Riconoscibilità in astratto e oneri di allegazione e prova del danno esistenziale da mobbing

Giovanni Panizza
20 Gennaio 2016

Ai fini del riconoscimento del danno esistenziale da mobbing, non è sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse e inferiori a quelle proprie ma è necessario dare la prova che tutto ciò abbia inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone gli equilibri e le abitudini di vita.
Massima

Il danno esistenziale, essendo legato indissolubilmente alla persona, necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.

Pertanto, ai fini del riconoscimento del danno esistenziale da mobbing, non è sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse e inferiori a quelle proprie ma è necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, abbia inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone gli equilibri e le abitudini di vita.

Il caso

La pronuncia in esame scaturisce dalla pretesa risarcitoria avanzata da un lavoratore vittima di una serie di condotte vessatorie sul luogo di lavoro.

Nell'ambito del giudizio di merito era emerso, in particolare, che nei confronti del ricorrente erano stati posti in essere una pluralità di comportamenti, di stampo persecutorio, lesivi della professionalità nonché della stessa personalità di quest'ultimo.

Segnatamente era stato accertato che il lavoratore, dopo essere stato escluso dai corsi di qualificazione istituiti per i dipendenti, era stato emarginato dal contesto di ristrutturazione e ammodernamento dei servizi aziendali, con conseguente frustrazione delle sue ragionevoli aspettative di progressione professionale. Egli, inoltre, era stato oggetto di plurime, e del tutto pretestuose, iniziative disciplinari, oltre che del demansionamento concretatosi nel rifiuto della società datrice di lavoro di dar seguito alle decisioni giudiziali che imponevano il riconoscimento, in suo favore, di una superiore qualifica direzionale.

In virtù degli accertati episodi “mobbizzanti”, i giudici di merito accoglievano le richieste risarcitorie invocate dal lavoratore ricorrente e, in particolare, riconoscevano in favore di questi il risarcimento del danno professionale e del danno da perdita di chance.

Non trovava invece accoglimento la pretesa relativa al danno esistenziale, considerata la carenza di allegazioni e di prove sul punto.

Il lavoratore ricorreva dunque in sede di legittimità, ex art. 360 n. 5 c.p.c., sostenendo, in particolare, che nella motivazione della Corte d'Appello i fatti costitutivi della domanda risarcitoria relativa al presunto danno esistenziale sarebbero stati in un primo momento considerati provati, salvo poi ritenerli addirittura non allegati.

La questione

Il ricorso del lavoratore impone alla Suprema Corte di prendere posizione, anzitutto, in merito alla dibattuta questione della configurabilità, o meno, del danno esistenziale quale autonoma voce risarcitoria in seno alla generale figura del danno non patrimoniale.

La domanda volta all'ottenimento del risarcimento del danno esistenziale, poi, richiede alla Corte, in sostanza, di dare risposta al seguente quesito: in caso si ammetta, appunto, l'autonoma configurabilità del danno esistenziale da mobbing, quali sono gli oneri di allegazione e prova che gravano sul lavoratore?

Le soluzioni giuridiche

Benché nella sentenza del giudice di merito, così come nel ricorso presentato dal lavoratore, emerga che il risarcimento del danno esistenziale, nel caso concreto, sia stato negato per questioni di natura probatoria, non può tacersi il fatto che quella dell'autonoma configurabilità di tale voce di danno è questione che, soprattutto a seguito delle note pronunce delle sezioni unite del 2008 in tema di danno non patrimoniale, rimane controversa, quantomeno in ambito lavoristico.

In relazione a tale questione, va osservato che la Cassazione, nel rigettare il ricorso del lavoratore, mostra innanzitutto di accogliere la tesi della configurabilità del danno esistenziale quale voce autonoma del danno non patrimoniale.

La Suprema Corte, in particolare, offre incidentalmente una definizione di danno esistenziale, che consisterebbe in quello idoneo a produrre «alterazioni significative delle abitudini di vita personale e sociale».

Le argomentazioni della Corte, poi, si concentrano sugli oneri di allegazione e prova necessari al fine della riconoscibilità di tale voce di danno come conseguenza di condotte mobbizzanti. La censura del lavoratore è giudicata infondata, in quanto postulerebbe, erroneamente, che gli oneri di allegazione relativi alle condotte vessatorie integranti il mobbing (già oggetto di accertamento positivo da parte dei giudici di merito) siano gli stessi da assolvere a sostegno della domanda volta al riconoscimento del danno esistenziale.

In realtà, la Cassazione puntualizza che altro è riconoscere, in via generale, la risarcibilità del danno esistenziale, altro è considerarne implicitamente provata la sussistenza in caso di accertamento positivo di una condotta mobbizzante. Le circostanze di fatto oggetto di allegazione e prova sarebbero diverse nelle due ipotesi. Ai fini del riconoscimento del danno esistenziale, infatti, la sentenza in commento ritiene necessaria l'allegazione di fatti – ulteriori rispetto a quelli richiesti ai fini della prova del mobbing – idonei a fornire la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso. Il danno esistenziale – precisa la Corte – non è automatica conseguenza di condotte quali la dequalificazione, l'isolamento, la forzata inoperosità, ma è indissolubilmente legato alla persona e non è quindi passibile di determinazione secondo il sistema tabellare utilizzato per le fattispecie di danno biologico, ma necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.

