Il rimedio risarcitorio: natura sanzionatoria o solo compensativa?
12 Ottobre 2016
Premessa
Secondo l'orientamento invalso sinora nella giurisprudenza di legittimità, la Corte d'appello italiana, alla quale è richiesto il riconoscimento di una sentenza straniera di condanna al pagamento di danni punitivi (punitive damages), deve controllare i criteri seguiti dal giudice straniero per qualificare la natura della responsabilità e le relative voci di danno, al fine di evincere la causa giustificatrice dell'attribuzione patrimoniale disposta a favore della parte vittoriosa. Ove nel corso di tale verifica – ritenuta necessaria ai fini del controllo di compatibilità della sentenza estera con l'ordine pubblico italiano – la Corte d'appello rilevasse una causa di attribuzione patrimoniale a carattere punitivo (e non compensativo), la decisione straniera non sarebbe riconoscibile. Si ritiene, in particolare, che anche il solo dubbio circa l'esistenza di una tale sanzione debba indurre la Corte d'appello a negare il riconoscimento. La funzione della responsabilità civile, infatti, privata di ogni componente morale, appare concentrare la sua attenzione unicamente sulla vittima, al fine di ristabilire lo status quo anteriore al danno, disinteressandosi completamente dell'autore dell'illecito e delle caratteristiche della sua condotta La Prima Sezione della Suprema Corte, intravedendo delle aperture anche nel tessuto normativo, ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, della riconoscibilità, o meno (per contrasto con l'ordine pubblico), delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi (v. A. Penta, Il riconoscimento dei danni punitivi è contrario all'ordine pubblico?, in Ri.Da.Re.). Con l'ordinanza interlocutoria citata la Suprema Corte ha analizzato il caso di una richiesta di riconoscimento della esecutività in Italia di tre sentenze (passate in giudicato), pronunciate negli Stati Uniti d'America, di condanna di una società produttrice di caschi a manlevare altra società che aveva provveduto a rivenderli di quanto quest'ultima aveva corrisposto al danneggiato, a titolo di indennizzo, all'esito ed in esecuzione di una transazione (perfezionata nel corso di una causa risarcitoria intentata dalla vittima). L'appellata (la produttrice) aveva fondato la propria tesi di contrarietà delle sentenze all'ordine pubblico su tre argomenti:
La Corte d'appello di Venezia non aveva condiviso tali assunti, evidenziando, per quanto in questa sede rileva, che alla produttrice era stata data la possibilità di costituirsi nell'interesse della rivenditrice (e, quindi, di assumere la sua difesa) e di difendersi nel giudizio contro il danneggiato (anche contestando la propria responsabilità), ma che la stessa non lo aveva fatto e mai aveva sollevato obiezioni alla proposta transattiva della vittima (che pur le era stata comunicata). Inoltre, con valenza assorbente, la corte territoriale aveva rilevato che non risultava l'intervenuto risarcimento di danni punitivi. Il ricorso per cassazione, basato su tre motivi, denuncia, soprattutto, la violazione dell'art. 64, lett. b) e g), della l. 31 maggio 1995, n. 218, concentrando l'attenzione sulla totale omissione dei criteri seguiti per la determinazione del danno e, comunque, il quantum abnorme rispetto ai parametri italiani, circostanze, queste, che, secondo il suo assunto, avrebbero denotato la natura punitiva del risarcimento posto a suo carico. La questione in punto di diritto sottesa alla sollecitata decisione è quella della possibilità di riconoscere la natura sanzionatoria (o punitiva) al rimedio risarcitorio, in un contesto sociale, normativo e giurisprudenziale in cui finora è stato allo stesso attribuita una funzione solo compensativa (o reintegratoria o riparatoria). Già in passato Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183 (in Dir. Fam. e Pers. (Il) 2010, 2, 547, in Giur. it. 2007, 12, 2724, con nota di Tomarchio, ed in Giust. Civ. 2007, 10, 2124), aveva affermato che restano irrilevanti, ai fini del risarcimento, la condotta del danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato. Si