavoro della casalinga, deve riguardare, anzitutto, lo svolgimento di detta attività da parte della persona danneggiata prima dell'incidente, nell'ambito della vita domestica familiare e detta prova deve ritenersi sufficiente a legittimare il relativo risarcimento del danno se supportata dalla prova della perdita o riduzione della corrispondente capacità lavorativa.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

La soluzione offerta dai giudici di legittimità è certamente convincente dal momento che la riduzione della capacità lavorativa non costituisce, infatti, un danno di per sé (danno - evento), ma rappresenta una causa del danno da riduzione del reddito (danno - conseguenza); sicché la prova della riduzione della capacità di lavoro non comporta automaticamente l'esistenza del danno patrimoniale, ove il danneggiato non dimostri, anche a mezzo di presunzioni semplici, la conseguente riduzione della capacità di guadagno. Il danno da perdita di capacità lavorativa specifica, ben lungi dal costituire danno "in re ipsa", va pertanto allegato e provato nell' "an" e nel "quantum" (sia pure a mezzo di presunzioni semplici) da parte del danneggiato (Cass. n. 15031/2008).

Sul punto, deve condividersi l'insegnamento a mente del quale nell'attuale ordito normativo, il diritto al risarcimento del danno non riveste natura punitiva, ma deve essere correlato alla prova del concreto pregiudizio economico asseritamente subito dal danneggiato: anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e, tanto meno, alla sua entità materiale; l'affermazione del danno in re ipsa si riferisce, dunque, esclusivamente all'an debeatur, che presuppone soltanto l'accertamento d'un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l'id quod plerumque accidit, onde permane la necessità della prova d'un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non è precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate (Cass. n. 15814/2008).

Invero, il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., configura non un giudizio d'equità ma un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, ond'è che non solo è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare (cosa non certamente ricorrente nella odierna fattispecie, per come si dirà appresso), come desumibile dalle citate norme sostanziali, ma non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, anzi, al contrario, presuppone già assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo, l'onere su di essa incombente ex art. 2697 c.c., di dimostrare sia la sussistenza sia l'entità materiale del danno, così come non la esonera dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell'iter della precisa determinazione dell'equivalente pecuniario del danno stesso.

Soltanto nei casi in cui l'elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica e il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all'accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi (Cass. n. 17514/2011).

Sommario