La responsabilità del medico di fiducia per omessa informazione ai colleghi

18 Giugno 2014

Delle conseguenze dannose di un intervento chirurgico eseguito in modo imperito possono essere chiamati a rispondere non solo i sanitari che l'hanno eseguito, ma anche il medico curante del paziente il quale abbia dapprima prescritto la cura i cui effetti resero necessario l'intervento chirurgico (circostanza che rileva ai fini del nesso di causalità tra condotta e danno), e poi abbia omesso di informare i colleghi chirurghi del particolare tipo di cure cui era stato sottoposto il paziente, e delle peculiarità che tali cure comportavano (circostanza il che rileva sul piano della colpa).
Massima

Cass., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4029

Delle conseguenze dannose di un intervento chirurgico eseguito in modo imperito possono essere chiamati a rispondere non solo i sanitari che l'hanno eseguito, ma anche il medico curante del paziente il quale abbia dapprima prescritto la cura i cui effetti resero necessario l'intervento chirurgico (circostanza che rileva ai fini del nesso di causalità tra condotta e danno), e poi abbia omesso di informare i colleghi chirurghi del particolare tipo di cure cui era stato sottoposto il paziente, e delle peculiarità che tali cure comportavano (circostanza il che rileva sul piano della colpa).

Sintesi del fatto

I temi della responsabilità del medico e della natura della relazione tra questi ed il paziente, storicamente dipanatisi nelle loro espressioni giurisprudenziali tra spinte contrattualiste e suggestioni aquiliane, trovano in questa sentenza della III sezione civile della Corte di Cassazione un originale punto di sintesi.

L'occasione è data dalla vicenda di una giovane donna, sottopostasi – con il controllo di un ginecologo di fiducia - ad una cura contro l'infertilità, e sulla quale – in una situazione di emergenza – viene praticato un intervento di ovariectomia a causa della osservazione, da parte di altri sanitari, dell'ingrossamento delle ovaie, negligentemente non inferito alle conseguenze della cura stessa.

I Giudici di merito, nel decidere sulle doglianze della donna, avevano ritenuto il ginecologo non responsabile del danno procuratole.

La questione

Con la pronuncia in esame, invece, la Suprema Corte capovolge radicalmente la prospettiva, affermando che l'inadempimento del medico di fiducia al dovere di cura e di compartecipazione in una situazione di emergenza non è occasione di sventura ma concausa del fatto, con la conseguenza che anche il ginecologo va riconosciuto responsabile per aver consigliato il ricovero ma non essere intervenuto per dare ai medici - che peraltro operavano in condizioni di urgenza - le necessarie informazioni sulle cure, sui farmaci assunti e – in ultimo – sul dovere di astenersi dal praticare interventi ablatori su un soggetto giovane ed integro e dunque in grado, se adeguatamente curato, di procreare.

Quale la linea argomentativa?

La reprimenda degli Ermelllini sull'operato dei Giudici di merito trova la sua cornice concettuale nella contestazione della violazione delle “chiare indicazioni date dalle Sezioni Unite, che contengono i dicta giurisprudenziali ormai consolidati in ordine alla costruzione della responsabilita' medica secondo principi costituzionali di garanzia per la salute dei singoli e della collettivita'”.

Val la pena di ricordare, con puntualità, i passi delle storiche sentenze di San Martino cui la Corte si riferisce (Cass., S.U., sent., 11 novembre 2008, 26972/3/4/5)

Si tratta del ragionamento che – muovendo dalla constatazione che l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali – giunge ad elevare i c.d. contratti di protezione, ovvero quelli stipulati nel settore sanitario, a significativo esempio dei casi in cui l' inadempimento di un debitore lede diritti inviolabili della persona e, dunque, procura pregiudizi non patrimoniali.

In questo quadro le Sezioni Unite affermano, peraltro, che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcirlo, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, precisando che “se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni”.

Le soluzioni giuridiche

Sono proprio questi principi, nel caso di specie, a forgiare il grimaldello che scardina la tesi -fino ad allora vittoriosa - della irresponsabilità del ginecologo di fiducia.

