Esecuzione forzata ed equa riparazione per l’eccessiva durata dei processi: le Sezioni Unite si conformano, ma solo in parte, alla giurisprudenza della Corte europea

Rosaria Giordano
07 Maggio 2014

In tema di equa riparazione, allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva e obbligatoria (c.d. fase processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato e il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto (c.d. fase processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza), la garanzia costituzionale d'effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6, par. 1, C.E.D.U. impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito da fasi consequenziali e complementari. (Massima ufficiale).
Massima

Cass. civ., S.U., sent., 19 marzo 2014, n. 6312

In tema di equa riparazione, allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva e obbligatoria (c.d. fase processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato e il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto (c.d. fase processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza), la garanzia costituzionale d'effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6, par. 1, C.E.D.U. impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito da fasi consequenziali e complementari. (Massima ufficiale).

Sintesi del fatto

Tizio otteneva dalla Corte d'Appello di Firenze, in data 11 dicembre 2006, (App. Firenze 11 dicembre 2006) decreto di condanna dello Stato al pagamento di un indennizzo a titolo di equa riparazione per l'irragionevole durata di un processo del quale era stato parte.

Stante il persistente inadempimento dell'Amministrazione rispetto a tale obbligazione di pagamento, il ricorrente incardinava, quindi, procedimento di espropriazione presso terzi che si concludeva soltanto, mediante ordinanza di assegnazione, in data 23 dicembre 2008.

Considerato che erano trascorsi circa due anni dall'emanazione del decreto di condanna ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per ottenere concreta soddisfazione del diritto all'equa riparazione riconosciuto in sede di cognizione, Tizio adiva nuovamente la Corte di Appello di Firenze proponendo ricorso fondato sulla medesima legge Pinto in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento con conseguente necessità di incardinare un procedimento di esecuzione forzata volto ad ottenere concreta soddisfazione del proprio diritto all'indennizzo correlato all'eccessiva durata del giudizio presupposto.

Peraltro, la Corte di Appello di Firenze rigettava tale ricorso sull'assunto per il quale "... la domanda di equa riparazione l. n. 89 del 2001, ex art. 3, può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole ai sensi dell'art. 6, par. primo, della Convenzione. La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere ...".

Le questioni

Proposto da Tizio ricorso per cassazione avverso tale decisione, la VI sezione civile della Corte di Cassazione, mediante l'ordinanza interlocutoria 3 ottobre 2012, n. 16826, rimetteva alle Sezioni Unite la questione, ritenuta questione di massima di particolare importanza ex art. 374, comma 2, c.p.c., se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d'appello ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3, ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione.

Su un piano più generale, la questione viene inoltre posta alle Sezioni Unite se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto.

Le soluzioni giuridiche

Con riguardo alla problematica dei rapporti tra processo di cognizione e procedimento esecutivo (ovvero di ottemperanza in relazione alle posizioni giuridiche soggettive fatte valere nel giudizio amministrativo), sino all'intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la decisione in commento, la giurisprudenza di legittimità aveva ormai più volte ribadito il principio per il quale in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo deve essere identificato, in base all'art. 6 CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere, che, per effetto della suddetta norma sovranazionale, sono "diritti e obblighi", ai quali, avuto riguardo agli art. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile e quello cognitivo del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza teso a far conformare la pubblica amministrazione a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale (oltre che strutturale), tra loro autonomi, in relazione, appunto, alle situazioni soggettive differenti azionate in ciascuno di essi. La S.C. riteneva che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non potessero sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi, di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro (cfr., per tutte, Cass. civ., S.U., sent., 24 dicembre 2009, n. 27365, in Guida al dir., 2010, n. 7, 42, con nota di PIRRUCCIO).

Tale soluzione, peraltro, non appariva coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla questione.

