La lucida agonia del danno tanatologico in attesa delle Sezioni Unite

09 Aprile 2015

Con la sentenza n. 1361/2014 (c.d. "sentenza Scarano") la Cassazione, in consapevole contrasto con il consolidato precedente indirizzo, ha riconosciuto il risarcimento del danno da perdita della vita, c.d. "danno tanatologico". La questione è stata subito rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione, ma da molti mesi se ne attende ancora la decisione. In questo Focus l'Autore, in primo luogo, distingue questa nuova voce di danno non patrimoniale dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale o "catastrofale"; quindi illustra le ragioni giuridiche che, a suo giudizio, ostano al riconoscimento ed alla risarcibilità del danno tanatologico; prospetta, infine, i problemi pratici ed etici per l'allestimento di una tabella di liquidazione del danno tanatologico, ai sensi dell'art. 1226 c.c..
Principi di diritto e motivazione della sentenza Cassazione n. 1361/2014

Con la pronuncia Cass. n. 1361/2014 (c.d. “sentenza Scarano” dal nome dell'estensore), con una dotta motivazione (per lunghezza e citazioni di dottrina e giurisprudenza, più consona alla pubblicazione di un saggio monografico piuttosto che di una sentenza), la Cassazione prende le mosse dalla categoria del danno non patrimoniale che, presentando natura composita, si articola in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d'animo o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell'illecito, ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato). Di tutti questi aspetti, ove ricorrano cumulativamente, occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni.

La sentenza n. 1361/2014 richiama più volte le Sezioni Unite (Cass., sent., 11 novembre 2008, n. 26972 e ss., c.d. sentenze di San Martino) che hanno (tra l'altro) riconosciuto la risarcibilità della «sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo», quale «danno morale inteso nella sua nuova più ampia accezione», altrimenti indicato come danno da lucida agonia o catastrofale o catastrofico.

Si considera, dunque, catastrofale il «danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona sopravvissuta per un lasso di tempo apprezzabile in condizioni di lucidità tali da consentirle di percepire la gravità della propria condizione e di soffrirne» (v. Cass., sent. n. 7126/2013). Piuttosto che al decorso di un apprezzabile intervallo di tempo tra l'evento lesivo e la morte, decisivo rilievo risulta assegnato alla sofferenza psichica e alla disperazione, di «massima intensità», che provoca la percezione, pur se di breve durata, dell'approssimarsi della propria morte, la «sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l'agonia, in consapevole attesa dellafine» (v. Cass., sent. n. 458/2009, n. 8360/2010, e n. 4783/2001).

Dal danno catastrofale va tenuto distinto il danno biologico terminale, il quale si ha allorquando la vittima sia sopravvissuta «per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale» ed abbia in tale periodo « sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico (...), quindi accertabile con valutazione medicolegale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio» (v. Cass., sent. n. 7126/2013).

La sentenza n. 1361/2014 evidenzia che in dottrina si è al riguardo criticamente osservato che il riferimento ai «danni terminali (biologico, morale o da "lucida agonia")» costituisce il «frutto» di «acrobazie logiche e concettuali», e di «intenzioni sostanzialmente compensative della totale assenza di risarcimento per la perdita della vita» (v., da ultimo, la citata sent. n. 7126/2013).

Secondo la sentenza n. 1361/2014, la tesi che nega la risarcibilità di quest'ultimo danno sul presupposto dell'assenza di capacità giuridica della vittima al momento del decesso,si profila «carente laddove non considera che al momento della lesione mortale la medesima è ancora in vita, ed è in tale momento che acquista il diritto al risarcimento (principio rispondente, secondo alcuni, al brocardo momentum mortis vitae tribuitur)».

La sentenza ricorda che un fondamentale principio dalle citate Sezioni Unite del 2008 posto a base, quale assioma o postulato, dell'argomentare è che solamente il danno conseguenza è risarcibile, non anche il danno evento.

E tuttavia, per la Cassazione sent. n. 1361/2014, questo principio «non appare di per sé idoneo ad escludere la ristorabilità del danno da perdita della propria vita. Tale perdita non ha invero, per antonomasia, conseguenze inter vivos per l'individuo che appunto cessa di esistere, ma ciò non può e non deve tuttavia condurre a negarne in favore del medesimo il ristoro, giacché la perdita della vita, bene supremo dell'uomo e oggetto di primaria tutela da parte dell'ordinamento, non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico».

