Lite temeraria: colpa grave del soccombente e prova del danno
15 Gennaio 2015
Massima
Ai fini della condanna per lite temeraria, la debolezza delle difese della parte e la necessaria consapevolezza che, in base alle circostanze del caso concreto, la stessa doveva avere del reale svolgimento dei fatti, sono elementi idonei a far ritenere l'azione promossa o la resistenza in giudizio portata avanti, se non con mala fede, almeno con colpa grave. Sintesi del fatto
Emesso un decreto ingiuntivo per l'effettuazione di prestazioni di pulizia, veniva proposta opposizione deducendo ex art. 1460 c.c. un inesatto adempimento del creditore al fine di giustificare il mancato pagamento delle fatture. Il Tribunale di Roma, in ragione dell'assoluta genericità dell'eccezione proposta (mediante la quale non erano state, ad esempio, indicate le ore fatturate in eccesso, specificata la natura dei vizi della prestazione dedotti né le prestazioni asseritamente duplicate) e dell'esito negativo per l'opponente della prova testimoniale disposta per dimostrare i fatti allegati a fondamento dell'eccezione, ritiene di dover accogliere la domanda di responsabilità processuale aggravata proposta dal creditore ai sensi dell'art. 96, comma 1, c.p.c. In particolare, nella ricostruzione operata dal Tribunale adito un'azione promossa sulla scorta di difese generiche, con la consapevolezza di non riuscire a dimostrarle in corso di causa è un'azione proposta se non con mala fede, almeno con colpa grave e giustifica, in presenza di un danno subito dalla controparte, la condanna per lite temeraria. Le questioni
Le questioni da esaminare sono le seguenti: a) quando ricorre la colpa grave che consente la condanna per lite temeraria ai sensi dell'art. 96, comma 1, c.p.c.?; b) ai fini della condanna per responsabilità processuale aggravata l'altra parte deve dimostrare di aver subito un danno e come? Le soluzioni giuridiche
Con riguardo alla prima problematica, è opportuno premettere che l'art. 96, comma 1, c.p.c. prevede la possibilità del Giudice, su domanda di parte, di condannare al risarcimento del danno per responsabilità aggravata colui che agisce o resiste temerariamente in giudizio con dolo, mala fede o colpa grave. Secondo una tesi ormai risalente, la disciplina posta dall'art. 96 c.p.c. sarebbe stata limitata alle ipotesi di responsabilità per procedure ingiuste (cfr. Buongiorno, Responsabilità aggravata, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991, 2 ss.), mentre i danni arrecati da processi condotti senza il rispetto di forme e termini di rito sarebbero stati regolati dalla norma generale sulla responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c. (Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, I, Napoli 1968, 372). Peraltro, in giurisprudenza, si è andato invece affermando il diverso orientamento interpretativo per il quale l'art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale e completa della responsabilità processuale aggravata e si pone con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., con la conseguenza che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità generale per fatti illeciti (cfr. Grasso, Note sui danni da illecito processuale, in Riv. dir. proc., 1959, 270 ss; ID., Individuazione delle fattispecie di illecito processuale e sufficienza della disciplina dell'art. 96 c.p.c., in Giur. it., 1961, I, 1, 93; Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 295 ss) ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sebbene relative all'irrituale esercizio di un'azione, sotto la disciplina dell'art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (Cass. civ., sez. III, sent. 3 marzo 2010, n. 5069; Cass. civ., sez. III, sent. 20 luglio 2004, n. 13455). La domanda di responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. è pertanto caratterizzata da una propria causa petendi che deve essere specificata dalla parte che intenda ottenere la relativa condanna della controparte e deve quindi escludersi che la stessa possa essere compresa nella generica richiesta di risarcimento danni proposta dalla parte (Cass. civ., sez. II, sent. 12 ottobre 2009, n. 21590). Proprio la riferita ricostruzione della responsabilità processuale c.d. aggravata quale forma speciale di illecito civile rispetto al modello generale contemplato dall'art. 2043 c.c. comporta, in primo luogo, per la configurabilità della stessa, la necessaria sussistenza di un peculiare stato soggettivo del soccombente che abbia invero resistito in giudizio con dolo, mala fede o colpa grave. A riguardo, anche di recente, la S.C. ha evidenziato che la condanna per responsabilità processuale aggravata, per lite temeraria, quale sanzione dell'inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che l'altra parte deduca e dimostri nell'indicato comportamento dell'avversario la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi (Cass. civ., sez. III, sent. 30 giugno 2010, n. 15629). Comunque sia, la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale al momento della proposizione della lite esclude, ab origine, la mala fede o la colpa grave della parte processuale e la sussistenza dei presupposti per la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, sent. 3 maggio 2011, n. 9697). La condanna al risarcimento del danno per lite temeraria postula quindi una condotta processuale dalla quale emerga, al