La pronuncia in esame ha il merito di strutturare il proprio asse argomentativo avuto riguardo a tutti i peculiari distinguo operati dalla Suprema Corte.
Ed infatti essa esordisce osservando che – in relazione a questa peculiare forma di responsabilità – le strade percorribili sono astrattamente due.
Una prima, quella dell' applicazione del disposto di cui all'art. 2050 c.c., condizionata dalla verifica dell' effettiva impartizione delle lezioni a principianti ovvero ad allievi giovanissimi.
Una seconda, incentrata sulla riferibilità agli schemi di cui all'art. 2052 c.c., ove rilevino casi di allievi di equitazione più esperti.
L'incipit del Giudice si spinge fino a ricordare come la prima strada rappresenti la deviazione dalla regola (l'attività di equitazione non è infatti – in sé – una «attività pericolosa») mentre la seconda si prospetti come «ordinarietà».
Ciò sulla scorta di un passaggio della Suprema Corte che fa cenno proprio alla nozione di «attività pericolosa» e all'impossibilità di aprioristicamente riferire tutte le attività di equitazione svolte in un maneggio entro tale ampio paradigma concettuale (Cass. n. 11861/1998).
Il primo passo verso la comprensione di quale sia il discrimine fra attività di equitazione non pericolosa e attività di equitazione pericolosa è quindi proprio questo.
Quando, nel nostro ordinamento si può parlare – in genere - di pericolosità?
Aiuta, in questo senso un' indicazione recentissima di Piazza Cavour che chiarisce «costituiscono attività pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c. non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperate, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva. L'accertamento in concreto se una certa attività, non espressamente qualificata come pericolosa da una disposizione di legge, possa o meno essere considerata tale ai sensi dell'art. 2050 c.c. implica un accertamento di fatto, rimesso in via esclusiva al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, ove correttamente e logicamente motivato (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1195; v. pure Cass. 30 ottobre 2002, n. 15288, peraltro richiamata dagli stessi ricorrenti, e Cass. 29 maggio 1998, n. 5341. Inoltre ai fini dell'applicazione della norma di cui all'art. 2050 c.c. il giudizio di pericolosità eventuale dell'attività deve essere dato secondo una prognosi postuma sulla base dell'esame delle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell'esercizio dell'attività. (Cass., 9 aprile 1999, n. 3471; Cass., 30 agosto 1995, n. 9205)» (Cass. 10268/2015).
La lettura di questo assunto comporta che il criterio di accertamento della pericolosità può essere soltanto di due tipi: o rileva una qualificazione legale, e qui si deve rimandare alle indicazioni del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (r.d. 18 giugno 1931, n. 773) oppure a quelle di norme ad hoc, oppure deve necessariamente svolgersi una qualificazione soggettiva ancorata alla valutazione del grado di probabilità di verificazione di un danno in ragione di una «spiccata potenzialità offensiva».
Ad ogni buon conto, dice inoltre la Suprema Corte, ove si volesse invocare l'art. 2050 c.c., occorrerà dar corso ad un esame critico che ponga ad oggetto le effettive “circostanze” della fattispecie esaminata.
Ne consegue – in generale – che lungi dall'essere statica, quella di «attività pericolosa» è una nozione improntata ad un fisiologico dinamismo, potendo attrarre al proprio spettro di operatività – di volta in volta – le espressioni dell'agire umano più disparate.
Tale attività appare, inoltre, implicata – nella sua strutturazione formale - da necessarie valutazioni ex ante (per stabilire la reale offensività) ed ex post (per considerare, appunto, la realtà fattuale entro cui essa sia stata effettivamente perpetrata).
Stabilito cosa debba intendersi con questo sintagma si può volgere lo sguardo alla successiva questione.
Quando l'attività di equitazione è sussumibile entro il dettato dell'art. 2050 c.c.? Quando cioè essa diventa effettivamente pericolosa?
La pronuncia in commento richiama i dicta di più pronunce degli Ermellini che – in sostanza – demarcano una netta linea di censura in base a due fondamentali parametri: l'esperienza e l'età.
L'argomento tranchant che il Tribunale valorizza è proprio il secondo, dando peso all'oramai consolidato orientamento di Piazza Cavour secondo cui la minore d'età è - per sua stessa natura – ontologica espressione di inesperienza e dunque elemento idoneo a connotare in termini di sicura pericolosità l'attività di equitazione.
Torna utile segnalare che - molto di recente - il quadro è stato ancor più accuratamente cesellato.
Si fa cenno al portato di un rilievo dei Giudici di legittimità secondo cui «la gestione d'una scuola d'equitazione può essere in concreto pericolosa, ma può anche non esserlo: tale requisito non sussiste in astratto, ma va accertato in concreto in base alle modalità con cui viene impartito l'insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati ed alla qualità degli allievi (ex permultis, Cass., sez. 3, sent., 17 gennaio 2002, n. 14747, in motivazione). Questa Corte ha da molto tempo suggerito, al riguardo, una massima di esperienza quale criterio orientativo per la soluzione dei casi pratici: ovvero quella consistente nel presumere che, di norma, impartire lezioni di equitazione a fanciulli o principianti comporta pericoli che non sussistono quando gli allievi sono esperti; con la conseguenza che la prima attività (impartire lezioni a principianti) sarebbe pericolosa, la seconda (impartire lezioni ad esperti) non lo sarebbe (Cass., sez. 3, sent., 9 marzo 2010, n. 5664; Cass., sez. 3, sent., 19 giugno 2008, n. 16637)» (Così Cass. n. 7093/2015).
Cosa avrebbe dovuto dedurre, quindi, la difesa del convenuto e perché, invece, in concreto, la sua difesa non ha sortito alcun effetto?
La pronuncia non lascia spazio a perplessità: tenuto conto della circostanza della tenera età della allieva e, dunque, della piana riconducibilità della fattispecie alla meccanica processuale descritta dall'art. 2050 c.c., parte convenuta avrebbe dovuto dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure idonee ad evitare il danno.
In concreto: chi governa lo svolgimento di un'attività di equitazione pericolosa può liberarsi solo quando provi di aver adottato tuttele corrette prescrizioni tecnico-normative che la disciplinano e di aver implementato ogni provvedimento necessario ad evitare l'insorgenza di situazioni di nocumento a terzi.
A nulla – si legge nella pronuncia – rileva l'aver sostenuto che non era stato il cavallo a disarcionare l'allieva bensì quest'ultima a lasciarsi cadere giacchè «sta proprio nella (prevedibile) incapacità dell'allieva di tenere un comportamento adeguato al controllo dell'animale la ragione dell'intrinseca pericolosità dell'attività svolta, come nel caso, da soggetto di tenera età».
Su questo solco la Suprema Corte ha infatti sottolineato che «all'esercente l'attività pericolosa non basta, per evitare la condanna, la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere in modo certo il nesso causale tra l'attività pericolosa e l'evento, e non già quando costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa delle inidoneità delle misure preventive adottate (così, Cass., sez. 3, sent., 4 dicembre 1998, n. 12307; nello stesso senso, Cass., sez. 3, sent., 29 aprile 1991, n. 4710)» (Cass.7093/2015).
Nel caso di specie il convenuto non si era però peritato di offrire né la prova positiva né quella negativa, astenendosi da qualunque (invero processualmente necessario per evitare la soccombenza) tentativo di spezzare il nesso causale fra evento e danno.