Danno cagionato da animali: è responsabile chi ha il “pieno governo”, pur se temporaneo, del cane
12 Gennaio 2016
Massima
La responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., prevista a carico del proprietario o di chi si serve dell'animale per il periodo in cui lo ha in uso, in relazione ai danni cagionati dallo stesso, ha natura oggettiva, si fonda non già su un comportamento o un'attività del proprietario, ma su una relazione (di proprietà o di uso, che può anche essere temporaneo) intercorrente tra questi e l'animale e trova limite solo nel caso fortuito, ossia nell'intervento di un fattore esterno nella determinazione del danno, che presenti i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e dell'assoluta eccezionalità. Nell'ipotesi di responsabilità per danno cagionato da animali, all'attore compete solo di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi, deve provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere detto nesso causale, non essendo sufficiente la prova di aver usato la comune diligenza nella custodia dell'animale. Ai fini dell'applicabilità dell'art. 2052 c.c., per utilizzatore dell'animale deve intendersi colui il quale, avendone la disponibilità, può esercitare su esso un pieno governo. Il caso
Tizia ha convenuto in giudizio, dinnanzi al Tribunale, Caia e Sempronio, chiedendo che fossero condannati, ai sensi dell'art. 2052 c.c., al risarcimento dei danni conseguiti all'aggressione patita ad opera dei loro cani. Si è costituita in giudizio Caia, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda, mentre Sempronio è rimasto contumace. Il Tribunale ha condannato al risarcimento dei danni la sola Caia. Quest'ultima ha proposto appello dinnanzi alla competente Corte, producendo, in quella sede, una sentenza del Tribunale penale che l'aveva assolta, per la medesima vicenda, dal reato di lesioni colpose, per essere i cani in questione di proprietà di Mevio, figlio della stessa Caia. La Corte d'Appello ha rigettato l'impugnazione. In particolare, i giudici del gravame hanno dichiarato inammissibile la produzione della sentenza del Tribunale penale, ne hanno affermato l'inopponibilità a Tizia, non avendo preso parte al processo penale né essendo stata messa in condizione di costituirsi parte civile e, comunque, hanno evidenziato l'assoluta diversità della responsabilità penale - da cui era risultata esente Caia - da quella civile, prevista dall'art. 2052 c.c.. In punto di fatto, la Corte d'Appello ha accertato: che Tizia era stata aggredita da due cani ed aveva tentato di fuggire arrampicandosi su di una rete di recinzione; che Caia, attratta da forti rumori, si era affacciata sulla porta di casa ed aveva richiamato i cani, i quali avevano prontamente obbedito ed erano rientrati subito in casa; che la presenza sulla scena dell'aggressione da parte di Mevio, presunto proprietario degli animali, non era stata provata. Caia ha quindi proposto ricorso per cassazione. La questione
Le questioni che vengono in rilievo sono le seguenti: quale natura ha la responsabilità disciplinata dall'art. 2052 c.c.? Chi è «l'utilizzatore» dell'animale di cui fa menzione l'art. 2052 c.c.? Le soluzioni giuridiche
L'art. 2052 c.c. sancisce che il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso è responsabile per i danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito. La responsabilità per danni cagionati da animali ha origini remotissime. Si pensi che nel Libro dell'Esodo (cap. 21), che gli storici riportano al VI-V secolo a.C., la normazione di tale responsabilità era particolarmente articolata, giungendo anche a prevedere la morte per lapidazione dell'animale che avesse provocato la morte di una persona, in tal modo considerandolo individualmente responsabile del fatto illecito. Il diritto romano attribuiva la responsabilità per i danni cagionati dall'animale – privo di intelletto e quindi naturalmente irresponsabile - al suo proprietario, con l'esonero di responsabilità nel caso in cui l'animale fosse fugitivus, ed altresì dando rilievo all'eventuale indole della bestia. Il Code Napoleon ha ripreso la figura della responsabilità per i danni cagionati dagli animali (art. 1385), estendendola anche all'ipotesi di animale smarrito o fuggito. La norma del code civil ha costituito il modello dell'art. 1154 del codice civile del 1865, il cui contenuto è stato a sua volta recepito dall'art. 2052 c.c. vigente. La norma viene ricondotta, dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria, nell'alveo della responsabilità oggettiva, ove la colpevolezza del proprietario o dell'utilizzatore risulta irrilevante. Il fondamento della responsabilità in parola viene individuato non già in un comportamento od un'attività propria