Responsabilità per nascita indesiderata e onere della prova: il tramonto delle presunzioni semplici

Ludovico Berti
10 Luglio 2014

In tema di risarcimento del danno da negligenza professionale medica, in ordine al difetto di informazione circa la presenza di malformazioni fetali, l'onere probatorio incombe sulla madre, secondo il criterio dell'eius incumbit qui dicit, e non sul medico dimostrare la probabile o certa volontà abortiva della gestante. Il giudice, invece, è chiamato a desumere caso per caso, senza ricorrere a generalizzazioni statistiche, le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri, posto che la richiesta di uno o più accertamenti diagnostici in corso di gravidanza costituisce un indice non univoco della volontà abortiva, salvo che siano finalizzati alla scoperta di eventuali malformazioni.
Massima

Cass. civ., sez. III, sent., 30 maggio 2014 n. 12264

In tema di risarcimento del danno da negligenza professionale medica, in ordine al difetto di informazione circa la presenza di malformazioni fetali, l'onere probatorio incombe sulla madre, secondo il criterio dell'eius incumbit qui dicit, e non sul medico dimostrare la probabile o certa volontà abortiva della gestante. Il giudice, invece, è chiamato a desumere caso per caso, senza ricorrere a generalizzazioni statistiche, le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri, posto che la richiesta di uno o più accertamenti diagnostici in corso di gravidanza costituisce un indice non univoco della volontà abortiva, salvo che siano finalizzati alla scoperta di eventuali malformazioni.

Sintesi del fatto

D.S.F. e S, genitori di un bimbo nato malformato, hanno convenuto in giudizio l'ASL dell'Alto Friuli, ritenendo che i sanitari in essa immedesimati, avessero omesso di informarli sul reale stato del feto ed avessero inoltre non correttamente eseguito ed interpretato gli esami ginecologici e ecografici cui la gestante si era regolarmente sottoposta, che avrebbero potuto svelare per tempo la malformazione del feto.

Il Tribunale respingeva la domanda ritenendo oggettiva l'impossibilità di individuare la patologia attraverso gli accertamenti eseguiti fino alla ventunesima settimana e la Corte di Appello di Trieste rigettava l'impugnazione dei genitori ritenendo del tutto carente la prova del nesso causale tra la condotta omissiva ed il danno lamentato per l'omessa informazione.

I genitori hanno impugnato la sentenza avanti alla Suprema Corte lamentando che la Corte di merito avesse errato nel non applicare il principio affermato dall'orientamento maggioritario della Corte, secondo il quale l'omessa rilevazione da parte del medico della presenza di gravi malformazioni del feto e la correlativa mancata comunicazione di tale dato clinico alla gestante, devono ritenersi circostanze idonee e sufficienti a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto corrisponde ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della malformazione del feto, preferisca non portare a termine la gravidanza.

La Corte, richiamati i precedenti giurisprudenziali conformi e contrari al principio sostenuto dai ricorrenti, ha poi respinto il ricorso ritenendo che la semplice allegazione da parte della donna che se debitamente e tempestivamente informata, avrebbe interrotto la gravidanza, rappresenta una presunzione semplice che se non integrata da elementi probatori ulteriori e sufficientemente significativi, non è da sola sufficiente a fornire la prova del nesso causale tra l'omessa informazione ed il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza.

La questione

La questione in esame è se nel giudizio intentato dai genitori per il risarcimento del danno da nascita indesiderata conseguente al mancato rilievo, da parte del sanitario, di malformazioni congenite del feto, i rispettivi oneri probatori debbano ritenersi ripartiti sulla base di una presunzione iuris et de iure (o soltanto semplice) che conduca ipso facto, e in assenza di qualsivoglia ulteriore elemento di prova, ad un automatismo insensibile ad ulteriori dimostrazioni, in fatto e volta per volta, al di là di rilievi assiomatico-statistici, del nesso tra omissione e l'intenzione abortiva.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia in commento si inserisce nel solco di due precedenti decisioni della Suprema Corte (Cass., n. 16754/2012 e Cass., n. 7269/2013) andando in tal modo a conferire autorevolezza al nuovo orientamento che ha comportato un radicale “revirement” rispetto al passato (Cass., n. 13/2010; Cass., n. 14488/2004; Cass., n. 22837/2010; Cass., n. 6735/2002).

La questione riguarda l'accertamento del nesso causale tra l'omessa informazione della presenza di malformazioni del feto e la volontà della gestante di abortire che il precedente orientamento risolveva affermando che era sufficiente l'allegazione da parte della donna che se correttamente informata si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza a far presumere, in presenza dell'omessa rilevazione e della mancata informazione, la sussistenza del legame eziologico, perché risponde al criterio di regolarità causale che in presenza di una malformazione del feto, la donna preferisca non portare a termine la gravidanza. La mera allegazione giustificava l'inversione dell'onere della prova a carico del medico che per sottrarsi dalla responsabilità, doveva fornire la prova positiva che, invece, la gestante non avrebbe comunque interrotto la gravidanza, anche se tempestivamente informata. Il principio è ben espresso da Cass. n. 13/2010 nella cui motivazione si legge che “…non costituisce oggetto di prova la circostanza che la madre, ove conosciute le malformazioni del feto, avrebbe scelto di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi corrispondente ad un principio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza”.