Secondo la Cassazione, infatti, negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita significa determinare una situazione effettuale che in realtà rimorde alla coscienza sociale, in ossequio ad una sorta di «gabbia interpretativa» inidonea a consentire di pervenire a legittimi risultati ermeneutici, rispondenti al comune sentire sociale dell'attuale momento storico.

I rimedi approntati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che ricorrono al presupposto del «lasso di tempo non trascurabile» o al criterio dell'intensità della sofferenza, apparirebbero pertanto meri escamotages interpretativi per superare le iniquità scaturenti proprio dalla negazione del risarcimento del danno da perdita della vita.

«La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento né il criterio dell'intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine. Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito non ne avesse causato la soppressione. Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis (cfr. Cass., 3 ottobre 2013, n. 22601), non patrimoniale essendo il bene protetto (la vita), e non già il diritto al ristoro della relativa lesione (…) Alla stregua di quanto sopra osservato in ordine alle incongruenze e agli aspetti ingiustificatamente discriminatori che (così come quella del danno biologico terminale) la figura del danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) prospetta (si pensi, ad esempio, con riferimento all'ipotesi di aereo dirottato da terroristi e lanciato verso un preannunziato attacco terroristico, al differente trattamento della vittima inconsapevole, in quanto affetta da malattia o perché neonata, cui essa conduce rispetto alla vittima rimasta viceversa lucidamente in attesa dell'evento mortale), e a fortiori della segnalata diversità dell'oggetto del bene vita, la perdita della vita deve ritenersi dunque di per sé ristorabile in favore della vittima che la subisce, irrilevanti al riguardo invero essendo sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento che il criterio dell'intensità della sofferenza della vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine».

La rimessione della questione alle Sezioni Unite

Con ordinanza del 4 marzo 2014, n. 5056, in considerazione di un evidente contrasto giurisprudenziale di legittimità, la questione della risarcibilità del danno tanatologico è stata rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione.

Più esattamente, ritengo che al vaglio delle Sezioni Unite sono state poste tutte le questioni trattate nella “sentenza Scarano”: i presupposti necessari per la risarcibilità iure hereditario (in favore quindi degli eredi e non necessariamente degli stretti congiunti della vittima primaria):

  • del danno biologico terminale e del danno catastrofale, con particolare riferimento alla durata del lasso di tempo intercorrente tra la lesione e la morte, alla necessità o meno della lucida agonia della vittima in consapevole attesa della morte;
  • del danno da perdita del bene vita ed (in particolare) allorquando il decesso sia immediata conseguenza della lesione o si verifichi dopo un breve (ma eventualmente anche considerevole) lasso di tempo, ma in assenza di coscienza della vittima.

Su tutte le questioni poste all'attenzione delle Sezioni Unite, a mio giudizio, non sussistono valide ragioni per mutare il pregresso e consolidato indirizzo giurisprudenziale.

Il danno biologico terminale e il danno catastrofale

Anche le Sezioni Unite di San Martino hanno condiviso la nozione di danno biologico, come danno conseguente alla lesione del diritto inviolabile della salute, nell'accezione normativa di cui agli artt. 138 e 139 del Cod. Ass., secondo cui «per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito».

Per la Cassazione (v., da ultimo, sent. n. 15491/2014), nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell'integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso. Tale danno, qualificabile come danno "biologico terminale", dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile "iure hereditatis", da commisurare soltanto all'inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte. «L'ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva».

Per quanto attiene al c.d. danno catastrofale le citate sentenze di San Martino così statuivano: «Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine».

Anche recentemente la Cassazione ha affermato che, in caso di illecito civile che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto "catastrofale" conseguente alla sofferenza dalla stessa patita a causa delle lesioni riportate nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita, deve comunque includersi nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto (v. la citata Cass., sent. n. 7126/2013, in cui la fattispecie concreta riguarda un decesso dopo 9 ore dall'incidente in stato di lucidità). Tale danno catastrofale è diverso sia da quello cosiddetto "tanatologico", ovvero connesso alla perdita della vita, sia da quello rivendicabile "iure hereditatis" dagli eredi della vittima dell'illecito per avere quest'ultima sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica, costituente un autonomo danno "biologico" accertabile con valutazione medico-legale.

Sia pure con diverse parole, anche nella sentenza Cass. n. 19133/2011, si afferma che, quando all'estrema gravità delle lesioni segua dopo un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni) la morte, non può essere risarcito il danno biologico "terminale" connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull'intensa sofferenza d'animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro.