del soggetto responsabile - eventualità che avrebbe imposto la riconduzione della fattispecie ad un'ipotesi di responsabilità per colpa presunta - bensì nella mera relazione, di proprietà o di utilizzo, tra il soggetto e l'animale, nonché, come ovvio, nel nesso di causalità materiale tra i danni verificatisi e la condotta attiva dell'animale. Il proprietario o l'utilizzatore, quindi, possono andare esenti da responsabilità non già provando di aver diligentemente adempiuto al proprio obbligo di custodire l'animale, attivandosi prontamente per evitare danni a terzi, ma dimostrando la sussistenza di un caso fortuito, cioè di un fattore estraneo alla condotta dell'animale (che ben può consistere nel fatto dello stesso danneggiato) ed in grado di interrompere il nesso di causalità materiale tra quest'ultima ed i danni arrecati. In tale ottica - ed in disparte ogni riflessione sul giusto rilievo dell'inopponibilità al danneggiato della sentenza penale pronunciata senza la sua partecipazione al processo o senza che ne avesse avuto la possibilità - appare senz'altro condivisibile l'osservazione della Suprema Corte, contenuta nella sentenza in commento, circa la non sovrapponibilità, in caso di danni cagionati da animali, della responsabilità penale – la quale, ovviamente, non può mai essere oggettiva, giusta disposto dell'art. 27, comma1, Cost. - con quella civile prevista dall'art. 2052 c.c.; quest'ultima è invece oggettiva (non sussistendo contrarie indicazioni nella carta costituzionale), sicché è ben possibile – non cozzando ciò con l'armonia dell'ordinamento giuridico, ma anzi evidenziandone le sfaccettature e la complessità – che un individuo sia mandato assolto dal giudice penale e sia, per lo stesso fatto, condannato in sede civile. Vale evidenziare che la responsabilità penale si distingue da quella civile non solo per il profilo sostanziale dell'imputabilità del fatto, ma anche per il diverso – e forse anche più penetrante – profilo processuale della prova del fatto addebitato: mentre nel processo penale vale il principio per cui si può essere condannati solo ove la colpevolezza sia provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, in sede civile la soglia della prova è individuata dal criterio della preponderanza dell'evidenza ovvero “del più probabile che non”, in base al quale un fatto può ritenersi provato ove risulti maggiormente probabile la sua esistenza della sua inesistenza. Tornando agli elementi della responsabilità per danni cagionati da animali, essa sussiste solo a fronte di una condotta attiva tenuta dall'animale: ove esso, nel complessivo processo fattuale causativo del danno, abbia assunto una posizione di mera inerzia (come nel caso in cui si inciampi in un cane dormiente per strada, ovvero nel caso in cui l'animale sia veicolo di infezione), è esclusa l'applicabilità dell'art. 2052 c.c., ferma restando l'eventuale operatività della clausola generale posta dall'art. 2043 c.c. Irrilevante risulta, poi, il requisito della pericolosità dell'animale, operando la norma in esame anche se il danno proviene da un animale di indole mansueta; ciò che comunque appare indispensabile è che l'animale in questione sia suscettibile di “pieno governo” da parte dell'uomo. Questione decisiva diviene, allora, individuare con esattezza quale debba essere il contenuto della relazione esistente tra il soggetto responsabile e l'animale che ha cagionato il danno. La norma richiama espressamente la «proprietà» dell'animale e, pertanto, la facoltà di poterne godere e disporre in modo pieno ed esclusivo, a prescindere, quindi, dall'eventuale possibilità di trarre dall'animale una qualche forma di utilità economica. La proprietà, infatti, si sostanzia anche nel non “sfruttare” o non “utilizzare” il bene oggetto del diritto. Ma l'art. 2052 c.c. individua quale responsabile anche chi si serva dell'animale «per il tempo in cui lo ha in uso». La definizione di «utilizzatore» – la cui responsabilità è sempre da considerarsi alternativa rispetto a quella del proprietario, sicché la responsabilità di quest'ultimo esclude sempre quella dell'utilizzatore - ha diviso dottrina e giurisprudenza. Una parte della giurisprudenza ha ritenuto che l'utilizzatore responsabile ex art. 2052 c.c. non potesse essere individuato nel mero “custode” dell'animale - cioè chi, anche transitoriamente (si consideri, sul punto, la dizione della norma «per il tempo in cui lo ha in uso»), ha la disponibilità dell'animale - ma fosse necessario un quid pluris individuato dalla facoltà di “sfruttamento” dell'animale, requisito generalmente dedotto dalla locuzione «chi se ne serve», contenuta nella norma. Il servirsi dell'animale, pertanto, dovrebbe considerarsi sinonimo di possibilità