Scrivono infatti i Giudici della terza sezione civile che, nel caso di specie, la domanda attrice faceva leva sia sulla responsabilità aquiliana del medico per gravissima negligenza omissiva, sia su quella da responsabilità da contatto sociale con obbligo di garanzia, in relazione alla sequela delle cure e delle medicine sperimentate nel corso dell'affidamento alla professionalità e specialità dello stesso.

Sul punto v'è da segnalare come da tempo la Corte di Cassazione avesse comunque già sancito il principio della irrilevanza pratica della qualificazione del titolo della pretesa giudiziale (in termini di inadempimento o illecito) da parte dell'attore (ex multis: Cass., n. 6064/1994).

Peraltro, proprio in relazione alla questione qualificatoria, va detto che essa sembrava aver avuto – prima dello scompiglio creato dalla tecnica nomopoietica adottata nella stesura della c.d. legge Balduzzi (e di cui si dirà appresso) – un approdo definitivo nella sentenza di Cass., n. 589/1999.

Questa pronuncia, infatti, è tradizionalmente considerata come linea di displuvio fra la fase di inquadramento della responsabilità medica in termini aquiliani e quella di valorizzazione della tesi del “rapporto contrattuale di fatto” ovvero del “contatto sociale”.

Il modello qui elaborato è infatti quello di "un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", che, riconosciuto che sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che professa, orienta a considerare esistente un vincolo tra il medico e il paziente e così a trarne la necessaria incasellabilità entro gli schemi della responsabilità contrattuale.

Tale ultima impostazione è stata inoltre suffragata dal rilievo che, stando ad un certo filone dottrinario, l'art. 1173 c.c., che stabilisce che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale (tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, può annoverarsi il diritto alla salute), che trascendono singole proposizioni legislative.

Nel caso che ci occupa il modello contrattuale viene quindi riconosciuto coesistente a quello extracontrattuale di cui la storica sentenza Cass.,n. 589/1999 aveva comunque sancito l'obsolescenza (con ovvie ricadute, sul piano pratico, in termini di perimetrazione dei danni risarcibili, regime prescrizionale ed onere della prova).

Ma, come detto, il tema è fluttuante giacché le suggestioni aquiliane della responsabilità medica si sono prepotentemente materializzate avvitandosi attorno all' arzigogolo lessicale disegnato dall'art. 3 d.l. n. 158/2012 convertito con modificazioni dalla l. n. 189/2012.

Con questa disposizione si è infatti nuovamente formalizzata una responsabilità dell'esercente la professione sanitaria ex art. 2043, così lasciando ipotizzare – quantomeno alle prime apparenze – o una grossolana sciatteria dovuta all' ignoranza dei dicta delle precitate sentenze di San Martino o una consapevole (ma obiettivamente meno probabile) virata verso la direzione opposta a quella seguita da oltre un decennio di pronunce sul tema.

A tutt'oggi, tuttavia, non sembra essersi ancora registrato alcun programma argomentativo idoneo a sostenere la ratio di una scelta di politica di diritto che comunque appare –a dirla tutta –figlia di una clamorosa insipienza tecnica.

Ad ogni buon conto, al di là dello spunto per trattare la vexata quaestio della qualificazione della responsabilità in parola (e della recrudescenza di esso a causa della legge Balduzzi) questa sentenza dà spiccata evidenza anche ad altra questione, di altrettanto spessore.

Scrive infatti la terza sezione civile che il Giudice di appello - che aveva la cognizione piena del devolutum - ha disapplicato i criteri di legge sull'accertamento della responsabilità civile.

Tale disapplicazione – nella valutazione dei Giudici di legittimità – ha la sua espressione più severa nella teoria del nesso di causalità accolta nelle fasi di merito, che non ha tenuto conto del potenziale eziologico dell'omissione informativa del medico di fiducia.

Omissione che si è concretata sia in un difetto di collaborazione con i colleghi della struttura di ricovero, sia nella deliberata inerzia nel consentire l'affidamento della propria paziente alla inesperienza della casa di cura.

Il dato è interessante.