Invero, da lungo tempo la Corte di Strasburgo ha chiarito che la garanzia dell'equo processo riconosciuta dall'art. 6 CEDU sarebbe meramente teorica ed illusoria se l'ordinamento interno di uno Stato contraente consentisse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria resti inefficace in danno di una parte. In sostanza, l'effettività del diritto alla tutela giurisdizionale postula non soltanto l'accertamento del diritto in sede cognitiva quanto, altresì, la concreta soddisfazione dello stesso, ove necessario, mediante l'esecuzione forzata (v. già Corte europea dei diritti dell'uomo, sent., 29 luglio 1999, Immobiliare Saffi c. Italia; Corte europea dei diritti dell'uomo, sent., 29 luglio 1999, Hornsby c. Grèce). In sostanza, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo il processo deve essere considerato “unico”, sia nella fase cognitiva che in quella di esecuzione eventualmente necessaria per ottenere concreta soddisfazione del medesimo diritto accertato, ai fini della determinazione della durata del processo.

Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite rivedono, almeno rispetto a tale questione generale, il proprio pregresso orientamento, conformandosi ai principi enunciati dalla Corte di Strasburgo.

Infatti, la S.C., richiamandosi anche alle decisioni della Corte Costituzionale sul principio di effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost., riconoscono che “in tema di equa riparazione, allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria (c.d. fase processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato e il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto (c.d. fase processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza), la garanzia costituzionale d'effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6, par. primo, C.E.D.U. impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito da fasi consequenziali e complementari”.

Peraltro le Sezioni Unite si fermano qui, nel senso che decidono invece di aderire all'impostazione del decreto impugnato in ordine alla più specifica questione relativa all'impossibilità di ritenere rimedio interno volto a denunciare l'irragionevole durata del procedimento volto all'esecuzione del diritto all'equa riparazione riconosciuto in sede cognitiva, sull'assunto in forza del quale l'art. 2, comma 1, legge 24 marzo 2009, n. 81 c.d. Pinto non prevederebbe anche la tutela del diritto alle decisioni interne esecutive. Secondo le Sezioni Unite tale limitazione costituisce una scelta legittima del legislatore ed ha l'unico effetto di consentire al ricorrente insoddisfatto di proporre le proprie doglianze direttamente dinanzi alla Corte di Strasburgo.

Osservazioni e suggerimenti pratici

La pronuncia in commento deve essere considerata avendo riguardo alla genesi “europea” della legge 24 marzo 2001, n. 89.

E' noto, infatti, che prima dell'emanazione della legge c.d. Pinto, ossia del rimedio interno volto a far valere l'equa riparazione dei danni da irragionevole durata dei processi, erano stati proposti molteplici ricorsi, specie da cittadini italiani, dinanzi alla Corte di Strasburgo per denunciare la violazione dell'art. 6 CEDU, in tema di equo processo, per il mancato rispetto della garanzia della ragionevole durata del processo. Poiché tale situazione stava rendendo molto gravoso per la stessa Corte europea decidere una mole crescente di ricorsi, mediante la pronuncia resa dalla Gran Camera il 26 ottobre 2000 nell'affaire Kudla c. Pologne è stato chiarito che, qualora uno Stato contraente della CEDU non abbia introdotto al proprio interno uno specifico rimedio per lamentare l'eccessiva durata dei processi, ciò è in contrasto con l'art. 13 CEDU, a tenore del quale “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettiva davanti ad un'istanza nazionale”. Quindi la Corte europea, nel suffragare con la richiamata sentenza la più recente concezione di carattere “positivo” del principio di sussidiarietà, aveva di fatto “invitato” anche l'Italia a prevedere nell'ambito del proprio sistema giudiziario un mezzo di ricorso per lamentare specificamente la violazione dell'art. 6 CEDU sotto il profilo dell'eccessiva durata dei processi.

In considerazione di quanto evidenziato, è certamente apprezzabile la decisione in esame nella parte in cui finalmente riconosce, in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che il procedimento di esecuzione forzata volto ad ottenere concreta soddisfazione del diritto riconosciuto nel processo di cognizione costituisce una fase complementare del primo e ciò, evidentemente, anche per il computo della durata ragionevole del processo stesso.