è al cospetto di un vero e proprio cd. leading case in cui la Corte ha ritenuto che la clausola penale non ha natura e finalità punitive, assolvendo alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tanto è vero che, qualora l'ammontare della clausola penale venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso od uno sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotto. E' importante chiarire che l'istituto nordamericano, incompatibile con l'ordinamento italiano, dei cc.dd. danni punitivi ("punitive damages"), non è riferibile, fra l'altro, alla risarcibilità dei danni non patrimoniali e morali e che, nel nostro ordinamento, la risarcibilità del danno è sempre condizionata all'accertamento delle sofferenze o delle lesioni inferte dall'illecita condotta altrui e non può considerarsi provata in re ipsa. In quest'ottica, la liquidazione di una somma ingiustificatamente sproporzionata (per eccesso) rispetto al danno in concreto subìto (e, a maggior ragione, rispetto al pregiudizio invocato) integra gli estremi di un indizio della natura punitiva del ristoro riconosciuto. Per un approfondimento, mi permetto di rinviare a PENTA, Il riconoscimento dei danni punitivi è contrario all'ordine pubblico?, in Ri.Da.Re.. Più di recente Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1781 (in Giust. civ. Mass. 2012, 2, 139, ed in Foro it. 2012, 5, 1449, con nota di De Hippolytis. Conf. Cass. civ. 15 aprile 2015, n. 7613, sez. I, e, sia pure in parte, Cass. 12 giugno 2008, n. 15814) ha ribadito che, nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive — restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta —, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subìto dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. I giudici di merito, nella verifica della contrarietà della sentenza straniera all'ordine pubblico interno, non si devono affidare al mero riscontro della compatibilità dell'intero ammontare della condanna con la natura e la gravità dei pregiudizi subìti dal danneggiato, senza dar conto della ragionevolezza e proporzionalità di tale somma in rapporto ai criteri risarcitori interni, e, per altro verso, devono conferire rilievo alla mancanza di motivazione nella sentenza da riconoscere, in quanto preclusiva della possibilità di evincere la causa giustificatrice dell'attribuzione e la sua natura. Nel solco delle pronunce di San Martino, anche di recente si è, infine, ribadito che il danno non patrimoniale risarcibile, pur determinato da una lesione di un diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dell'art.8 CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (Cassazione civile, sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 222, in Dir. & Giust. 2016, con nota di M. Alovisio). Ciò ha consentito di affermare, in un caso in cui era stato invocato il ristoro del danno esistenziale che l'interruzione della somministrazione di energia elettrica non rientra nell'ambito dei danni non patrimoniali meritevoli di considerazione a questo titolo e che le inefficienze di questo genere degli enti fornitori di servizi essenziali sarebbero indubbiamente meritevoli di sanzione tramite peculiari fattispecie di indennizzo automatico, o introducendo, per i casi più gravi di colpa o negligenza, fattispecie di danni punitivi, sì da sollecitare maggiore attenzione e riguardo per gli interessi del pubblico. In quest'ottica, Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2014, n. 1766, essendo dipeso l'inconveniente tecnico da eventi atmosferici di particolare intensità, ha sostenuto che la vicenda descritta nel ricorso, pur se indubbiamente fonte di disagio, rientrava fra le contrarietà e gli inconvenienti della vita quotidiana, in relazione ai quali l'ordinamento richiede un certo margine di tolleranza. La sanzione costituita dai danni punitivi, di sovente applicata dai tribunali statunitensi, ha, al contempo, una finalità positiva e degli effetti criticabili. Infatti, da un lato, persegue la finalità pubblica di deterrente per evitare azioni od omissioni che possano