La Corte, nella decisione in commento, “pur nella sconfortante consapevolezza della assoluta inadeguatezza degli strumenti del diritto a offrire risposte appena accettabili a dolorose e talvolta sconvolgenti vicende umane e familiari”, ha inteso dare continuità al nuovo orientamento, perché più rispettoso delle regole probatorie stabilite dalla legge per il processo civile per le quali non si può prescindere da una precisa assunzione di responsabilità delle proprie dichiarazioni da parte della donna, unico soggetto legittimato a decidere sulla prosecuzione o meno della gravidanza.

Con il primo precedente del 2012 (Cass., n. 16754/2012) la Corte, seppur in un obiter dictum, aveva già precisato che, in tema di ripartizione dell'onere probatorio, in mancanza di un'espressa ed inequivoca dichiarazione della gestante che, se informata della malformazione, non avrebbe proseguito la gravidanza, il relativo onere probatorio, in ossequio al criterio dell'eius incumbit qui dicit, è a carico di questa tanto che nella motivazione si legge: “Non sembra infatti predicabile sempre e comunque la legittimità del ricorso ad un criterio improntato ad un ipotetico id quod plerumque accidit perchè, in assenza di qualsivoglia ulteriore dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre, sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la automatica esclusione dell'intenzione di portare a termine la gravidanza”.

Con la successiva pronuncia del 2013 (Cass., n. 7269/2013), la Corte ha ribadito che sulla madre incombe l'onere non solo di allegare ma anche di provare che, se informata, avrebbe interrotto la gravidanza ma ha ulteriormente precisato che, per tale prova, non ci si può limitare a dimostrare di essersi sottoposti ad un esame volto ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, costituendo tale elemento una semplice presunzione e quindi un “semplice elemento indiziario” dell'esistenza della volontà di voler interrompere la gravidanza che, se non integrato da ulteriori elementi probatori “sufficientemente significativi”, costituisce un labile elemento indiziario insufficiente, da solo, a dimostrare la reale volontà della gestante.

La decisione in commento, quindi, va ad inserirsi nel nuovo orientamento giurisprudenziale conferendogli quell'autorevolezza idonea a far ritenere quello maggioritario ormai definitivamente superato.

La Corte, rifiutando meccanismi generalizzati ed algidi riferimenti a dati statistici secondo i quali ogni donna informata della malformazione del feto preferirebbe abortire, impone al giudice di verificare, caso per caso e nel rispetto dell'onere probatorio, se quell'”indice nient'affatto univoco”, rappresentato dall'essersi sottoposti ad uno o più accertamenti diagnostici, sia nella fattispecie integrato da ulteriori inferenze probatorie idonee a conferire certezza o quanto meno a ritenere “più probabile” che se informata dello stato del feto, la gestante si sarebbe determinata a non proseguire la gravidanza.

Secondo il nuovo orientamento, il solo fatto di essersi sottoposti ad uno o più accertamenti, ove non espressamente e specificamente finalizzati alla verifica di eventuali anomalie del feto ed alla conseguente interruzione della gravidanza, non è sufficiente a far presumere che la gestante, se informata della malformazione del feto, avrebbe interrotto la gravidanza perché sono innumerevoli le ragioni che possono spingere una donna ad esigere, ed il medico a prescrivere, quegli accertamenti a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la nascita di un figlio che si sa essere malformato. In altri termini, non è possibile affermare, come un mero automatismo, che tutte le donne se consapevoli delle malformazioni del feto, decidano, sempre e comunque, di interrompere la gravidanza.

Osservazioni e suggerimenti pratici

La decisione in commento mette definitivamente i paletti in un ambito della responsabilità medico sanitaria, quale quello da nascita indesiderata, in cui ultimamente la giurisprudenza si era spinta così in avanti nel tutelare il danneggiato da travalicare le comuni regole dell'accertamento causale, aprendo altresì la via risarcitoria ad una nuova pletora di danneggiati: il padre (Cass. civ., 1 dicembre 1998, n. 12195 lo evidenziava quale danno riflesso della moglie mentre con Cass. civ., 10 maggio 2002, n. 6735 è stato qualificato come danno diretto), i fratelli e le sorelle (Cass. n. 16754/2012) e da ultimo anche lo stesso nato malformato (ci si riferisce all'obiter contenuto in Cass. civ., 3 maggio 2011, n. 9700 e a Cass., n. 16754/2012).