di là di ogni ragionevole dubbio, la malafede, la strumentalità dell'attività processuale ovvero un'inescusabile negligenza oggettiva (App. Roma, sez. III, sent. 1 marzo 2011 n. 842, in dejure.giuffre.it.). Applicando i superiori principi generali si è ritenuto, ad esempio, che incorre in responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1, c.p.c., il creditore il quale chieda ed ottenga un provvedimento monitorio nei confronti del debitore dopo che quest'ultimo abbia pagato l'intera sorte capitale, a nulla rilevando che, nel successivo giudizio di opposizione, il debitore stesso venga condannato - previa revoca del decreto ingiuntivo - al pagamento degli interessi moratori (Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2010, n. 9033). Rispetto alla seconda questione prospettata, la decisione in esame ritiene dimostrato in via presuntiva il danno sofferto dal creditore opposto a seguito dell'instaurazione temeraria del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo facendo riferimento all'ormai consolidata giurisprudenza sia della Corte europea dei diritti dell'uomo che della Corte di Cassazione per la quale la stessa pendenza di un giudizio è, in accordo con l'id quod plerumque accidit, fonte di stress e preoccupazione per le parti. Anche quanto alla liquidazione del danno, il Tribunale di Roma ritiene di poter far conseguentemente riferimento ai parametri per la determinazione dell'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, essendo, nella specie, ingiustificato il giudizio stesso. In tale direzione, la pronuncia si inserisce nell'orientamento che va consolidandosi in tal senso al fine di superare le precedenti difficoltà nella prova del danno ex art. 96 c.p.c. In accordo con l'orientamento tradizionale, invero, in tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all'art. 96 c.p.c. richiede pur sempre la prova incombente alla parte istante sia dell'an, sia del quantum debeatur o che, pur essendo la liquidazione effettuabile d'ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (v., tra le molte, Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2007, n. 13395). In linea con l'indirizzo affermato dalla decisione in esame è invece la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione per la quale relativamente all'entità del danno sofferto per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., se l'esistenza e la prova devono essere offerte dall'istante sia per quanto concerne l'an sia per il quantum debeatur, il pregiudizio derivante da condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, può desumersi da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l'id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, causano ex se anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. civ., sez. II, sent. 18 febbraio 2011, n. 3993, in Il civilista, 2011, n. 5, 18, con nota di Buffone). Analogamente, si è evidenziato che, una volta riconosciuta la temerarietà della lite, in mancanza di dimostrazione di concreti e specifici danni patrimoniali conseguiti al suo svolgimento, è giustificabile che il giudice, avuto riguardo a tutti gli elementi della controversia, ed anche alle spese giudiziali che concretamente competerebbero alla parte vittoriosa, attribuisca alla parte vittoriosa il riconoscimento di un danno patrimoniale procedendo alla sua liquidazione in via equitativa (Cass. civ., sez. VI, sent., 12 ottobre 2011, n. 20995).
Le soluzioni del Tribunale di Roma alle due questioni esaminate sono apprezzabili, ponendosi nel solco dell'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità. È evidente che si tratta di un trend interpretativo finalizzato ad ampliare l'ambito di applicazione dell'istituto della responsabilità processuale aggravata ex art. 96 comma 1 c.p.c., nella prospettiva di utilizzare tale tradizionale strumento in una prospettiva deflattiva volta a scongiurare la proposizione non solo delle azioni temerarie o emulative ma anche di quelle manifestamente infondate, agevolando, peraltro, la prova del danno ponendo una presunzione che ammette solo in astratto una prova contraria che difficilmente potrebbe essere fornita. La ratio dell'evoluzione giurisprudenziale è nel senso indicato coerente con le esigenze derivanti dal principio di ragionevole durata del processo, di rilevanza costituzionale ex art. 111 Cost. Tuttavia non può in questa sede sottacersi qualche perplessità di carattere generale – che potrebbe invero estendersi ancor più alla fattispecie di responsabilità processuale ex art. 96, comma 3, c.p.c. introdotta dalla legge n. 69/2009 – fondata sul rischio che, anche rispetto alle problematiche in esame, la preponderanza del principio della ragionevole durata del processo ponga in non cale diritti di rilevanza costituzionale come il diritto di agire e resistere in giudizio sancito dall'art. 24 Cost. Riteniamo che un equilibrato contemperamento tra le due fondamentali garanzie costituzionali non possa far ritenere gravemente colpevole ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c. colui il quale è soccombente per manifesta infondatezza delle ragioni dedotte in giudizio dovendo, per la configurabilità dello stato soggettivo di cui al primo comma dell'art. 96 c.p.c., ricorrere un quid pluris dal quale possa evincersi il carattere assolutamente defatigatorio dell'azione proposta (o cui si sia resistito). |