recare danno ad una serie di soggetti, ma, dall'altro, attribuisce al singolo danneggiato un beneficio ingiustificato per finalità estranee all'ordine pubblico internazionale italiano, con conseguente irrimediabile conflitto con esso e non delibabilità della decisione (in tal senso App. Venezia 15 ottobre 2001; Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 765, in un caso in cui una sentenza statunitense aveva condannato un soggetto italiano al pagamento di somme per danni "punitivi" per un ammontare di gran lunga esorbitante rispetto al risarcimento dei danni). Vanno, peraltro, segnalate aperture nella giurisprudenza di merito, in dottrina e nel contesto normativo. Quanto ai giudici di merito, si è arrivati a sostenere che le assicurazioni sono tenute a risarcire l'attore a titolo di «danno punitivo», allorquando non si siano prodigate per una definizione stragiudiziale della causa ed abbiano così costretto l'attore ad agire in via giudiziale, con conseguente perdita di tempo e spreco di denaro (Trib. Torre Annunziata, 24 febbraio 2000). In un più lontano passato spicca l'indirizzo secondo cui il giudice ordinario civile o penale, che, come è noto, ha la facoltà di determinare l'ammontare del danno risarcibile in via equitativa qualora non sia possibile una precisa quantificazione, nell'uso di tale potere deve tener conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore, pur non potendosi intendere una tale liquidazione quale «danno punitivo» (secondo l'orientamento della giurisprudenza di common law), bensì come applicazione pratica dei criteri di liquidazione previsti dall'art. 18 l. n. 349/1986 (Pret. Milano 6 luglio 1989, in Dir. ec. assic., 1989, 867). A ben vedere, nel momento in cui il danno morale veniva riconosciuto quasi automaticamente come conseguenza del riscontrato (e medicamente accertabile) danno alla integrità psico-fisica, si procedeva di fatto al riconoscimento di un danno punitivo. Tanto è vero che la Suprema Corte si era vista costretta, al fine di arginare il fenomeno, a sostenere che gravava sul danneggiato l'onere di provare l'esistenza stessa del danno, ivi compreso quello morale, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova potesse considerarsi in re ipsa, atteso che al risarcimento di detto tipo di danno non potevano in alcun modo riconoscersi finalità meramente punitive (cfr., fra le tante, Cass., 21 dicembre 1998, n. 12767). Fece molto scalpore, per la notevole diffusione mediatica che ebbe, il caso “Vieri” (dal nome del famoso calciatore che ne rimase coinvolto), in cui il Tribunale di Milano ritenne che l'abusivo controllo del traffico telefonico in entrata e in uscita dalle utenze del personaggio famoso integrasse un fatto illecito, consistente nell'indebita intrusione nella sfera privata altrui, suscettibile di determinare un'innegabile e comprovata sofferenza da parte della vittima. Tenuto conto della durata dell'attività illecita e dell'enorme effetto mediatici) sortito dalla vicenda, il giudice reputò equo liquidare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma complessiva di euro 1.000.000,00 (Trib. Milano, sez. X, 3 settembre 2012, n. 9749, in Riv. it. medicina legale (dal 2012 Riv. it. medicina legale e dir. sanitario) 2013, 2, 1067, con nota di Serani, Il caso “Vieri” e il danno non patrimoniale da lesione della privacy del calciatore; v. anche Caso Vieri. La società sportiva, che controllava illecitamente l'utenza telefonica, deve risarcire il calciatore in Ri.Da.Re.). In dottrina, favorevole alla funzione preventiva o deterrente del rimedio risarcitorio (cfr. pag. 19 della sentenza qui commentata), tra i numerosi contributi, in tema di «danno punitivo» e di divieto di delibazione di sentenza straniera che lo riconosca, si segnalano Campeis, De Pauli, Danni punitivi, ordine pubblico e sentenze straniere delibande a contenuto anfibio, in Foro pad., 2002, I, 533; Crespi Reghizzi, Sulla contrarietà all'ordine pubblico di una sentenza straniera di condanna a punitive damages, in Riv. dir. intern. priv. proc., 2002, 977; Gatto, Art. 13, commi 1 e 2, l. n. 