Danno alla professionalità: il risarcimento è dovuto anche in assenza di allegazioni dettagliate del lavoratore

Andrea Ferrario
16 Novembre 2016

Anche laddove manchino allegazioni specifiche del lavoratore, il risarcimento del danno da dequalificazione professionale è dovuto se le stesse sono comunque desumibili dall'impostazione del ricorso.
Massima

Anche laddove manchino allegazioni specifiche del lavoratore, il risarcimento del danno da dequalificazione professionale è dovuto se le stesse, meramente fattuali e non dettagliate, sono comunque desumibili dall'impostazione del ricorso e dalla ricostruzione dei fatti, apparendo del tutto irrilevante che le medesime circostanze non abbiano trovato una esposizione specifica sul piano della richiesta del risarcimento del danno che il Giudice doveva liquidare anche in via equitativa sulla base di elementi obiettivamente risultanti dal ricorso.

Il caso

Tizio, quadro direttivo di un istituto di credito con incarico di titolare di filiale, da un giorno all'altro viene comandato presso altra sede e qui adibito all'assai meno prestigiosa funzione di cassiere. Il dipendente si rivolge al giudice del Lavoro di Perugia, facendo valere l'illegittimità del trasferimento e lamentando nel contempo un danno da demansionamento. Il Tribunale accoglie le doglianze del lavoratore e condanna l'azienda al risarcimento, commisurandolo nel 30% della retribuzione per l'intero periodo del demansionamento, e dunque nella ragguardevole somma di 140.000,00 euro. La banca impugna la decisione del giudice perugino. I secondi giudici, pur confermando le statuizioni concernenti l'illegittimità del trasferimento e l'avvenuto demansionamento, accolgono in parte il gravame, respingendo nella specie la richiesta risarcitoria per difetto di allegazione. Il dipendente propone ricorso in Cassazione , sostenendo di aver compiutamente allegato i fatti principali posti a base della propria richiesta risarcitoria. Avrebbe dunque il giudice potuto e dovuto liquidare il danno, se del caso, anche alla stregua di presunzioni fondate sui medesimi fatti illustrati nel ricorso. Resiste anche la Banca con proprio controricorso, richiamando gli argomenti già sviluppati e fatti propri dai giudici del secondo grado.

La questione

La decisione della Corte umbra oggetto del giudizio di legittimità fonda il proprio iter argomentativo sull'insegnamento di una nota pronuncia della stessa Cassazione a Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572) che ha affermato il principio alla stregua del quale il riconoscimento di quel danno alla professionalità, rivendicato nella specie dal bancario perugino, è strettamente subordinato ad una allegazione “specifica” da parte del presunto danneggiato. In questione, dunque, non vi è il fatto in sé del dedotto demansionamento, positivamente accertato anche nel secondo grado.

Le questioni controverse sono, invece, le seguenti:

- fino a che punto deve essere analitica e specifica l'allegazione del danno conseguenza?

- con quali modalità il giudice potrà fare ricorso alle presunzioni?

- in applicazioni di quali principi il giudice liquiderà il danno non patrimoniale?

