Illegittima apposizione di termine ad un contratto di lavoro subordinato da parte della P.a. e il danno comunitarioFonte: Trib. Roma , 23 aprile 2015
16 Novembre 2015
Massima
Nell'ipotesi di illegittima apposizione di un termine ad un contratto di lavoro subordinato con una Pubblica Amministrazione, il danno arrecato al soggetto interessato non trova ristoro nella declaratoria di costituzione o di conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato così sottoscritto in uno a tempo indeterminato, bensì nel riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001. Detto danno, tuttavia, non può considerarsi in re ipsa ma va comunque dedotto e provato dal lavoratore, eventualmente anche a mezzo di presunzioni. La quantificazione del danno così individuato va effettuata sulla falsariga dell'indennità risarcitoria ex art. 18, L. n. 300/1970, e quindi in misura pari alle retribuzioni maturate dall'interessato dal momento in cui procede ad offerta formale della propria prestazione lavorativa alla data della sentenza, ponendo come base del calcolo l'ultima retribuzione mensile globale di fatto percepita dal lavoratore. Il caso
Un lavoratore evoca in giudizio la Fondazione Teatro dell'Opera di Roma per sentir dichiarare la nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro precedentemente da lui stipulato. Sostiene l'interessato, in particolare, che l'apposizione del termine in questione risulterebbe illegittima per non avere la Fondazione evocata in giudizio correttamente incluso il ricorrente nelle procedure cd. di stabilizzazione concordate con le organizzazione sindacali aziendali. In tal modo, a detta del lavoratore, il termine apposto al contratto risulterebbe del tutto ingiustificato atteso che – sulla base dei predetti accordi – si sarebbe dovuto diversamente concludere tra le parti un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale di Roma, con la sentenza in esame, in prima battuta accerta sulla scorta della documentazione in esame la violazione della graduatoria di stabilizzazione da parte della Fondazione. Il G.L. ritiene di conseguenza comprovata l'illegittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro del ricorrente. Una volta accertata la nullità parziale del contratto de quo sotto tale specifico profilo, il tribunale capitolino affronta quindi la delicata tematica del connesso profilo risarcitorio. Sul punto, il giudicante dapprima nega la chiesta costituzione/conversione del contratto a termine già siglato dal ricorrente in contratto di lavoro a tempo indeterminato e successivamente, in accoglimento della domanda subordinata, condanna la P.A. resistente al risarcimento del danno. In tal senso, dopo aver espressamente escluso che detto danno fosse riscontrabile in re ipsa, evidenzia la necessità di una precisa allegazione e di un'adeguata prova – anche e soprattutto a mezzo di presunzioni – dello stesso. Ritenendo integrata detta prova, quindi, liquida in favore dell'interessato una somma – determinata in applicazione dei parametri di cui all'art.18 L. n. 300/1970 – pari alle retribuzioni mensili maturate e non corrisposte dalla data dell'offerta formale della propria prestazione da parte del ricorrente a quella della sentenza: il tutto, quindi, per ben diciotto mensilità. La questione
La sentenza in esame affronta tre tematiche di grande interesse e di notevole attualità, quali:
Le soluzioni giuridiche
Le soluzioni adottate dal Tribunale romano nella sentenza in commento appaiono sostanzialmente in linea rispetto alla giurisprudenza della Corte di Cassazione formatasi recentemente in subjecta materia, discostandosene tuttavia per quanto concerne l'individuazione dei concreti criteri quantificativi del risarcimento. Appare opportuno in via del tutto preliminare inquadrare sistematicamente, in modo completo ma inevitabilmente sintetico, la vicenda oggetto della pronuncia del G.L.. Si tratta di un giudizio che rientra a pieno titolo nel nutrito filone delle controversie ingenerate dal ricorso costante e massiccio da parte della P.A. allo strumento del contratto di lavoro a tempo determinato, anche in assenza delle – stringenti - condizioni legittimanti detto utilizzo. Anche se, infatti, la forma comune del rapporto di lavoro è – per volontà del legislatore (cfr. art. 1, D.Lgs. n. 368/2001) – quella del contratto di lavoro a tempo indeterminato, la P.A. ha molto spesso fatto ricorso al contratto di lavoro a termine non per ovviare ad esigenze improvvise e non prevedibili, bensì proprio per soddisfare esigenze funzionali di tipo strutturale e costante. Sulla scorta – anche e soprattutto - delle pronunce della Corte di Giustizia intervenute a stigmatizzare tale modus operandi nell'ottica della Direttiva 1999/70/CE in materia di rapporto di lavoro a tempo determinato si è acceso, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, il dibattito circa le concrete misure sanzionatorie da adottare nei casi in esame. In particolare, la controversia è incentrata sulla portata della previsione dell'art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/2001 – che, come noto, statuisce che «la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione (…) il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative» - e sull'idoneità del sistema normativo vigente a dar luogo ad una risposta sanzionatoria che la normativa comunitaria richiede come conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività. Al riguardo, esclusa quindi la sussistenza di un diritto alla conversione e/o alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la P.A., si è affermata nella giurisprudenza della Corte di Cassazione la nozione del diritto al risarcimento in favore dell'interessato del cd. “danno comunitario”: da intendersi, quest'ultimo, come sanzione ex lege a carico del datore di lavoro pubblico che abbia abusato dello strumento del contratto di lavoro a termine. In tale ottica si pone anche la sentenza in esame che, accertata la nullità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro del ricorrente:
Il giudice del lavoro di Roma effettua in proposito una prima interessante considerazione con riferimento agli specifici oneri di allegazione e di prova che ricadono sul lavoratore ricorrente. Secondo il giudicante va esclusa in tali casi la sussistenza di un danno in re ipsa, per cui sul lavoratore incombe l'onere di allegare e dimostrare il pregiudizio risarcibile concretamente subito. Tale prova, tuttavia, può essere fornita anche a mezzo di presunzioni, non essendo possibile ritenere il richiedente obbligato a dimostrare la concreta perdita di altre, diverse e migliori opportunità lavorative a causa dell'avvenuta abusiva stipula di un contratto di lavoro a termine da parte della P.A.. Si tratta, è bene subito osservarlo, di un passaggio argomentativo quanto mai sintetico, che richiama tuttavia l'orientamento prevalente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass., n. 27481/2014) all'indomani della nota cd. ordinanza Papalia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE 12 dicembre 2013/ C-50/13). La citata sentenza della Cassazione ha richiamato, come principio di diritto vincolante per il giudice nazionale, il rilievo della CGUE per cui «l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio (…) deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale (…) la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione». Sulla base di questa premessa e dell'interpretazione del diritto nazionale prospettata dal giudice del rinvio, la Corte di Lussemburgo ha ritenuto non conforme al principio di effettività la tutela risarcitoria, del dipendente pubblico illegittimamente assunto a termine, così come precedentemente ricostruita dalla stessa Corte di Cassazione. Quest'ultima, infatti, richiedeva la prova puntuale della perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante. La CGUE ha, al riguardo, ritenuto che potendo la prova richiesta in diritto nazionale rivelarsi difficilissima – se non quasi impossibile - veniva ad essere «praticamente impossibile o eccessivamente difficile» l'esercizio, da parte dell'interessato, dei diritti attribuitigli dall'ordinamento dell'Unione e, segnatamente, del diritto al risarcimento del danno sofferto per l'illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro ad opera della P.A.. La Corte di Giustizia ha quindi concluso rinviando al giudice nazionale affinché esaminasse la possibilità di ritenere provata a mezzo di presunzioni l'esistenza del danno de quo: opzione, per l'appunto, elaborata ed espressa dalla Corte di Cassazione proprio nella sentenza n. 27481/2014. Tale orientamento è stato recentemente confermato da Cass., n. 1260/2015, la quale ha espressamente affermato che «rappresenta una violazione del diritto UE come interpretato dalla CGUE qualificare la tutela avverso l'abuso di contratti a termine illegittimi esclusivamente in termini di risarcimento del danno in senso stretto, come (…) risulta dalla giurisprudenza di legittimità che (vedi: Cass. 13 gennaio 2012, n. 392) pone a carico del lavoratore l'onere di provare il danno effettivamente patito per effetto della illegittima apposizione del termine, così richiedendo un elemento mai preso in esame dalla CGUE, che invece ha sempre configurato tale danno in modo specifico come danno-sanzione». Quest'ultima pronuncia contiene tuttavia un ulteriore passaggio quanto mai innovativo ed interessante dal punto di vista probatorio: salva restando la possibilità per il lavoratore di fare ampio uso della prova presuntiva (già menzionata nalla sentenza Cass. n. 27481/2014), il regime probatorio da applicare dovrebbe a ben vedere essere analogo alla disciplina delle discriminazioni (cfr. art. 40 cd. Codice delle pari opportunità – D.Lgs. 198/2006, applicabile in luogo dell'abrogato art. 4, comma 6, L. n. 125/1991). Basterà quindi, ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria, che il ricorrente fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno; spetterà poi all'amministrazione convenuta l'onere di provare, in concreto, l'insussistenza dell'abuso in questione. In tal modo il concreto atteggiarsi dell'onere probatorio sotto il profilo risarcitorio appare persino più favorevole al danneggiato di quanto prospettato dalla sentenza del Tribunale