Le seguenti sentenze evidenziano che, per poter trasmettere il danno in esame agli eredi, è necessario che la vittima sia vigile e cosciente:

  • in caso di morte della vittima a poche ore di distanza dal verificarsi di un sinistro stradale (nella specie, sei o sette ore), il risarcimento del c.d. danno "catastrofale" - ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita - può essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte. Nell'ipotesi in cui la vittima sia stata in coma «non v'è dunque spazio per il risarcimento del danno cosiddetto "catastrofale", il quale presuppone la consapevolezza in capo alla vittima dell'imminenza della morte o della gravissima entità delle lesioni» (Cass., sent. n. 6754/2011);
  • la paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni (Cass., sent. n. 13537/2014: nella fattispecie, la vittima decedette 12 giorni dopo un sinistro per una fibrillazione ventricolare conseguente all'incidente, ma imprevedibile; pertanto la vittima «non attese lucidamente la propria morte», per il semplice fatto che non poteva prevedere che a causa della contusione sternale sarebbe morta).

Non si può infine escludere che le due esaminate fattispecie del danno biologico terminale e di quello catastrofale possano anche concorrere e dar luogo ad una personalizzata liquidazione del danno.

Recentemente, infatti, la Cassazione (sent. n. 23183/2014) ha affermato che, in caso di sinistro mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro che tenga conto della "enormità" del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (nella specie la S.C. ha respinto il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva liquidato in via equitativa, quale danno biologico terminale patito dalla vittima, rimasta in vita 7 giorni, la somma di euro 2.500,00 "pro die").

Le ragioni dell'inesistenza (prima ancora della risarcibilità) del danno tanatologico

1) Irrilevanza del "diritto alla vita" ex art. 2 Carta di Nizza

In primo luogo credo che, ai fini del diritto al risarcimento, non sia rilevante l'univoca “copertura costituzionale” del diritto alla vita.

Infatti l'art. 2 Cost. e l'art. 2 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall'Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190) solennemente danno atto che «Ogni individuo ha diritto alla vita».

Il diritto alla vita è certamente un diritto inviolabile (come quello alla dignità umana ed alla integrità psico-fisica), ma è di tutta evidenza che, nell'ipotesi di lesione del diritto alla vita, le nostre Carte costituzionali non prendono posizione su quali siano i soggetti legittimati (attivi e passivi) nel successivo giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno consequenziale; in altre parole lasciano al diritto interno dei singoli Stati stabilire i presupposti ed i criteri di risarcimento del danno da morte, in favore degli eredi e/o dei prossimi congiunti.

Non è dunque in discussione la (pacifica) sussistenza del diritto alla vita e la tutela dell'individuo per preservare questo diritto, bensì (ed innanzitutto) su quale soggetto nasca il diritto al risarcimento del danno allorché vi sia stata la lesione (soppressione) del diritto alla vita!

2) Lesione del bene protetto senza danno risarcibile

È assolutamente errato associare l'evento della lesione del bene protetto al danno risarcibile. Si profila un pericoloso rischio di ritorno al passato, allorché i giudici (togati e non) liquidavano il danno non patrimoniale in re ipsa, sulla base del (mero) accertamento della lesione del bene protetto, e tanto più dei diritti della persona, garantiti dalla Costituzione.

Ricordo le seguenti fattispecie di richieste di risarcimento:

  • per (asserito) danno biologico permanente in seguito alla lesione del femore del tetraplegico;
  • per distacco della retina dell'occhio di persona cieca;
  • per la rottura del dente, che la vittima aveva già deciso di far estirpare dal dentista;
  • per la frattura di un arto destinato di lì a poco ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell'ambito di una specifica terapia ossea (questi due ultimi esempi sono menzionati nella sentenza della Cass. n. 20292/2012, ma sulla quale v. i miei rilievi critici in Trib. Milano, sent. n. 2327/2014, pubblicata in Ri.Da.Re.);
  • per la comprovata lesione del diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario (c.d. consenso informato), da cui non sia scaturito un pregiudizio, bensì un miglioramento della salute del paziente (v. Trib. Milano, sent. n. 3520/2005).

In tutte queste ipotesi, solo grazie ad un tormentato percorso giurisprudenziale si è pervenuti alla conclusione della (pressoché) totale inesistenza del danno risarcibile.