Le soluzioni giuridiche

La delicata questione rimessa al vaglio della Suprema Corte è stata a più riprese oggetto di scrutinio di legittimità. I giudici estensori della decisione qui in commento si occupano anzitutto del noto precedente a Sezioni Unite del 2006, posto alla base delle difese dell'istituto resistente. In effetti il dictum in questione, componendo un perdurante contrasto interpretativo, parrebbe autorevolmente avvalorare la tesi - più rigorista - fatta valere dalla banca. Sicché, anche laddove venga accertato il fatto in sé della dequalificazione professionale, vuoi per isolamento, vuoi per forzata inoperosità o vuoi ancora, come nel nostro caso, per assegnazione del dipendente a mansioni diverse inferiori a quelle proprie, il riconoscimento in concreto del danno non conseguirà in modo automatico, ma sarà a propria volta subordinato ad una “specifica” allegazione fattuale del lavoratore. Il quale dovrà dunque, in questa prospettiva, precisare minuziosamente i contorni del pregiudizio che egli ritenga di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno stesso. Quest'ultimo è inteso dunque come concreta, e non “automatica”, incidenza negativa della condotta datoriale nella sfera del lavoratore, con un tangibile riflesso sul suo equilibrio e sulle sue abitudini di vita. La decisione in commento fa salvi questi principi; esclude tuttavia che nella fattispecie questi debbano condurre al rigetto della domanda risarcitoria del lavoratore dequalificato. Per suffragare questa opzione interpretativa vengono richiamati due più recenti pronunce di legittimità: la prima, anch'essa a Sezioni Unite n. 4063 (Cass. civ., sez. un., 22 febbraio 2010 n. 4063) e la seconda, la n. 19778 (Cass. civ., sez. un., 19 settembre 2014 n. 19778). Entrambe le sentenze, pur confermando ancora uno specifico onere di allegazione del lavoratore in ordine a natura ed entità del pregiudizio, sembrano però declinare una versione meno stringente della ricostruzione sancita nel lontano 2006. In particolare, nella motivazione del decisum del 2014 (poi sostanzialmente ripresa dalla sentenza in commento) si chiarisce che il giudice del merito è ammesso a “desumere” l'esistenza del danno di cui si discute anche in base ai soli elementi di fatto allegati dal lavoratore a sostegno del proprio ricorso e diretti, in particolare, a dimostrare la dedotta dequalificazione professionale. E pertanto ove sia possibile acquisire dalla ricostruzione della vicenda operata dal dipendente gli essenziali dati fattuali pertinenti a quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e ad altre, più generiche, circostanze del caso concreto, il giudice, a mezzo di un processo logico-giuridico e avvalendosi di presunzioni, può ritenere integrata non solo la prova del demansionamento, ma anche del danno conseguenza e, quindi, determinarne l'entità in via equitativa. Quell'onere di allegazione “specifica” imposto dalle Sezioni Unite di dieci anni prima sembra dunque trascolorare in una formula più attenuata, alla stregua della quale è ora sufficiente che i fatti alla base delle doglianze (e della conseguente richiesta risarcitoria) del lavoratore demansionato siano anche solo “desumibili” dalla impostazione del ricorso e dalla connessa ricostruzione dei fatti principali. Diventa in tal guisa irrilevante il fatto che le stesse circostanze il lavoratore abbia omesso di allegare in modo “specifico” anche nella ulteriore e diversa prospettiva della richiesta di risarcimento del danno. Una volta acquisite al processo, le medesime circostanze sono dunque rilevanti anche sul piano della prova del pregiudizio che, anche mediante presunzioni, il giudice può quindi accertare e liquidare. Sul quantum la pronuncia in esame afferma che l'entità del danno non deve essere meramente “simbolica” (come appunto avvenuto nella fattispecie concreta, in cui il danno è stato liquidato in una significativa quota della retribuzione). Questo stesso criterio, ampiamente utilizzato nella prassi (in misure per la verità ampiamente variabili) è dunque ora convalidato anche dal giudice di legittimità, purché - come detto - la risultante economica abbia in concreto valenza di effettivo ristoro del danno.

Osservazioni

Soprattutto in tempi di Jobs Act, la sensibilità sui diritti dei lavoratori, non più presidiati da quell'assai ampio quadro di tutela assicurato dalla disciplina previgente, si acuisce, aprendo così nuovi e talora più indulgenti spunti interpretativi su temi che sembravano ormai cristallizzati.

La Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 372/1994 (C. Cost., 27 ottobre 1994 n. 372) stigmatizzava che è sempre necessaria “la prova ulteriore dell'entità del danno” e, quindi, nella fattispecie concreta, non è sufficiente la prova della lesione della professionalità per la liquidazione del danno.

Inoltre la giurisprudenza di merito negli ultimi anni ha ampiamente attinto ai principi di diritto enunciati nella citata sentenza delle Sezioni Unite del 2006 e, pur in presenza di casi di evidente dequalificazione professionale, ha spesso rigettato le domande dei lavoratori per carenza di “specifica” prova sul danno. La pronuncia di legittimità in esame, seguendo un'interpretazione via via più liberale, sembra voler in parte invertire questa rotta, assegnando ancora una volta alla responsabilità civile un delicato compito di equilibrio. Gli stessi fatti che fondano l'accertamento della dequalificazione possono dunque, in quest'ottica, venire utilizzati anche agli ulteriori fini di accertamento del danno conseguente. Ciò non significa, all'evidenza, che vi sia un ritorno agli automatismi risarcitori del c.d. danno in re ipsa (giustamente fulminati nel passato), ma l'interprete, in casi consimili, dovrà procedere con ancora maggiore prudenza e rigore nella interpretazione e ricostruzione dei fatti (comunque) allegati e nella liquidazione del danno consequenziale.

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