Il Comune non è responsabile della morte per annegamento in mare di un uomo se l’evento è imputabile solo alla sua condotta imprudente

Stefano Parma
30 Dicembre 2016

L'obbligo risarcitorio delle pubbliche Autorità che abbiano violato i generali obblighi di precauzione è escluso se l'unica causa della morte di un individuo è la sua condotta negligente di assunzione colpevole e volontaria di un rischio grave per la vita.
Massima

È escluso l'obbligo risarcitorio delle pubbliche Autorità che abbiano violato i generali obblighi di precauzione per avere ricostruito, in fatto, quale unica causa della morte di un individuo, la sua condotta negligente di assunzione colpevole e volontaria di un rischio grave per la vita. Tale contegno supera, a parere della Suprema Corte, il controllo di proporzionalità richiesto dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo in tema di tutela del diritto fondamentale alla vita, oggetto dell'art. 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali.

Il caso

I Sig.ri V. D.B., A. M. e S. D.B., in qualità di congiunti (rispettivamente genitori e fratello) del defunto F.D.B., proponevano ricorso per la revocazione della sentenza emanata della Suprema Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2014 n. 11532).

Tale procedura veniva proposta a seguito dell'accoglimento del ricorso proposto da Comune di C. avverso la sentenza della Corte d'Appello di Campobasso (App. Campobasso, n. 66/2011), ove lo stesso veniva condannato al risarcimento dei danni patiti dai congiunti per il decesso del Sig. F. D.B., annegato mentre faceva il bagno in un tratto di mare prospiciente il litorale del Comune sopra menzionato, privo di adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio o di segnalazioni sulla pericolosità del tratto di mare in questione.

Il Comune di C., oltre a resistere al controricorso presentato dai congiunti del defunto, proponeva controricorso incidentale condizionato.

La Corte di Cassazione riformava integralmente la sentenza della Corte territoriale adita, escludendo la responsabilità del Comune da cose in custodia ex art. 2051 c.c. ed, in ogni caso, l'assenza di qualsivoglia nesso causale tra l'annegamento del Sig. F.D.B. e la prospiciente spiaggia. A nulla rilevava nel caso di specie, a parere della Suprema Corte, l'assenza degli avvisi sulla pericolosità del luogo. Elemento dirimente ai fini della decisione verteva pertanto sull'individuazione della causa efficiente della morte del giovane.

Ebbene, nel caso concreto essa veniva ravvisata nella condotta del soggetto che, coscientemente e volontariamente, si esponeva al rischio grave e percepibile con l'ordinaria diligenza di gettarsi, senza saper nuotare, in un tratto di mare agitato di cui non conosceva le impervie condizioni, né le correnti. Tale avventato contegno costituiva pertanto causa sopravvenuta, ex se, idonea a causare l'evento morte.

A fronte di tale pronuncia, gli eredi del sig. F.D.B. decidevano di proporre ricorso per la revocazione della sentenza di Cassazione, ritenendo sussistente l'errore della Suprema Corte.

Precisamente lamentavano l'errata:

1. qualificazione del tratto di mare antistante la piazza del Comune;

2. attribuzione di rilevanza a fatti risultati inesistenti a seguito dell'istruttoria.

A tali motivi di ricorso gli istanti aggiungevano, altresì, la violazione dell'art. 46 dell'obbligo dell'Italia di conformarsi alle decisioni della Corte dei Diritti dell'Uomo e l'inosservanza dell'art. 2 della CEDU sul diritto alla vita.

A fronte di tali motivi di ricorso, la Sesta Sezione coglieva l'occasione per chiarire la portata dell'istituto dell'errore revocatorio in tema di sentenze della Corte di Cassazione, così definendolo «l'errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti del giudizio di legittimità e tale da aver indotto la stessa Corte di Cassazione a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nelle realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati».

Si desume pertanto che l'erroneità nella valutazione di fatti storici o della rilevanza di questi ai fini della decisione sono ipotesi che non consentono di accedere al mezzo d'impugnazione della revocazione.

Alla luce della predetta definizione, la Suprema Corte adita rilevava l'insussistenza nel caso concreto di errori revocatori per poi esprime il principio di diritto sancito nella sentenza in esame.

Tale principio di diritto, invero, ha pregio in quanto dimostra la capacità della Corte adita di compiere un ragionevole contemperamento tra gli interessi in gioco, entrambi meritevoli di tutela. In tale pronuncia si contrappongono, infatti, da un lato il diritto alla vita degli utenti da parte dello Stato e delle Autorità pubbliche, dall'altro il diritto della collettività a non dover subire, in un'ottica di autoresponsabilità, le conseguenze dannose derivante da condotte imprudenti e negligenti. Quale diritto deve prevalere a discapito della compressione dell'altro?