3) La sentenza della Corte Costituzionale n. 372/1994

La sentenza della Corte Costituzionale n. 372/1994 (con mirabile sintesi) rigettò, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2043 e 2059 c.c., nella parte in cui non consentono il risarcimento del danno per violazione del diritto alla vita.

Premetteva la Corte Costituzionale che vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritti distinti, sicché la lesione dell'integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio, la quale implica la permanenza in vita del leso con menomazioni invalidanti.

Affermò quindi la Corte Costituzionale che il giudice rimettente non aveva correttamente inteso che la Corte Costituzionale (nella precedente pronuncia Corte. cost., sent. n. 184/1986) laddove qualifica come "presunto" il danno biologico, «identificandolo col fatto (illecito) lesivo della salute, essa intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio-psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. É sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato». Il giudice rimettente avrebbe dovuto chiedersi preliminarmente «se un diritto di risarcimento sia effettivamente entrato nel patrimonio del defunto».

Inoltre, nella diversa ipotesi di lesione dell'integrità fisica immediatamente letale (senza il tramite di una fase intermedia di malattia), l'evento morte dal giudice rimettente viene escluso dagli elementi costitutivi del fatto illecito e annoverato tra i danni conseguenza (l'evento morte, per quanto ravvicinato sia all'evento lesione, non può che porsi ontologicamente, prima che temporalmente, tra le conseguenze del fatto). Ma con ciò (osservava la Corte Costituzionale nella sent. n. 372/1994) «si finisce col dar ragione alla giurisprudenza contraria ad ammettere pretese risarcitorie iure hereditario: giurisprudenza fondata sull'argomento, risalente a una non recente sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., n. 3475/1925), secondo cui un diritto di risarcimento può sorgere in capo alla persona deceduta limitatamente ai danni verificatisi dal momento della lesione a quello della morte, e quindi non sorge in caso di morte immediata, la quale impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita. L'ostacolo a riconoscere ai congiunti un diritto di risarcimento in qualità di eredi non proviene dunque, come pensa il giudice a quo, dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì da un limite strutturale della responsabilità civile: limite afferente sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite. A questo limite soggiace anche la tutela risarcitoria del diritto alla salute, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori della persona inerenti al bene protetto».

4) Le sentenze di San Martino

Successivamente, anche le citate sentenze di San Martino hanno ribadito che «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827/2003 e n. 8828/2003; Cass., n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003».

Ebbene, in mancanza di un argomentato dissenso in seno alla Corte di Cassazione, le Sezioni Unite ritengono di non doversi discostare dal consolidato indirizzo giurisprudenziale «che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita(Cass., sent. n. 1704/1997; Cass., n. 491/1999; Cass., n. 13336/1999; Cass., n. 887/2002; Cass., n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (Cass., sent. n. 6404/1998; Cass., n. 9620/2003; Cass., n. 4754/2004; Cass., n. 15404/2004), ed a questo lo commisura».

5) Irrilevanza del diritto all'integrale risarcimento del danno

In più passaggi la “sentenza Scarano” riprende il leitmotiv del diritto del danneggiato all'integrale risarcimento del danno: «Per essere congruo il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all'integrale risarcimento (v. Cass., 30 giugno 2011, n. 14402; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., 29 marzo 2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz'altro "integrale" v. peraltro Cass., 17 aprile 2013, n. 9231). Si profila altrimenti l'operare dell'istituto del danno differenziale, proprio dei sistemi indennitari e di dubbia compatibilità viceversa con quello della r.c.a., prospettandosi a tale stregua il rischio che vengano a risultare (quantomeno parzialmente) vanificate le ragioni che di quest'ultimo hanno a suo tempo determinato l'introduzione nell'ordinamento. Nell'operare la ricostruzione del sistema dei danni con indicazione delle «regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale» alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. (cfr. Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233), costituente principio informatore della materia, fondamentale rilievo le Sezioni Unite del 2008 hanno assegnato al principio della integralità del risarcimento, sottolineando la necessità che si pervenga a «ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre» (v. Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972). Emerge a tale stregua, da un canto, l'illegittimità dell'apposizione di una limitazione massima non superabile alla quantificazione del ristoro dovuto (v. infra); e, per altro verso, la indefettibile necessità che nessuno degli aspetti di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso concreto accertata, rimanga priva di ristoro, dovendo essere essi presi tutti in considerazione a fini della determinazione dell'ammontare complessivo del risarcimento conseguentemente dovuto al danneggiato/creditore (v. Cass., 30 giugno 2011, n. 14402; Cass., 7 giugno 2011, n. 12273; Cass., 9 maggio 2011, n. 10108; Cass., 6 aprile 2011, n. 7844; Cass., 13 maggio 2011, n. 10527).

