Le pratiche commerciali scorrette
21 Dicembre 2016
Il TFUE, agli artt. 4, 12, 169, pone al centro della politica interna europea la protezione dei consumatori, al fine di assicurare il buon funzionamento del mercato interno. Le pratiche commerciali scorrette sono definite dalla direttiva n. 29/2005 e dal cod. consumo, che le qualifica come l'agire contrario alla diligenza professionale e idoneo a falsare in modo rilevante e apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, ovvero ad «alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole inducendolo ad assumere una decisione di natura commerciale, che non avrebbe altrimenti preso». Il legislatore europeo con il provvedimento in esame, che presenta una struttura normativa «a cerchi concentrici» (M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contratto e Impresa, 2009), ha introdotto una nozione di consumatore, quale operatore economico, nonché «uno strumento di governo della concorrenza e di sollecitazione della competitività (A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. Dir. Priv., 2010 )». La disciplina codicistica individua le condotte scorrette, operando una distinzione tra quelle ingannevoli, idonee a indurre in errore il consumatore medio, falsandone il processo decisionale e quelle aggressive, moleste, coercitive o dirette a esercitare un indebito condizionamento. La nozione introdotta dall'art. 18 cod. consumo, sotto il profilo oggettivo, è amplissima, poiché comprende ogni condotta posta in essere in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto, che incida sfavorevolmente nei riguardi del consumatore medio. L'orientamento giurisprudenziale prevalente evidenzia la peculiarità della posizione del consumatore, che giustifica un trattamento differenziato (C. Cost., 22 novembre 2002, n. 469), poiché versa in una condizione di debolezza contrattuale. «L'onere di completezza e chiarezza informativa previsto dalla normativa a tutela dei consumatori richiede che ogni messaggio rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare e sanziona la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, qualora ciò renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato (Tar Lazio, Roma, sez. I, sent. 15 luglio 2016 n. 8159)». Occorre precisare che la giurisprudenza europea (C.G.U.E. 16 aprile 2015 n. 388) classifica come scorretta, ai sensi della Direttiva n. 29/2005, la singola condotta del professionista, anche se occasionale ed episodica, ovvero sia stata tenuta una sola volta nei riguardi di un solo consumatore. Siffatta qualificazione prescinde dalla frequenza della pratica addebitata, dall'intenzionalità o meno della stessa e dall'importanza del danno causato al predetto (art. 11). La Corte di Giustizia demanda alla discrezionalità degli Stati membri la scelta delle misure nazionali destinate a combattere le pratiche commerciali sleali, con la previsione di un regime adeguato di sanzioni nei confronti dei professionisti, che rispondano al principio di proporzionalità. A tal proposito, parte della dottrina (A. Genovese, Pratiche sleali, diligenza professionale e regola de minimis, in I Contratti, 2015) ritiene che tale orientamento non sia coerente con la regola de minimis disciplinata dalla direttiva stessa, secondo la quale la pratica commerciale dovrebbe esplicare effetti di rilevanza macroeconomica, fatto salvo che la condotta sia ripetibile, ovvero potenzialmente reiterabile. Tuttavia, si rileva che l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha, più volte, evidenziato che la nozione di pratica commerciale definita dal Codice del consumo non si fonda su un criterio statistico o quantitativo, bensì è comprensiva di qualsivoglia condotta che «possa essere astrattamente replicata a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari». La Patologia
L'art. 19 cod. consumo sancisce che, per effettuare il giudizio di scorrettezza, rilevano le condotte poste in essere prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa ad un prodotto o ad un servizio offerto da un professionista ad un consumatore, tali da influenzare o idonee a influenzare la decisione di natura commerciale del consumatore, in relazione all'acquisto o meno un prodotto, in che modo farlo, a quali condizioni, se pagare integralmente o parzialmente, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto. La giurisprudenza risalente definiva il consumatore medio quale consumatore normalmente informato, ragionevolmente attento e avveduto e ravvisava la necessità di valutare tale parametro non in astratto, bensì in relazione al prodotto. L'orientamento giurisprudenziale recente afferma che il soggetto che offre un prodotto o una prestazione ha l'onere di rendere disponibili tutte le informazioni rilevanti ai fini dell'adozione di una scelta consapevole da parte del consumatore, secondo una valutazione ex ante, che non si basa sull'idoneità della condotta ingannevole rispetto alle effettive competenze dei soggetti che sono specificamente venuti in contatto con l'operatore, né sul concreto danno ad essi procurato (Tar Lazio, sez. I, sent., 8 gennaio 2013n. 104, Tar Lazio, sez. I, sent., 18 settembre 2014 n. 982, Tar Lazio, sez. I, sent., 21 gennaio 2015 n. 994). Infatti, è sufficiente che il professionista di fatto sfrutti lo svantaggio negoziale del consumatore, affinché