Il danno risarcibile per la cura radioterapica effettuata in assenza di informazione
18 Marzo 2016
Massima
In caso di esecuzione di un trattamento medico-chirugico senza la preventiva acquisizione del consenso informato del paziente, il medico può essere chiamato a rispondere sia del danno da lesione del diritto all'autodeterminazione sia del danno alla salute. Il caso
Una paziente convenne in giudizio il medico radioterapista-oncologo, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti in esito alla cura radioterapica effettuata in assenza di qualsivoglia informazione. Il Tribunale, esclusa la colpa medica, ritenne violato l'obbligo di informazione gravante sul medico, con lesione del diritto fondamentale all'autodeterminazione e condannò il sanitario al risarcimento del danno quantificato equitativamente in misura pari al 10% dell'invalidità permanente. La Corte d'Appello, adita dalla danneggiata, respinse l'impugnazione. La questione
I quesiti che la Suprema Corte si trova a dover esaminare a seguito del ricorso proposto dalla paziente possono essere riassunti nei seguenti termini:
Le soluzioni giuridiche
Il Supremo Collegio, nel rispondere al primo quesito, richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui «in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute» (Cass. n. 2847/2010; Cass. n. 16394/2010). Questo orientamento appare più restrittivo rispetto a quello precedentemente formatosi in seno alla medesima corte (Cass. n. 1950/1967, Cass. n. 1773/1981, Cass. n. 9705/1997), in base al quale «la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità qualora dall'intervento scaturiscano effetti lesivi, o addirittura mortali, per il paziente, per cui nessun rilievo può avere il fatto che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto». Ciò sull'implicito rilievo che, in difetto di "consenso informato" da parte del paziente, l'intervento terapeutico costituisce un illecito, sicché il medico risponde delle conseguenze negative che ne siano derivate quand'anche abbia correttamente eseguito quella prestazione. Deve, peraltro, segnalarsi che, il principio enunciato nella sentenza in rassegna si atteggia in modo del tutto particolare nel campo della chirurgia estetica. Si è, infatti, affermato che «quando ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, all'accertamento che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato consegue ordinariamente la responsabilità del medico per il danno derivatone, quand'anche l'intervento sia stato correttamente eseguito» (Cass. 12830/2014). La Suprema Corte ha, al riguardo, precisato che «la particolarità del risultato perseguito dal paziente e la sua normale non declinabilità in termini di tutela della salute consentono infatti di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l'informazione fosse stata offerta e rendono pertanto superfluo l'accertamento, invece necessario quando l'intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur necessario e correttamente eseguito, sulle determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato». Quanto al secondo quesito, la Suprema Corte conferma il proprio indirizzo favorevole all'autonoma risarcibilità del danno da lesione dell'autodeterminazione «tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità (…) sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile ossia consistente in meri disagi e fastidi» (Cass. n. 2847/2010; Cass. n. 6045/2010). Osservazioni
Sul paziente incombe l'onere di provare quali siano state le conseguenze pregiudizievoli della mancata acquisizione del consenso informato da parte del medico (Cass. n. 2847/2010). In particolare, per quanto concerne il danno alla salute, il paziente dovrà dimostrare che, se fosse stato adeguatamente informato dal medico, egli non si sarebbe sottoposto all'intervento foriero di menomazioni dell'integrità psico-fisica. Questa prova può essere offerta mediante presunzioni (ad esempio, dimostrando che per un intervento simile il paziente aveva già manifestato il suo rifiuto) oppure acquisendo la testimonianza di chi aveva sentito il paziente affermare che se l'intervento avesse comportato un certo tipo di conseguenze (poi nel concreto verificatesi a sua insaputa), egli non lo avrebbe accettato. Quanto, invece, al danno da lesione all'autodeterminazione, occorrerà provare il turbamento e la sofferenza derivati al paziente (sottoposto ad atto terapeutico) dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l'effetto del mancato rispetto dell'obbligo di informare il paziente. A tal fine, potrà essere utile, ad esempio, una consulenza tecnica che descriva la tipologia di intervento e le sintomatologie dolorose ad esso normalmente associate. Tuttavia, è condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale che esso varchi la soglia della gravità dell'offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni Unite Cass., nn. 26972/2008 – 26974/2008, con le quali s'è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.
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