La questione

La condotta imprudente e negligente di un soggetto, che volontariamente e coscientemente si espone ad un rischio grave e percepibile con l'uso dell'ordinaria diligenza, può costituite causa efficiente ed esclusiva dei danni da esso derivati, quale persino la morte? Al punto tale da escludere la responsabilità risarcitoria delle Autorità pubbliche che, tenute all'adempimento degli obblighi cautelari, li violi?!

Soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, adita con il mezzo revocatorio, risolveva la questione giuridica escludendo l'obbligo risarcitorio in capo alle Autorità pubbliche, sebbene avessero violato precisi obblighi cautelari sulla scorta dell'efficienza causale esclusivamente addebitabile alla condotta dell'utente; quest'ultimo infatti, con coscienza e volontà, teneva una condotta negligente ed imprudente, assumendosi così il rischio delle proprie azioni.

Tale pronuncia si fonda sulla necessità di compiere un bilanciamento efficace ed aderente al caso di specie tra due interessi contrapposti: da un lato, il dovere delle Autorità pubbliche di adempiere gli obblighi cautelari su di esse incombenti (per legge) e posti a presidio della vita degli utenti e, dall'altro, il principio di auto-responsabilità dell'utente stesso che, consapevole dei propri limiti, anche fisici, si assume il rischio della sua condotta.

Il ragionamento giuridico della Corte che ha portato poi al principio di diritto in esame si fonda su un principio di matrice europea, il principio di proporzionalità.

Nel contesto dell'ordinamento italiano l'influenza del principio di proporzionalità dell'UE si è manifestata sin dalla prima metà degli anni '90, persino infrangendo la concezione dualistica del rapporto tra i due ordinamenti (nazionale e comunitario), i quali si presentano, a tenore della Corte Costituzionale, autonomi e distinti.

Tale posizione politico-giuridica non ha però precluso al nostro ordinamento di ispirarsi e recepire principi cardine di matrice europea, primo fra tutti proprio quello di proporzionalità.

Questo

tal

principio tende a bilanciare, ai fini di una corretta valutazione comparativa, gli interessi concretamente in gioco, senza attribuire un peso determinante alla misura del sacrificio patito dal singolo. Il sindacato diventa invero sempre più complesso e stringente a mano a mano che involga diritti di rango superiore.

Il principio sopra menzionato si ispira pertanto ad un modello di tutela giurisdizionale certamente di tipo oggettivo e non morale.

Nel caso di specie viene in rilievo il diritto alla vita, solennemente proclamato in tutte le Carte internazionali e sovranazionali che rappresentano il fondamento da cui poi discendono gli strumenti di tutela dei diritti dell'uomo e della personalità: ex multis, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU) e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

A riprova si veda il disposto dell'art. 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali il quale prevede, al primo periodo del suo comma 1, che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge».

Invero, è necessario evidenziare come nella Costituzione italiana non vi sia positivizzazione del diritto alla vita. La ratio di siffatta scelta la si rinviene nei lavori preparatori, a tenore dei quali è stato evitato ciò volontariamente per non dover essere costretti a restringere in un testo scritto concetti che appartengono - per usare l'espressione della sentenza della Corte costituzionale (C. Cost. n. 1146 del 1988) – «all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione stessa».

Nel nostro ordinamento i diritti della personalità, tra i quali il diritto alla vita, rinvengono un espresso riconoscimento costituzionale come in molte occasioni affermato dalla Corte costituzionale, precisamente nell'art. 2 Cost.

Osserva tuttavia la Cassazione che devesi contemperare adeguatamente l'esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri, che impone l'obbligo anche alle pubbliche autorità di adottare ogni precauzione per scongiurare pericoli per la vita stessa degli individui, con quella — altrettanto imperiosa e dettata da elementari esigenze di ragionevolezza — di non accollare alla collettività le conseguenze dannose, soprattutto di natura economica, che derivino da condotte che siano qualificate come assurte in via esclusiva a volontaria e consapevole esposizione al rischio serio o grave per la vita da parte della potenziale vittima e quindi unica causa del danno da questa patito, quand'anche al bene primario della vita stessa.

Dubbiosa risultava, nel caso in esame, la natura giuridica e la qualificazione del bene “mare” e pertanto la riconducibilità di un siffatto bene al potere di custodia ex art. 2051 c.c. del relativo Comune.