di suo sfruttamento; di possibilità, cioè, di ritrarre da esso una qualche utilitas economicamente apprezzabile. Ad esempio, si è ritenuta sussistente la figura dell'utilizzatore di animali ex art. 2052 c.c., e la conseguente sua responsabilità, nell'ipotesi in cui l'animale sia stato affidato, anche col consenso del proprietario (che in tale ipotesi andrebbe esente da responsabilità), ad un soggetto per il soddisfacimento di un interesse proprio ed autonomo di quest'ultimo, pur se l'utilità tratta dall'animale sia stata diversa da quella abitualmente ricavata dal proprietario. Al contrario, chiunque abbia la custodia, la cura, il governo ed il mantenimento dell'animale nell'interesse del proprietario, non rientrerebbe nella figura del responsabile ex art. 2052 c.c. Altra dottrina, invece, ha ritenuto discriminante, ai fini dell'applicazione dell'art. 2052 c.c., il concetto di “custodia”, intesa quale disponibilità effettiva ovvero facoltà di governo dell'animale. In base ad una interpretazione storico-evolutiva della norma, tale dottrina ha evidenziato come il codice civile attuale, e prima ancora quello del 1865, avessero mutuato la normazione della responsabilità per danni da animali dalla disposizione del code civil francese, che, data l'epoca della sua redazione (1804) e la contestuale situazione socio-economica, considerava gli animali come i principali strumenti di lavoro, e pertanto la loro disponibilità non poteva che evocare l'idea del loro sfruttamento per finalità economiche; da qui, l'impiego di locuzioni come «uso» e «chi se ne serve». La sentenza in commento sembra condividere tale ultima tesi. La Suprema Corte, infatti, ha confermato la sentenza di appello che aveva individuato la responsabilità ex art. 2052 c.c. della ricorrente in ragione: a) della raggiunta prova della disponibilità, da parte sua ed al momento dei fatti, dei cani aggressori, i quali, al suo comando, avevano immediatamente desistito dall'attacco alla danneggiata; b) della mancata dimostrazione del caso fortuito, ovvero che i danni lamentati fossero dipesi da un fattore estraneo alla condotta degli animali. Può quindi ritenersi – sviluppando i principi espressi dalla Cassazione – che l'utilizzatore menzionato dall'art. 2052 c.c. è chiunque eserciti sull'animale un potere effettivo di governo, sia che ciò derivi da un rapporto giuridico, sia che ciò sia il frutto di una situazione di fatto, anche transitoria. Resta ferma, comunque, la già menzionata alternatività della responsabilità del proprietario e dell'utilizzatore. La solidarietà della responsabilità, tuttavia, non potrà escludersi ove sussistano una pluralità di proprietari o di utilizzatori dell'unico animale danneggiante; inoltre, ove il danno provenga da un gruppo di animali (es. mandria o gregge), appartenenti a proprietari diversi, questi ultimi saranno tutti solidalmente responsabili ex art. 2055 c.c.. Osservazioni
Dalla pronuncia in commento possono trarsi utili indicazioni sul modo in cui articolare i mezzi di prova ove venga fatta valere la responsabilità ex art. 2052 c.c. In particolare, sarà onere del danneggiato dare la prova sia della qualità di proprietario od utilizzatore (ovvero di soggetto che ha il “governo” dell'animale) del convenuto, sia dell'esistenza di un nesso causale tra l'animale ed il danno, cioè che il danno è stato cagionato da un comportamento attivo dell'animale. Di contro, sul convenuto incomberà la prova del caso fortuito, cioè che il danno è stato cagionato da un fattore estraneo, del tutto eccezionale, imprevedibile ed inevitabile, secondo il principio della regolarità e probabilità causale, in quelle determinate circostanze di tempo e di luogo; altrimenti detto, dovrà dare prova dell'interruzione del nesso di causalità materiale tra danno e comportamento dell'animale. Ovviamente, il convenuto potrà andare esente da responsabile ove - dimostrato, in modo insuperabile, il nesso causale tra danni e comportamento dell'animale - egli provi, pur essendo proprietario dell'animale, che quest'ultimo si trovava, anche transitoriamente, sotto il pieno governo di un terzo soggetto, che in tal caso assumerà le vesti dell'utilizzatore. G. Branca, Sulla Responsabilità oggettiva per danni cagionati da animale, in Riv. Trim. dir. proc. Civ. 1950; M. Franzoni, La responsabilità oggettiva, Il danno da cose e da animali, Padova 1988; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova 2005; G. Alpa, M. Bessone, V. Zeno Zencovich, Trattato di Diritto Privato XIV, a cura di P. Resigno, Torino; C. M. Bianca, Diritto Civile, La Responsabilità, Milano, 1994; G. Cian, A. Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, Art. 2052, Padova 2014.
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