La tesi di Piazza Cavour è infatti questa: il medico di fiducia il quale abbia contezza –in ragione di un pregresso rapporto instauratosi con il proprio paziente – dello stato clinico di quest' ultimo non va mandato esente da responsabilità nell'ipotesi in cui, avuto conoscenza di un suo ricovero, non sia intervenuto per debitamente istruire i sanitari.

In questa prospettiva, l'apprestamento di cure mediche inadeguate, ovvero di interventi chirurgici non necessitati, non è eziologicamente riconducibile solo all'imperizia dei sanitari intervenuti in seconde cure (a maggior ragione se intervenuti in una condizione di emergenza ) ma anche – quale fattore concausale – alla condotta omissiva di chi, rivestendo la qualità di professionista medico e avendo avuto una relazione qualificata con il soggetto che ne è stato destinatario, sia rimasto inerte e non abbia condiviso i dati del quadro anamnestico a lui già noto.

Questa condotta colposa viene espressamente qualificata dai Giudici del Palazzaccio come “gravissima negligenza omissiva” a significare, quindi, che si tratta di situazione soggettiva compiutamente e funzionalmente idonea – in sé per sé considerata - a contribuire alla determinazione di un danno.

Osservazioni e suggerimenti pratici

L'applicazione pratica di questo principio è prospetticamente intuibile: può infatti ritenersi che – in sede giudiziale – si potrà ampliare il novero dei professionisti sanitari chiamati a rispondere di danni lamentati in sede di “seconde cure” e, correlativamente, chiedere di estendere il campo di indagine delle consulenze tecniche alla verifica più analitica delle condotte dei medici intervenuti su un paziente prima di quelli accorsi in un momento più prossimo – sul piano temporale - all'accadimento dell'evento (dedotto come) pregiudizievole.

Resta da chiedersi, infine, – e si tratta di questione non puramente accademica - perché i Magistrati nulla abbiano voluto dire sulla qualificazione bidirezionale della responsabilità effettuata da parte ricorrente.

La pronuncia in commento fa infatti cenno ad un rapporto fra la paziente ed il primo medico in termini extracontrattuali ma anche a quello fra la stessa ed i sanitari successivamente intervenuti in termini contrattuali (dunque più evoluti, sul piano giurisprudenziale), seppure si tratti di relazioni contenutisticamente affini e giuridicamente identiche, salvo il dato dello stato di emergenza nel secondo.

Qualche interrogativo è senz'altro legittimo sia se si considera il portato della cennata sentenza del 1999, che già pareva risolvere in termini definitivi il tema, sia se si guarda alla archiviazione della necessità del doppio binario da parte delle Sezioni Unite, che, valorizzando la tesi contrattualista con riguardo al problema del cumulo delle azioni – aveva già enervato la responsabilità medica dalle qualificazioni tipiche del regime extracontrattuale (ovvero la negligenza, l'imprudenza e l'imperizia).

Del resto gli stessi Giudici di questa pronuncia si esprimono menzionando l' “inadempimento del medico di fiducia al dovere di cura”, così evocando l'aderenza del tema ad una tesi opposta da quella formalizzata nelle domande introduttive, pure sposata.

Si può azzardare una risposta e ipotizzare che la questione della natura della responsabilità sanitaria e medica non sia affatto chiusa (il caso sorto intorno alla legge Balduzzi docet) e che la pronuncia in parola abbia – più o meno consapevolmente – voluto lasciare socchiusa la porta in vista dell'arrivo di ulteriori esperimenti ibridatori, così facendo però soffiare anche il venticello di antiche soluzioni qualificatorie.

Conclusioni

In futuro, quindi, potrebbero non mancare nuove e più audaci ricostruzioni tassonomiche fondate, da un lato sulla teorica possibilità di combinare – in una stessa fattispecie – categorie aquiliane e categorie contrattualiste e, dall'altro, sulla pratica necessità di osservare i singoli fotogrammi di una intera vicenda medica per inferire alle une o alle altre il titolo della responsabilità che venga (di volta in volta) effettivamente in linea di conto.

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