si determini la patologia del rapporto, dovuta all'inefficienza dello scambio. Inoltre, sia pure osservando la disciplina di settore, il professionista può agire in contrasto con la diligenza professionale richiesta dalle norme a tutela del consumatore. Occorre evidenziare che la condotta del predetto deve realizzare non solo la disciplina speciale, bensì anche il più generale principio di buona fede, a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore. Parte della dottrina (M. Bertani, Pratiche Commerciali Scorrette e Consumatore Medio, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale, Giuffré, 2016; M. Libertini, Diritto della concorrenza dell'Unione Europea, Giuffré, 2014; C. Punzi, “Ragionevolmente e avveduto”. Note sulla responsabilità del consumatore nell'economia della conoscenza, negli Scritti in onore di Marcello Foschini, Padova, 2011) individua la diligenza professionale nella misura di competenza/perizia e attenzione/diligenza necessaria per assicurare la scelta consapevole e libera in ordine al prodotto o servizio trattato dal professionista da parte del consumatore medio. Sul professionista grava un dovere di diligenza, che consiste in una condotta omissiva o commissiva idonea ad assicurare al predetto la libertà decisionale. Perché si realizzi una pratica commerciale scorretta occorre un nesso causale tra la condotta tenuta dal professionista e la promozione di beni o di servizi a consumo, e/o l'instaurazione o l'esecuzione di rapporti contrattuali fra professionisti e consumatori. L'allegato I della Direttiva n. 29/2005 individua le pratiche ritenute in ogni caso ingannevoli e aggressive, recepite a livello nazionale con gli artt. 23 e 26 cod. consumo. Esse sono qualificate a priori senza che sia necessario dimostrarne la non conformità alla diligenza professionale e l'idoneità ad influenzare il consumatore. Le pratiche commerciali individuate dalla black list sembrerebbero non consentire al professionista di esercitare la prova liberatoria. Tuttavia, alcuni autori (M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, a cura di A. Genovese, Cedam, 2008) ritengono che il predetto possa sempre eccepire la correttezza e l'innocuità della pratica, considerata l'evoluzione in concreto di tutte le circostanze del caso, poiché la lista nera conterrebbe soltanto presunzioni semplici, non assolute, di scorrettezza della condotta. Ad ogni buon conto, è possibile affermare che siffatta disciplina, diretta a tutela di un interesse generale, ha carattere preventivo, poiché non ha l'obiettivo di assicurare una reazione alle lesioni effettivamente arrecate agli interessi patrimoniali del singolo consumatore, fatta salva la possibilità in capo al consumatore di esperire azione civile (Cons. St., sez. VI, sent. n. 3763/2011). L'art. 3 della Direttiva n. 29/2005, recepito con l'art. 19, comma 3, cod. consumo, dispone che «in caso di contrasto tra le disposizioni della direttiva e altre norme comunitarie che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici». Dunque «la normativa speciale di derivazione comunitaria in materia di pratiche commerciali scorrette potrà prevalere sulla normativa generale solo in caso di contrasto tra discipline e solo limitatamente agli aspetti specifici cui essa si riferisce. Il contrasto va ricercato e individuato a livello di Ordinamento europeo, non potendo essere ricostruito a valle negli ordinamenti nazionali. Il principio di specialità opera solo nei confronti degli aspetti specifici della pratica commerciale contemplati dalla legge speciale di derivazione comunitaria (ossia da norme nazionali che recepiscono norme dell'UE), ed è un principio di specialità per fattispecie e non per settori (Cons. St., sez. VI, sent., 5 marzo 2015 n. 1104)». D'altro canto, la giurisprudenza europea (CGE, 19 settembre 2013, C-435/11) qualifica una pratica commerciale ingannevole nei confronti del consumatore, quando essa soddisfi tutti i criteri individuati dall'art. 6, par. 1, della Direttiva n. 29/2005, senza che sia necessario verificarne la contrarietà alle norme di diligenza professionale. Profili Risarcitori
L'esame dell'istituto ha evidenziato che i comportamenti con i quali il professionista incide sulle scelte del consumatore in tutte le fasi del rapporto di consumo rientrano nella nozione di pratiche commerciali scorrette. La giurisprudenza afferma che sono inclusi in tale ambito concettuale anche quei comportamenti posti in essere dopo la stipula del contratto, realizzati nell'ambito delle vicende estintive del rapporto tra professionista e consumatore (Cons. St., sez. VI, 26 settembre 2011n. 5368; Cons. St., sez. VI, 5 gennaio 2015 n. 41), comprese le condotte attive o commissive legate ad una operazione commerciale, successive alla conclusione del negozio giuridico, purché a quest'ultimo finalisticamente riconducibili (Tar Lazio, sez. I, 6 dicembre 2015 n. 14101). Quindi la pratica rilevante può investire gli incombenti successivi all'esaurimento della fattispecie negoziale con riguardo alle prestazioni che si accompagnano necessariamente alla operazione commerciale conclusa (Cons. St., sez. VI, 24 agosto 2011n. 4800). Si pensi a quanto disposto dalle Linee Guida della Commissione Europea di orientamento per l'attuazione della Direttiva 2005/29/CE , del 3 dicembre 2009, che prevedono espressamente «che le attività di recupero dei crediti sono considerate pratiche commerciali post-vendita disciplinate dalla direttiva. Infatti, quando un consumatore deve a un professionista una certa somma di denaro (debito del consumatore), il recupero di tale credito (a livello aziendale o da parte di terzi) è direttamente legato alla vendita o fornitura di prodotti o servizi». La condotta del professionista deve essere contraria alla diligenza, che richiama, quali corollari, la correttezza e la buona fede, che attengono ai rapporti obbligatori, precontrattuali e contrattuali ed assume il ruolo di fonte, che determina il contenuto dell'obbligo del predetto nei confronti del consumatore, con lo scopo di preservarne o comunque favorirne la libertà di scelta e la sua consapevolezza (F. Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e diritto privato, 2010). L'azione del professionista può essere considerata diligente solo se risulta anche rispettosa delle regole desunte dalla correttezza/buona fede. La diligenza può essere considerata perizia, ovvero come l'insieme delle regole di condotta professionali cui il professionista deve conformarsi. Il contenuto della stessa deve essere proporzionale in relazione all'interesse da proteggere. La dottrina (A. Gentili, op. cit.) afferma che la disciplina repressiva delle pratiche scorrette è «prova assoluta della loro antigiuridicità e dell'ingiustizia del pregiudizio», poiché lesivo di un interesse del consumatore rilevante e protetto. Nel caso di specie il danno non deve necessariamente sussistere, perché dal comportamento che ha falsato la scelta dell'acquirente può non aver prodotto pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, che dia luogo a domande risarcitorie. Alcuni autori (G. D'Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, Giuffré, 2014) asseriscono l'irrilevanza del carattere intenzionale o meramente colposo della ingannevolezza o aggressività della pratica commerciale. La giurisprudenza afferma che nel qualificare come scorretta una pratica commerciale pubblicitaria, diretta a condizionare la libertà di scelta del consumatore, si prescinde dall'effettiva lesione patrimoniale arrecata. Ciò che assume rilievo, nella condivisibile qualificazione dell'illecito consumeristico come illecito di mero pericolo, non di danno, è la potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista, indipendentemente dal pregiudizio causato in concreto al comportamento dei destinatari, indotti ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso (Tar Lazio, sez. I, sent., 8 gennaio 2013 n. 104; Cons. St., sent., 2 febbraio 2016, n. 1436). Si osserva che l'effettiva incidenza della pratica commerciale scorretta sulle scelte dei consumatori non costituisce elemento idoneo a elidere o ridurre i profili di scorrettezza della stessa, poiché gli effetti della condotta si pongono al di fuori della struttura dell'illecito, con la conseguenza che essi possono essere significativi soltanto come elemento aggravante, qualora il comportamento inadeguato abbia avuto arrecato pregiudizio nell'ambito dei consumatori. Il carattere ingannevole della pratica commerciale dev'essere valutato ex ante, a prescindere dall'esito concretamente lesivo prodotto dalla condotta del professionista e dall'effettiva lesione patrimoniale arrecata. Rileva, invece, la potenzialità dannosa del comportamento posto in essere dal professionista, che ha indotto i destinatari ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso (Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014n. 6050). Affinché si determini un illecito concorrenziale non è sufficiente la violazione degli obblighi informativi, bensì occorre che da tale violazione derivi un condizionamento tale da limitare considerevolmente, se non addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti e integrare in tal modo la fattispecie sanzionata dall'art 26 cod. cons., ovvero una pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva (Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016 n. 2; Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016 n. 3). Occorre precisare che l'ordinamento interno non prevede uno specifico rimedio civilistico. Il codice del consumo disciplina i procedimenti conciliativi, cautelari e di merito esperibili davanti all'Autorità giudiziaria ordinaria e l'azione di classe ( art. 140). Il giudice civile dovrà indicare il rimedio più idoneo attraverso la valutazione della parte dell'attività negoziale che è stata condizionata dalla pratica commerciale scorretta. Il rimedio applicabile sarà differente se il condizionamento da parte dell'attività imprenditoriale illecita ha interessato la scelta del consumatore di stipulare il contratto, ovvero le condizioni del contratto. In via di principio, potranno applicarsi, anche in eventuale concorso, rimedi di responsabilità precontrattuale, extracontrattuale o contrattuale o rimedi di validità, annullabilità o nullità. La disciplina codicistica fissa la competenza in ordine alla sussistenza della fattispecie e, in caso positivo, all'adozione di misure volte alla cessazione e alla rimozione degli effetti in capo all'Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato. Avverso le decisioni della predetta il professionista può ricorrere dinanzi al Giudice amministrativo.