431/1998 , un'ipotesi di «danno punitivo»?, in Arch. loc. cond., 2001, 25; Monateri, Risarcimento e danno presunto: verso una teoria dei general damages in diritto italiano?, in Quadrimestre, 1990, 24; Ponzanelli, Non c'è due senza tre: la Corte Suprema Usa salva ancora i danni punitivi, in Foro it., 1994, IV, 92; Urso, Recenti sviluppi nella giurisprudenza statunitense inglese in materia di punitive damages: i casi Txo production corporation v. Alliance resources corporation e ab V: south west water services ltd, in Riv. dir. civ., 1995, I, 81; Zeno Zencovich, Il problema della pena privata nell'ordinamento italiano: un approccio comparatistico ai punitive damages di common law, in Giur. it., 1985, IV, 12. Avuto riguardo al nostro panorama normativo, l'istituto della condanna exart. 96, comma 3, c.p.c., per la sua natura ibrida, sembra avvicinarsi all'istituto tipico dei sistemi giuridici di common law, in particolare inglese e statunitense, dei punitive (o exemplary) damages (danni punitivi o esemplari, per i quali, in caso di responsabilità extracontrattuale, al danneggiato viene liquidata una somma maggiore rispetto a quella necessaria per ristorare il danno subito, ove si accerti che il danneggiante abbia agito con malice, nozione avvicinabile a quella di dolo, o gross negligence, cioè colpa grave). In particolare, l'art. 96 c.p.c. può trovare applicazione, nella pratica giudiziaria, rispettando entrambe le funzioni cui deve assolvere, sia quella sanzionatoria che quella risarcitoria: la prima è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; la seconda viene, invece, perseguita, in sede di liquidazione della somma, agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subìto dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio; una simile modalità di quantificazione, mantenendo come criterio guida quello indennitario, dovrebbe anche consentire di evitare che la condanna si trasformi in un indebito arricchimento della parte vittoriosa; i criteri sulla base dei quali commisurare la somma potrebbero essere, oltre al grado di gravità della colpa della parte soccombente, anche il valore della causa e la durata del processo e, in alcuni casi, la natura e l'oggetto della causa (valorizzando, ad esempio, i casi in cui il giudizio abbia coinvolto interessi di carattere personale, otre che meramente economico). Per Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, in Red. Giuffrè 2011, a livello di operatività pratica la somma potrebbe anche essere individuata mediante un aumento percentuale rispetto a quanto liquidato a titolo di spese. Sembra muoversi in questa direzione Corte Cost., sent., 23 giugno 2016 n. 152 (Pres. Grossi, est. Morelli), nel momento in cui ha chiarito che l'art. 96, comma 3, c.p.c. risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Anche i provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. sono provvedimenti sanzionatori ed appartengono alla categoria dei danni punitivi, vale a dire strumenti di pressione psicologica sul soggetto obbligato che si adottano al fine di dissuaderlo dal perseverare nel comportamento illegittimo, finalità che, peraltro, condividono con il provvedimento di sequestro, ex art. 156 c.c.. Entrambi i provvedimenti possono essere adottati, in caso di inadempimento, a tutela del minore, specie con riferimento alla conservazione dell'ambiente abitativo ed al diritto del minore di non subire al riguardo pressioni psicologiche (Trib. Messina, sez. I, 25 settembre 2007, in Giur. locale - Messina 2008; in dottrina, A. D'Angelo, L'art. 709 ter c.p.c. tra risarcimento e sanzione: un “surrogato” giudiziale alla solidarietà familiare?, in Danno e resp. 2008, pp. 1205 ss.). Da ultimo, si discute se l'obbligo di pagare una somma di denaro per la violazione, l'inosservanza o il ritardo nell'esecuzione del giudicato amministrativo (è chiara la similitudine con l'istituto della astreinte disciplinata all'art. 614-bis c.p.c. - del quale l'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., costituirebbe la trasposizione nella sede giudiziale amministrativa -; cfr. altresì gli artt. 140, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - « Codice del consumo » -, e art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300 - « Statuto dei lavoratori » -) possa essere ascritto alla categoria dei danni punitivi o debba inquadrarsi tra le sanzioni civili indirette (del secondo avviso sono Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 22/01/2013, n. 26, in Resp. Civ. e Previd. 