Al contrario, anche alla luce dell'esperienza concreta da diverse successive pronunce di condanna in sede europea nei confronti dell'Italia tutte le volte che la legge Pinto era applicata in modo ineffettivo rispetto alle modalità di tutela del diritto alla ragionevole durata del processo secondo l'elaborazione della Corte di Strasburgo, desta perplessità la seconda parte della pronuncia in commento laddove assume che il diritto riconosciuto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, non sia anche “l'autonomo diritto all'esecuzione delle decisioni interne definitive”.

Tale affermazione ed il postulato secondo cui tale autonomo diritto potrebbe essere fatto valere, ove violato, direttamente dinanzi alla Corte europea, “saltanto” il rimedio interno previsto dalla legge Pinto stride, in una direzione opposta a quella della prima parte della stessa pronuncia in esame, con il consolidato orientamento della S.C. secondo cui il diritto all'equa riparazione, riconosciuto dall'art. 2, l. 24 marzo 2001 n. 89 per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, è configurabile anche in relazione ai procedimenti di esecuzione forzata (Cass. civ., sez. I, sent., 4 aprile 2003, n. 5265, in Giust. Civ., 2003, I, 892), in quanto il diritto di ogni persona a che "la sua causa sia esaminata.. in un tempo ragionevole", attribuito sia dall'art. 6, comma 1, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, richiamato già dall'art. 2, comma 1, l. 24 maggio 2001 n. 89, sia dall'art. 111 Cost., consiste nella garanzia di ottenere, in un tempo ragionevole, concreta soddisfazione in giudizio delle proprie ragioni ovvero contezza dei motivi per cui queste non debbano essere accolte. Consegue a tale impostazione che il diritto all'equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi della citata legge n. 89 del 2001, è configurabile anche in relazione al procedimento di esecuzione ed ai fini della sua insorgenza viene in rilievo il tempo occorso per l'attività di qualsiasi organo dello Stato, oggettivamente incidente sulla definitiva risposta, in termini di effettività, alla domanda di giustizia del cittadino (Cass. civ., sez. I, sent., 6 ottobre 2005, n. 19435).

Né può trascurarsi che la tesi oggi affermata dalle Sezioni Unite sembra non trovare riscontro, sul piano del diritto positivo, nell'art. 2, comma 2-bis, legge 24 marzo 2009, n. 81 c.d. Pinto, introdotto dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che stabilisce, oltre alla durata da ritenersi comunque ragionevole per il processo di cognizione, anche quella del processo di esecuzione, individuandola in tre anni. E' evidente, difatti, che, sebbene tale distinzione si fondi sul pregresso orientamento giurisprudenziale che postulava l'autonomia tra tali giudizi ai fini del riconoscimento dell'equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo, tuttavia conferma il dato, mai posto in discussione, per il quale la legge 24 marzo 2001, n. 89, tutela anche il diritto ad un'esecuzione in tempi ragionevoli delle decisioni interne definitive.

Peraltro, non sarebbe ragionevole ipotizzare una soluzione diversa per l'ipotesi in cui questa decisione interna definitiva, tardivamente attuata per il mancato adempimento spontaneo dell'Amministrazione e la necessità di incardinare un procedimento esecutivo, sia la pronuncia di condanna all'equa riparazione.

Comunque sia, a fronte dell'orientamento affermato dalle Sezioni Unite, la soluzione pratica per il ricorrente è quella di denunciare tale irragionevole durata direttamente dinanzi alla Corte di Strasburgo, denunciando l'inesistenza, almeno in forza dell'interpretazione fornita dalla S.C., di un rimedio interno.

Conclusioni

A nostro sommesso parere, in ragione delle considerazioni già esposte, è molto probabile che la Corte europea dei diritti dell'uomo ritenga almeno il principio oggi sancito dalla Sezioni Unite nel senso dell'impossibilità di agire ai sensi della legge c.d. Pinto per denunciare la ritardata esecuzione di decisioni interne esecutive contrario all'art. 6 CEDU, ed in particolare proprio al principio di effettività della tutela giurisdizionale, suggerendo, per evitare ulteriori condanne dello Stato, un'interpretazione “conforme” alla Convenzione, interpretazione peraltro già invalsa nella giurisprudenza precedente e coerente con la stessa formulazione letterale della legge Pinto, specie dopo l'intervento della legge n. 134/2012.