La giurisprudenza amministrativa risalente (Cons. St., Ad. Plen., 11 maggio 2012 n. 11 -16) è intervenuta sul tema della actio finium regundorum tra l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ed altre autorità indipendenti, riguardo ai procedimenti aventi come finalità la tutela dei consumatori, ricostruendo il rapporto sulla base del criterio della specialità per settori, secondo il quale in alcuni casi la competenza è dell'Autorità antitrust, in altri dell'Autorità di settore.
La giurisprudenza amministrativa recente (Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016 n. 3 e Tar Lazio, 9 febbraio 2016 n. 4) ha rilevato che per individuare l'Autorità competente all'emanazione di provvedimenti sanzionatori in materia di pratiche commerciali sleali nel settore delle comunicazioni deve essere seguito un criterio di specialità per fattispecie concreta e non per settori. Nella specie, ove lo stesso fatto risulti disciplinato da più corpi normativi, dovrà applicarsi la sola disposizione speciale individuata in base ai criteri noti nel nostro ordinamento e in modo compatibile con l'ordinamento comunitario nella specifica materia di pertinenza comunitaria. Pertanto, anche nel settore delle telecomunicazioni, sarà competente l'Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato. Inoltre, ha attribuito all'art. 27, comma 1-bis, cod. consumo natura di interpretazione autentica. La norma in esame assegna l'enforcement in via esclusiva alla predetta Autorità anche quando la disciplina settoriale prevalga su quella generale, in quanto si realizza «più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione».
In conclusione
In conclusione è possibile affermare, da una parte, che la diligenza è regola di condotta, alla quale il professionista deve attenersi e «canone rispetto al quale verrà valutata l'attenzione e la competenza del professionista stesso» (F. Lucchesi, Pratiche commerciali scorrette: definizioni e ambito di applicazione (Artt. 18-19), in Contratto e responsabilità. Il contratto dei consumatori, dei turisti, dei clienti, degli investitori e delle imprese deboli. Oltre il consumatore, a cura di G. Vettori, Padova, 2013). Dall'altra, che una pratica commerciale non potrà essere considerata scorretta solo allorquando sia contraria alla diligenza professionale. Affinché possa essere così qualificata vi è necessità che abbia l'attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio (G. De Cristofaro, La Direttiva 2005/29/CE. Contenuti, rationes, caratteristiche, in Le pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G. De Cristofaro, Torino, 2007). Nel caso di specie, il bene giuridico tutelato è la libertà di scelta consapevole del consumatore, che, nell'ipotesi di alterazione esplica effetti in ambito economico. Di conseguenza il contenuto patrimoniale ha un rilievo soltanto indiretto. La reazione dell'ordinamento nei confronti delle pratiche commerciali scorrette non interessa l'ambito della tutela individuale invalidatoria e/o risarcitoria, bensì quello della tutela dell'interesse collettivo dei consumatori e dell'interesse generale del mercato, come conferma l'attribuzione della competenza in materia all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato” (G. D'Amico, op. cit.). La disamina dell'istituto sin qui condotta richiama l'attenzione dell'interprete sulla ratio sottesa alla disciplina dell'istituto, volta ad assicurare il corretto funzionamento del mercato interno e un elevato livello di tutela dei consumatori.
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