2014, 2, 656, con nota di Cortese; Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688; Cons. Stato, Sez. V, 14 maggio 2012, n. 2744; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 24 giugno 2013, n. 1621). Non è, invece, revocabile in dubbio che il ristoro patrimoniale di cui all'art. 614-bis c.p.c. non sia riconducibile alla categoria delle pene private, essendo determinato, nell'an e nel quantum, dal giudice (il giudice, peraltro, può decidere di non comminare la sanzione, quando ciò risulti manifestamente iniquo o quando sussistono altre ragioni ostative) e non dalla parte. In conclusione
De iure condito, la funzione del risarcimento, nel nostro ordinamento, è di natura prioritariamente riparatorio-consolatoria. Almeno allo stato, non trova, pertanto, riconoscimento, nel sistema italiano, la categoria dei cc.dd. punitive damages, tanto è vero che l'intervento risarcitorio è prescritto solo quando siano accertate le concrete perdite di utilità o di valore derivanti da fatto illecito. Da ciò consegue che all'attualità, nel sistema della responsabilità civile, la funzione punitiva-preventiva del risarcimento è solo residuale e, comunque, destinata a rimanere sullo sfondo. Probabilmente solo nell'ambito del danno non patrimoniale ex art. 15 del codice sul trattamento dei dati personali il ruolo marginale della funzione preventiva tende fortemente ad accentuarsi, in quanto la responsabilità civile sembra riconnettersi alla particolare riprovevolezza della condotta (diretta, com'è a pregiudicare la riservatezza), giustificando, in quest'ottica, l'attribuzione, in via accessoria, di una funzione anche deterrente al risarcimento stesso. Qui il giudizio di riprovevolezza della condotta tenuta dal danneggiante consente di riconoscere un risarcimento che sia “over-compensativo” del pregiudizio effettivamente sofferto. Occorrerà monitorare l'evoluzione della nostra giurisprudenza, onde verificare se la tendenza a tutelare le vittime, soprattutto in quei casi in cui il responsabile del danno sia una grossa compagnia economica, possa accentuarsi, provocando, per l'effetto, una crescita esponenziale del quantum liquidato, anche con finalità deflattive e preventive. Sin da ora, peraltro, si percepisce un tentativo volto ad allargare le maglie del danno risarcibile, il quale disvela una certa insofferenza verso una quantificazione del risarcimento che appare inadeguata, specialmente laddove ricorrano comportamenti ritenuti immorali o riprovevoli. La questione merita senz'altro l'approfondimento delle Sezioni Unite, perché, se il ragionamento sopra riassunto fosse corretto, allora il trend giurisprudenziale di legittimità relativo alla automatica “incompatibilità” dei danni punitivi con il nostro ordinamento dovrebbe essere ripensato (oltre alla già ricordata Cass. n. 1183/2007, si ricordano Cass. n. 15814/2008, Cass. n. 1781/2012 e Cass. SS.UU. n. 15350/2015). Senza tralasciare che l'attuale posizione dei giudici di legittimità appare, per certi versi, dissonante rispetto alle aperture dimostrate da altri giudici europei non può essere sottaciuta. Potrebbe privilegiarsi, allora, una soluzione intermedia, quale quella accolta in Germania, in Spagna ed in Francia, in cui si è già ritenuto che la valutazione debba essere fatta caso per caso, limitando l'ingresso (rectius, la riconoscibilità) delle sentenze straniere di danno punitivo solo alle ipotesi in cui la misura della sanzione sia eccessiva (di questo avviso è S. Corongiu, I danni punitivi sono ancora contrari all'ordine pubblico? Questione rimessa alle SS.UU.,. su Ilquotidianogiuridico.it, 20 maggio 2016).
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