Ebbene, per un verso, nella fattispecie del danno tanatologico in esame non si discute se «dare di più», perché (come si è detto) affatto diverse sono le ipotesi dei danni (biologico e/o catasfrofale) terminali subiti dalla vittima primaria prima del decesso e, dunque, non si tratta di "aggiungere" a quelle liquidazioni il ristoro anche del danno da morte: la vittima primaria dal (proprio) decesso non subisce alcun danno e liquidare la perdita della vita comporterebbe proprio l'inammissibile ristoro di un pregiudizio "oltre" il danno effettivamente subito!

Peraltro la Corte Costituzionale, in una recente pronuncia (Corte. cost., sent. n. 235/2014), ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 Cod. Ass. (anche) in relazione al profilo del "limite" che avrebbe posto quella norma all'integrale risarcimento del danno alla persona.

La Corte Costituzionale, dopo aver citato la sentenza di San Martino (Cass., S.U., n. 26972/2008) circa «il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà» (ex art. 2 Cost.), sottolinea che «al bilanciamento – che doverosamente va operato tra i valori assunti come fondamentali dalla nostra Costituzione ai fini della rispettiva, complessiva, loro tutela – non si sottraggono neppure i diritti della persona consacrati in precetti della normativa europea»; «il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 Cod. Ass. (…) va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata” (v., Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass., in Ri.Da.Re).

6) La funzione non punitiva del risarcimento del danno

E' opportuno prendere le mosse dalla sentenza n. 6754/2011 della Cassazione che ha (tra l'altro) acutamente osservato che «del tutto improduttive paiono le disquisizioni sul se la morte faccia parte della vita o se, contrassegnando la sua fine, essa alla vita sia estranea. Così come è nulla più che retorico il pur frequente rilievo secondo il quale, essendo il risarcimento del danno da lesioni gravissime assai oneroso per l'autore dell'illecito ed escludendosi, per converso, la risarcibilità del danno da soppressione della vita a favore dello stesso soggetto di cui sia provocata la morte, allora dovrebbe paradossalmente concludersi che sia economicamente più "conveniente" uccidere che ferire. Ed è del pari improprio l'assumere che, poiché la tutela minima di ogni diritto è quella risarcitoria (Cass., n. 8827/2003 e 8828/2003), il negare la risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a favore del soggetto stesso la cui vita sia spenta per fatto imputabile ad altri, significherebbe incorrere in intima contraddizione proprio in ordine alla tutela del primo tra tutti i diritti dell'uomo.

La questione è un'altra. È che il risarcimento costituisce solo una forma di tutela conseguente alla lesione di un diritto (o di una posizione giuridica soggettiva qualificata, pur se non assurgente al rango di diritto soggettivo); e consiste nel diritto di credito, diverso dal diritto inciso, ad essere tenuto per quanto è possibile indenne dalle conseguenze negative che dalla lesione del diritto derivano, mediante il ripristino del bene perduto, la riparazione, la eliminazione della perdita o la consolazione - soddisfazione - compensazione se la riparazione non sia possibile. Ora, non solo non è giuridicamente concepibile che sia acquisito dal soggetto che muore, e che cosi si estingue, un diritto che deriva dal fatto stesso della sua morte (chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più), ma è logicamente inconfigurabile la stessa funzione del risarcimento che, in campo civile, non è nel nostro ordinamento sanzionatoria (funzione garantita invece dal diritto penale), ma riparatoria o consolatoria. E in caso di morte, esclusa ovviamente la funzione riparatoria, neppure la tutela con funzione consolatoria può, per la forza delle cose, essere attuata a favore del defunto. Va data, invece, ai suoi congiunti: tecnicamente, posto che un danno è ingiusto se abbia leso un interesse meritevole di tutela e prevalente rispetto a quello del danneggiante, a chi abbia perso, in conseguenza della morte di una persona, la possibilità di godere del rapporto parentale con la persona stessa in tutte le sue possibili modalità attuative (Cass., sez. III, n. 8828/2003). Pretendere che sia data "anche" al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti, non essendo sostenuto da alcuno che sarebbe in linea col comune sentire o col principio di solidarietà che il risarcimento da perdita della vita fosse erogato agli eredi "anziché" ai congiunti (se, in ipotesi, diversi) o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato: il risarcimento assumerebbe allora una funzione meramente punitiva, che è invece assolta dalla sanzione penale».