Il regime delle presunzioni semplici non è stato ritenuto adeguato per fondare la prova dell'inequivoca intenzione della madre di interrompere la gravidanza se informata delle malformazioni del feto, perché in tal modo si andrebbe a riversare sul medico, invertendo l'onere probatorio, la dimostrazione, praticamente impossibile per lui, che se correttamente informata non avrebbe invece abortito ed il danno verrebbe risarcito come se fosse in re ipsa, perché la sua liquidazione conseguirebbe alla sola affermazione/allegazione della donna.

Infatti, ritenere che sia sufficiente l'omessa rilevazione, correlata alla mancata informazione e la mera allegazione nell'atto introduttivo che se informata la gestante avrebbe interrotto la gravidanza, per ritenere dimostrata l'intenzione delle donna, riversando sul medico la dimostrazione del contrario e cioè di circostanze così intime e personali di cui mai potrebbe fornire la prova perché attinenti a convinzioni etiche, morali ed anche religiose delle quali nulla potrebbe sapere, significherebbe legittimare la valenza di un impianto probatorio così debole da porsi in contrasto non solo con le generali regole probatorie civilistiche, ma anche con quelle già fortemente indirizzate in favore del danneggiato previste dal sottosistema della responsabilità medico-sanitaria.

Infatti, ad esempio, nell'ambito della responsabilità da violazione dell'obbligo di informazione finalizzato al conseguimento del consenso informato relativo ad un determinato trattamento sanitario, la prova del nesso causale tra la mancata informazione e la scelta di non sottoporsi al trattamento, può essere certamente data per presunzioni, ma il paziente è comunque onerato di fornire gli elementi di prova sui quali il giudice possa basarsi per risalire al fatto ignorato, mentre nei casi di nascita indesiderata, la gestante doveva solamente allegare (operazione che si realizza con la semplice affermazione specifica nell'atto di citazione), senza dover fornire alcun altro elemento in quanto il giudizio presuntivo si poteva fondare esclusivamente su dati meramente statistici secondo i quali è altamente probabile che, in presenza di malformazioni fetali, la donna preferisca non portare a termine la gravidanza.

Per altro, l'aver riportato rigore nell'accertamento del nesso causale tra l'omessa informazione e l'intenzione personale della donna di interrompere o meno la gravidanza e l'aver riposto sulla stessa il relativo carico probatorio, corrisponde anche al principio di vicinanza della prova, perché solo la donna direttamente interessata può essere in grado di fornire elementi ulteriori per corroborare la presunzione nascente dal fatto di essersi sottoposta ad un accertamento volto ad accertare la presenza di malformazioni del feto e ciò anche in ossequio alla generale regola di cui all'art. 2697 c.c. secondo il quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Ed allora la Corte, che da anni si è allontanata dal concetto di danno-evento in favore di quello che vede il danno solo quale conseguenza dell'evento, impone alla madre di dimostrare con ulteriori elementi, sufficientemente significativi, ciò che per il diritto è soltanto presumibile, perché non tutte le gestanti si determinano ad interrompere la gravidanza se informate della malformazione del feto e quindi tale presunzione, che si risolve in un mero indizio, deve essere corroborata da parte della donna con ulteriori elementi.

Per completezza di trattazione vale la pena ricordare che, comunque, affinché la domanda della donna possa essere accolta, devono pur sempre ricorrere i presupposti che la Legge n. 194/1978 agli artt. 4 e 6, detta in tema di interruzione volontaria della gravidanza entro ed oltre il novantesimo giorno, sicché sarà compito della donna dimostrare che la gravidanza o il parto avrebbero comportato un “grave pericolo per la sua vita” o un “grave pericolo per la salute fisica o psichica”, sempreché non vi sia “possibilità di vita autonoma del feto” (art.7), ipotesi in cui il medico dovrà agire adottando ogni misura idonea a salvaguardarne la sopravvivenza.

Conclusioni

Nel caso in cui la gestante, pur essendosi sottoposta ad accertamenti volti ad evidenziare malformazioni del feto, ove non abbia manifestato espressamente ed inequivocabilmente la sua intenzione di interrompere la gravidanza in caso di esito positivo di tali accertamenti, non potrà più limitarsi ad affermare tale volontà in giudizio per riversare sul medico la prova contraria, dovendo attivarsi per fornire ulteriori e significativi elementi idonei a corroborare quanto meramente affermato che per il diritto corrisponde ad una mera presunzione inidonea da sola a dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la mancata informazione e la determinazione a non portare a termine la gravidanza.

Il medico, figura decisamente sfavorita dalla più recente e costante giurisprudenza, può tirare un “piccolo” respiro di sollievo perché quanto meno in ipotesi di responsabilità da nascita indesiderata non si dovrà confrontare con un impianto probatorio per lui assolutamente impossibile da fornire e subirà le conseguenza della sua omissione non automaticamente, ma solo quando la donna riesca effettivamente a fornire la prova che il suo comportamento le ha realmente cagionato un danno.