di Roma in commento, aprendosi la strada alla configurabilità – se non altro, in termini fattuali – di un vero e proprio danno in re ipsa. Da ultimo, la sentenza in commento individua il concreto quantum risarcitorio sulla base dei parametri di cui all'art. 18, L. n. 300/1970, e quindi in misura pari alle retribuzioni non corrisposte dalla data dell'offerta formale della propria prestazione da parte del lavoratore a quella della sentenza. Sul punto la pronuncia del Tribunale di Roma appare nuovamente quanto mai sintetica, non facendo riferimento alcuno al voluto discostamento dell'estensore dal diverso indirizzo adottato sul punto dalla Corte di Cassazione. Al riguardo, infatti, la Suprema Corte ha in diverse pronunce (tra le quali, da ultimo, le già citate Cass., n. 27481/2014 e Cass., n. 1260/2015) ritenuto «improprio» il richiamo al criterio di cui all'art. 18, L. n. 300/1970, essendo quest'ultimo riferibile ad una fattispecie priva di attinenza con il rapporto di lavoro pubblico. Allo stesso modo, la Corte ritiene «ingiustificato e riduttivo» il ricorso in via analogica al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall'art. 32, L. n.183/2010, pure ritenuto applicabile da una precedente pronuncia della stessa Cassazione (Cass., sez. lav., n. 19371/2013), in quanto relativo ad un'ipotesi del tutto diversa come la conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro privato. A giudizio della Cassazione, quindi, il criterio tendenziale da utilizzare come parametro per la liquidazione del suddetto danno da perdita del lavoro sarebbe quello indicato dall'art. 8, L. n. 604/1966. Il risarcimento del danno potrebbe in tal senso variare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità (aumentabile a sua volta nelle imprese con più di 15 dipendenti fino a 10 od a 14 mensilità, sulla base dell'anzianità di servizio del lavoratore) dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. Si tratta, è bene dirlo, di questione interpretativa ben lungi dal potersi definire conclusa, atteso che questo orientamento della Corte di Cassazione è stato criticato dalla dottrina. Si sostiene, infatti, che l'applicazione del menzionato criterio rischierebbe di negare al lavoratore la possibilità di ottenere quel risarcimento - «completo» e «proporzionato alla fattispecie» - richiesto dai principi comunitari, con inoltre un'evidente disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati. Pur di fronte all'identica condotta illegittima, infatti, solo ai secondi spetterebbe, oltre all'indennità forfettaria, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Si è quindi affermata, al contrario, la necessità – in nome di un'interpretazione sistematica delle norme che sia compatibile con l'art. 3 Cost. e con i principi di diritto enunciati dalla CGUE – di un integrale risarcimento del danno ex art. 1218 c.c., con condanna della P.A. ad un risarcimento che non sia forfettario bensì «pieno, completo e proporzionato, individuato secondo i criteri di cui agli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c., che tenga conto di tutti i pregiudizi subiti e con un effetto dissuasivo equivalente a quello prodotto nel privato dalla sanzione della conversione» (G. D. Nuzzo). Non mancano poi interessanti tesi interpretative di segno diametralmente opposto, che, postulando la non condivisibilità di tutti e tre gli orientamenti giurisprudenziali sopra descritti, sostengono che il danno concretamente risarcibile in casi come quello in esame andrebbe in realtà ricondotto alla categoria della responsabilità precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c. (L.Cavallaro). La controvertibilità della vicenda ed il consequenziale contrasto giurisprudenziale tra le Sezioni semplici della Corte di Cassazione hanno recentemente determinato la rimessione della questione alle Sezioni Unite (Cass. civ., sez. lav., n. 16363/2015). Osservazioni
È di particolare interesse osservare come, nel caso portato all'attenzione del Tribunale di Roma oggetto di commento, la ripartizione dell'onere della prova venga individuata dal giudicante come potenzialmente lesiva dei giusti diritti del lavoratore illegittimamente assunto con contratto a termine da una P.A.. Viene infatti fortemente evidenziata la natura quasi diabolica della prova del danno che viene richiesta a quest'ultimo, parzialmente mitigata da un richiamo all'utilizzabilità delle presunzioni che rappresenta un'applicazione quasi inconsapevole – non essendo tale ultima sentenza espressamente richiamata nel corpo del provvedimento – degli ultimi arresti della Corte di Cassazione sul punto. G. D.Nuzzo, Nota a Cassazione civile, sez. lav.,23gennaio 2015, n.1260, su www.altalex.com
L. Cavallaro, Il danno del precariato pubblico: una dissenting opinion, in Giustiziacivile.com
M. D'Aponte, Razionalizzazione della spesa pubblica e stabilizzazione dei precari nella P.A.: le ragioni di un equivoco, in Lavoro nelle pubbliche amministrazioni (Il), fasc.3-4, 2013, pg.574
G. Marino, Risarcimento per illegittimità del termine: la parola alle Sezioni Unite, nota a Cass.civ., sez. lav., 16363/2015, in Diritto e Giustizia |