E, aggiungo io, per scolpire ancor di più la fallacia della tesi qui respinta, può prospettarsi la seguente ipotesi: se in conseguenza di un fatto illecito perisse un intero nucleo familiare (e, se esistenti, anche gli eventuali prossimi congiunti), nessuno potrebbe far valere il danno da grave lesione o perdita del rapporto parentale, ma l'ingente risarcimento del danno tanatologico subito da tutte le vittime dovrebbe essere erogato al lontano cugino, erede legittimo (che magari avrà appreso la notizia del disastro dai giornali!) ovvero, in mancanza di eredi legittimi, allo Stato!

Del resto anche nella “sentenza Scarano” n. 1361/2014, la Cassazione afferma che «Il ristoro della lesione dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali mediante l'attribuzione di una somma di denaro non assolve ad una funzione punitiva, propria invero di altri settori dell'ordinamento (cfr. Cass., 8 febbraio 2012, n. 1781; Cass., 12 giugno 2008, n. 15814; Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183), e nemmeno deterrente, né costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, ma vale a compensare un pregiudizio non economico (v. Cass., 8 agosto 2007, n. 17395; Cass., 31 maggio 2003, n. 8827). L'indennizzo non ha e non può avere funzione reintegrativa nemmeno delle sofferenze morali e dei "torti giuridici" subiti, essendo invero volto a tutelare l'esigenza di assicurare al danneggiato un'adeguata riparazione come utilità sostitutiva».

La Cassazione, nella citata sent. n. 1781/2012, ha infatti ribadito che «nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso (…); ne consegue che, pure nelle ipotesi di danno "in re ipsa", in cui la presunzione si riferisce solo all' "an debeatur" e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario».

Ma, già nelle citate sentenze di San Martino, la Cassazione stigmatizzava l'inaccettabilità dell'affermazione che «nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Nella perdurante attesa delle Sezioni Unite

Dopo la “sentenza Scarano”, come si è detto, la questione della risarcibilità iure hereditario del danno tanatologico è stata rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione.

Nonostante la discussione sia stata tenuta nel lontano 17 giugno 2014, purtroppo la sentenza non è stata ancora pubblicata.

Nel frattempo, nella giurisprudenza di legittimità, si può rinvenir una fugace adesione alla “sentenza Scarano”, solo nella Cass., sent. n. 26590/2014, in cui tuttavia, dopo un (acritico) accenno alla sent. n. 1361/2014, che ha riconosciuto il danno non patrimoniale da perdita della vita, se ne trae la conclusione che (nella fattispecie posta all'esame della Corte) non vi sarebbe stata «alcuna duplicazione del danno in parola avendo la Corte riconosciuto iure hereditatis, il danno biologico c.d. terminale ed il danno da inabilita». Ma, come si è detto, trattasi di beni giuridici affatto diversi.

Più "coraggiosi" i giudici di merito, che spesso hanno già riconosciuto la sussistenza del danno tanatologico:

  1. con la sentenza n. 4307/2014, la Corte d'Appello di Milano (v. Risarcimento del danno da perdita della vita: in attesa delle SU la giurisprudenza di merito si divide in Ri.Da.Re), dopo aver citato la “sentenza Scarano”, ammette il risarcimento del danno da perdita della vita e, poiché tale danno non è previsto dalla tabella milanese, la liquidazione dovrà essere inevitabilmente equitativa. La Corte d'Appello di Milano prende in considerazione il danno non patrimoniale previsto in relazione ad una invalidità permanente del 100% per un soggetto di 67 anni (età della vittima), pari ad Euro 807.271,00; tiene quindi conto «della sua conseguente non più lunghissima ma al tempo stesso non del tutto indifferente aspettativa di vita, del legame affettivo con i suoi familiari»; liquida, infine, in via equitativa, la somma di Euro 300.00,00 per danno tanatologico in favore degli eredi.
  2. con la sentenza n. 2039/2014, il Tribunale di Brindisi ha affermato il seguente principio di diritto: la tesi che nega dignità risarcitoria al danno della vittima, nell'ipotesi di morte istantanea non va condivisa, verificandosi immediatamente l'iscrizione del diritto relativo, a contenuto risarcitorio, nella sfera giuridica del danneggiato e rappresentando, per contro, una forzatura logica il ritenere che, per il radicamento di un diritto in capo ad un qualunque soggetto, sia necessario che fra la condotta illecita e l'evento mortale, intercorra anche solo una frazione di secondo. Ai fini della liquidazione, la sentenza segue il seguente iter logico: «Orbene, nel caso di specie, la morte non è stata immediata. Infatti, il piccolo M. è rimasto in vita dopo l'evento lesivo per un giorno, mentre la sua mamma per cinque giorni. Dunque, deve riconoscersi in capo ai de cuius un danno non patrimoniale, suscettibile di trasmissione agli eredi, da liquidarsi nella misura massima accordabile a fronte della compromissione dell'integrità psico – fisica, ovvero quella del 100 per cento. Questo Giudice è a conoscenza della pluralità di metodi liquidatori affermatisi nella prassi, ma ritiene che solo tal ultimo [la tabella milanese] consenta di riconoscere rilievo giuridico alla perdita del bene non solo della salute, ma della vita stessa. A tale titolo, dunque, agli eredi devono riconoscersi euro 1.018.126,00, pari ad un danno biologico terminale del 100 per cento, subito da un soggetto di anni 32, nonché euro 1.204.882,00 pari ad un danno biologico terminale del 100 per cento, subito da un soggetto di mesi 9».

Ed infine la dottrina ha acutamente evidenziato che «ove si ammettesse il risarcimento da perdita della vita gli attuali assetti liquidativi del “danno alla persona” risulterebbero sostanzialmente scompaginati, a fronte dell'irruzione di nuove poste risarcibili iure hereditatis rimesse ad una valutazione giudiziale necessariamente equitativa e, almeno allo stato, non ragguagliabile ad alcun canone quantificativo di riferimento. Il che, tanto più nel settore della r.c. auto – obbligatoriamente assicurato – potrebbe comportare enormi ricadute sull'andamento tecnico del ramo e sul livello dei premi finali di polizza. Ma già oggi, nell'attesa di un intervento (quello delle Sezioni Unite) che si fa davvero desiderare, lo squarcio aperto dalla “sentenza Scarano” incide sulla dialettica transattiva tra assicuratori ed aventi diritto, arricchendo la “posta in gioco” di nuove possibili componenti risarcitorie» (così, In attesa del danno da morte (pur con i debiti scongiuri …): questioni "transitorie", sostanziali e processuali, in commento a Cass., sent. n. 25731/2014, in Ri.Da.Re)

È possibile costruire la curva di liquidazione del danno tanatologico?

Circa i criteri di liquidazione del danno tanatologico, nella “sentenza Scarano” si afferma che «non essendo il danno da perdita della vita della vittima contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice di merito l'individuazione dei criteri di relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità, non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell'età, delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell'attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima».

In attesa delle Sezioni Unite ed in mancanza di apposite tabelle, la liquidazione del danno tanatologico, dunque, dovrà essere necessariamente effettuata con criteri equitativi.

Le due sentenze di merito citate ne hanno fatto, a mio giudizio, discutibile applicazione, parametrando (in vario modo) beni giuridici affatto diversi: la salute e la vita della vittima primaria.

Purtroppo si tenga conto che queste liquidazioni, per definizione rimesse al giudice di merito, facilmente sfuggono al vaglio della Cassazione.

Infatti, nella sentenza della Cassazione n. 7126/2013, viene esaminata la sentenza della Corte d'Appello di Genova, che aveva liquidato, alla mamma ed al fratello, oltre al danno da perdita del prossimo congiunto – figlia e sorella di 16 anni deceduta dopo 9 ore in stato di lucidità - anche il danno catastrofale iure hereditario nella (a mio giudizio esorbitante) complessiva somma (per entrambi) di Euro 300.000,00. La Cassazione, sul ricorso relativo ai criteri di liquidazione di questa voce di danno non patrimoniale, afferma: « Il motivo di ricorso così come proposto è inammissibile alla stregua del principio per il quale la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da una certa approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (cfr. Cass. n. 1529/2010). Nessuno di questi vizi risulta denunciato col terzo motivo di ricorso».

Per ovviare a queste problematiche (nel perdurante vuoto normativo) si imporrebbe un iter procedimentale analogo a quello seguito per «le tabelle milanesi di liquidazione del danno biologico». Con la nota "sentenza Amatucci" (Cass., sent. n. 12408/2011), la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: «Nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano».