La problematica può comprendersi invero già richiamando le innumerevoli pronunce rese ex art. 2051 c.c. nell'ambito della circolazione stradale con riferimento proprio alle strade. In tale ambito si è riscontrato un revirement del principio di responsabilità da cose in custodia. La Corte oggi distingue infatti i casi in cui il soggetto proprietario della strada ne abbia il controllo diretto e dunque la custodia (come accade per le strade urbane), da quelli in cui l'impossibilità concreta di controllo diretto esclude la custodia (come è per le strade extraurbane). I danni risentiti dai terzi a causa di vizi della strada, quali buche e simili, sono addebitati al proprietario ex art. 2051 c.c. in presenza della possibilità di controllo e quindi di custodia, mentre gli potrebbero essere ascritti solo sulla base del generale principio del neminem laedere (art. 2043 c.c.) in carenza di tale possibilità.

Ebbene, analoga è proprio la concezione affermatasi nel campo parallelo dei beni demaniali marittimi: la responsabilità dello Stato per i danni derivanti dagli stessi viene ricondotta all'art. 2051 c.c. (responsabilità da cose in custodia) quando vi è la possibilità di controllo diretto, come è per i moli, le darsene, gli scivoli a mare e le altre opere, mentre deve essere valutata sulla base del criterio generale dell'art. 2043 c.c. in tutti gli altri casi, in cui non può esservi controllo diretto e quindi custodia (spiagge, litorali e simili).

Sul punto si era espressa in senso ancor più estensivo proprio la Cassazione (con la Cass. civ., sez. III, sentenza, 23 maggio 2014 n. 11532) sostenendo che il mare non costituisce un bene suscettibile di “custodia” da parte del Comune perché non è un bene demaniale ma una res communis, pertanto insuscettibile di proprietà pubblica o privata. Lo si desumerebbe dal disposto degli artt. 822 c.c. e 29 c.n., i quali non comprendono il mare tra i beni demaniali. Precisa sul punto la sentenza che «Il Collegio non ignora che, in precedenti occasioni, questa Corte ha affermato l'invocabilità della presunzione di cui all'art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per i danni causati da beni demaniali, ed in particolare dall'uso di strade aperte al pubblico in transito. Tuttavia in merito a tale orientamento due considerazioni si impongono: - in primo luogo, nessuna delle decisioni ad esso aderenti aveva ad oggetto una ipotesi di responsabilità per danni causati dal mare, il quale non è un bene di grande estensione, come le strade, ma un bene di sconfinata estensione; - in secondo luogo, anche le decisioni che aderiscono all'interpretazione più liberale dell'art. 2051 c.c., si fondano comunque sul presupposto che tale norma si applichi alla p.a. quando quest'ultima abbia una possibilità concreta di controllo sul bene demaniale”.

Sulla scorta di tale ragionamento la Cassazione afferma che «non essendo dunque concepibile in iure un "demanio comunale" sul mare, nemmeno è concepibile un rapporto di "custodia" di esso da parte del Comune che sul mare si affacci».

L'invocabilità della presunzione di cui all'art. 2051 c.c. per i danni causati da beni demaniali si fonda sul presupposto che sussista una possibilità concreta di controllo e di vigilanza sul bene, la quale, invece, con riferimento al mare manca completamente, avendo quest'ultimo dimensioni sconfinate ed essendo di stato mutevole.

Alla luce di tutte le considerazioni suesposte la Corte di Cassazione, in sede di revisione, si trovava pertanto a decidere quali sacrifici imporre all'uno o all'altro diritto. Il Collegio riteneva però che il controllo di proporzionalità in punto di rispetto del diritto alla vita era stato operato in modo adeguato dal giudice che aveva emesso la pronunzia di merito, sopra esaminata, così condividendo il principio di diritto e accertando e dichiarando il rispetto dello stesso al principio di proporzionalità.

Osservazioni

Il principio di diritto così espresso contempera adeguatamente l'esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri, che impone l'obbligo anche alle pubbliche autorità di adottare ogni precauzione per scongiurare pericoli per la vita stessa degli individui, con quella altrettanto ragionevole di non accollare alla collettività le conseguenze dannose di natura economica che derivino da condotte di esclusiva, volontaria e consapevole esposizione al rischio da parte dell'utente.

Per il detto margine di apprezzamento quindi la tutela del diritto alla vita da parte dei pubblici poteri non può spingersi sino al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, la quale abbia di per sé costituito unica causa della lesione del danneggiato.

Nel dubbio l'astensione è forse l'arma vincente e ove per incoscienza un soggetto decida comunque di agire assumendosi il rischio delle proprie azioni non può che vedersi applicato il principio di auto-responsabilità.

Corollario dell'autoresponsabilità è certamente il principio di causalità, che impone l'imputazione del fatto dannoso al soggetto che lo ha causato, rendendo pertanto arbitrario il riverbero di siffatte conseguenze dannose in capo a soggetti terzi estranei alla condotta volontaria e cosciente del danneggiato.

Il principio di diritto della sentenza in esame può così essere riassunto nella citazione: «C'è ancora speranza di salvezza quando la coscienza rimprovera l'uomo» Publilio Siro