Le Tabelle milanesi sono dunque "normative" nel senso che sono da riconoscere come parametri di corretto esercizio del potere di cui all'art. 1226 c.c. e, dunque, di corretta applicazione di tale norma (Cass., sent. n. 4447/2014).

Ma sarebbe possibile allestire una tabella per il risarcimento del danno tanatologico?

Io credo che una simile tabella dovrebbe affrontare problemi tecnici ed etici (se non addirittura filosofici) pressoché irrisolvibili:

  • il parametro fondamentale dovrebbe essere l'età della vittima: la curva dei valori monetari dovrebbe essere discendente in base all'età. Ma quanto (poco) vale la vita del caro nonnino?
  • per evitare questo problema, allora, il valore dovrebbe essere tendenzialmente fisso: se ogni persona vale "x mila euro", ogni membro della famiglia dovrebbe poter dire che ha un patrimonio di "x milioni di euro"! Finalmente le famiglie numerose si riscatterebbero da un'atavica povertà?!
  • tuttavia il danno non patrimoniale dovrebbe essere sempre (almeno un po') personalizzato. Ma con quale criterio si personalizza se si ha riguardo al passato della vittima e non alle future possibili ripercussioni negative nella vita dei prossimi congiunti?
  • il padre "in buona salute", morto per un improvviso incidente, "vale" di più di quello con salute cagionevole o gravemente ammalato?
  • la signora casalinga non può competere con il valore di una top manager?
  • se nello stesso incidente muoiono due fratelli: si liquida di più per il ragazzo che frequentava brillantemente un corso di studi universitario e di meno per l'altro che aveva deciso di "vivere alla giornata" facendo il cameriere a Londra?
  • "vale" di più l'abortito progetto di viaggio di nozze d'argento o il galeotto viaggetto con l'amante alle Maldive?
Conclusioni

Alla luce delle esposte argomentazioni spero proprio che le Sezioni Unite della Cassazione segnino un veloce tramonto del danno tanatologico.

Mi piacerebbe pensare che in questo anno il danno tanatologico abbia vissuto una lunga lucida agonia in attesa della sua definitiva scomparsa.

Se così non fosse, spero che le Sezioni Unite si pongano anche il problema dei criteri di liquidazione, senza giustificare poi le più disparate liquidazioni perché «la motivata valutazione del giudice di merito è insindacabile in Cassazione»!

In una prospettiva di politica giudiziaria, è di tutta evidenza che l'eventuale riconoscimento del danno tanatologico avrebbe, a mio giudizio, i seguenti effetti negativi:

  • aumenterebbe in modo esponenziale il contenzioso in tutti i gradi di giudizio;
  • dilaterebbe la durata del processo, per una faticosa istruttoria orale, necessaria per personalizzare il risarcimento; non credo che possano aiutare le presunzioni, perché (come ho innanzi accennato) il giudice dovrà "liberarsi" dalle valutazioni dettate da soggettive opzioni etiche e/o filosofiche;
  • per converso, e correlativamente, tutte le incertezze giuridiche e le liquidazioni del danno tanatologico basate sulle sabbie mobili farebbero diminuire le transazioni, sia stragiudiziali che giudiziali, come succedeva agli albori del danno biologico;
  • per le compagnie assicuratrici sarebbe (soprattutto nei primi anni) un "bagno di sangue", perché i sinistri mortali sarebbero liquidati con una maggiore percentuale di circa il 50% e le compagnie assicuratrici avrebbero immediata necessità di ricoprire le proprie riserve tecniche, con inevitabile aumento dei premi assicurativi;
  • per le vittime, solo nel medio periodo si garantirebbe una aumento effettivo dei valori risarcitori, perché nel lungo periodo si tratterebbe «pur sempre di stabilire quanto vada riconosciuto (in denaro) ai sopravvissuti er la perdita del congiunto (che è evento che provoca dolore e perdita del rapporto parentale), con una conversione la cui entità dipende dalle qualificazioni giuridiche assai meno che dalla sensibilità sociale e dalla cultura del momento storico in cui l'evento cade» (così la citata Cass., sent. n. 6754/2011);
  • in definitiva, sia nei singoli processi sia in termini macroeconomici, il danno tanatologico non gioverebbe praticamente a nessuno, ma creerebbe soltanto un gran' scompiglio!

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