Osservazioni

In mancanza di una specifica normativa legale di riferimento, la giurisprudenza, sin dalle prime pronunce rese in materia di mobbing a partire dalla fine degli anni '90 del secolo scorso, tende a inquadrare giuridicamente tale fenomeno quale violazione dell'obbligo di sicurezza posto dall'art. 2087 c.c. (v., tra le primissime decisioni, Trib. Torino 16 novembre 1999; Trib. Torino 30 dicembre 1999; Trib. Pinerolo 6 febbraio 2003). La norma codicistica, infatti, nel porre in capo al datore di lavoro l'obbligo di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, risultano necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro, ben si attaglia ad una fattispecie in cui le condotte vietate si connotano per essere lesive della salute e della personalità/dignità del lavoratore (Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006 n. 4774; Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785; sul punto v. anche C. cost. 19 dicembre 2003, n. 359).

La stessa giurisprudenza ha avuto modo di delineare i tratti distintivi della fattispecie rilevando, in particolare, che si possa parlare di mobbing solo in presenza di alcuni specifici elementi: la molteplicità dei comportamenti vessatori posti in essere nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, la riconducibilità dei medesimi a un disegno sistematico che presenti una certa durata nel tempo, il conseguente evento lesivo della salute o della personalità del dipendente causalmente connesso alla condotta dell'agente, nonché l'elemento soggettivo dell'intenzionalità offensiva (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; Trib. Milano, 10 febbraio 2015, n. 275; Trib. Bergamo 8 agosto 2006; Trib. Forlì 10 marzo 2005). Inoltre, l'opinione giurisprudenziale più diffusa richiede, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la sussistenza di una specifica finalità di emarginazione o isolamento del lavoratore, non essendo sufficiente un generico intento persecutorio ai danni di quest'ultimo (Cass. civ., sez. lav., 7 agosto 2013, n. 18836; Cass. civ., sez. lav.,9 settembre 2008, n. 22893).

All'accertamento del mobbing segue, in genere, una tutela di stampo risarcitorio, riconducibile, in virtù dell'interiorizzazione dell'obbligazione di sicurezza ex art. 2087 c.c. nel sinallagma negoziale, all'ambito della responsabilità contrattuale (si segnala, ad ogni modo, che non sono mancate, soprattutto in passato, pronunce favorevoli all'ammissibilità di un concorso con la responsabilità extracontrattuale: cfr. Trib. Sondrio 7 giugno 2007; Trib. La Spezia 13 maggio 2005). Alla tutela risarcitoria, peraltro, può eventualmente aggiungersi l'applicazione di rimedi di carattere ripristinatorio, come tipicamente avviene in caso di demansionamento, trasferimento e pure di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia dovuta a mobbing (Cass. civ., sez. lav., 11 giugno 2013, n. 14643; App. Firenze 14 giugno 2011, n. 682).

In ogni caso, in ordine al risarcimento del danno va osservato che la giurisprudenza, al pari della dottrina, esclude la configurabilità di uno specifico ed autonomo “danno da mobbing” (v., peraltro, Trib. Brescia 23 maggio 2014, che parla di «danno specifico da mobbing», comunque considerato assorbito, nel caso di specie, nel danno biologico).Piuttosto, nel concetto – descrittivo – di danno da mobbing, essa è solita ricomprendere, a seconda delle caratteristiche della singola fattispecie portata all'attenzione del giudicante, varie tipologie di danno risarcibile. Il mobbing, infatti, concretandosi in una serie composita di condotte a contenuto persecutorio, assume sovente le caratteristiche della plurioffensività, potendo ledere al contempo differenti beni giuridici quali la salute, la professionalità, la dignità, la personalità, oltre che incidere, negativamente, su aspetti prettamente patrimoniali facenti capo al prestatore di lavoro.

In caso di condotta mobbizzante, pertanto, il lavoratore avrà il diritto al ristoro di ogni pregiudizio ad esso causalmente connesso, ivi compresi sia il risarcimento del danno patrimoniale che quello del danno non patrimoniale (cfr., tra la giurisprudenza più recente, Trib. Santa Maria Capua Vetere 10 febbraio 2015, n. 598).

Quanto al danno patrimoniale, sarà anzitutto risarcibile l'esborso di denaro effettuato per le necessarie spese mediche (Trib. Bologna 15 dicembre 2011). Inoltre, potrà essere risarcibile l'eventuale perdita di indennità o di emolumenti retributivi conseguenti all'illegittimo spostamento a mansioni inferiori (Trib. Tempio Pausania 10 luglio 2003), o la stessa compromissione della possibilità di promozione e di carriera (c.d. perdita di chance), come riconosciuto nella stessa sentenza in esame sulla base di un ragionamento probabilistico circa la probabile acquisizione di mansioni dirigenziali da parte del ricorrente. Frequente è poi il riconoscimento, a fronte di condotte “mobbizzanti” realizzatesi attraverso l'illegittima dequalificazione del prestatore di lavoro, del risarcimento del danno professionale (Trib. Roma 25 febbraio 2015). Quest'ultima voce di danno, tuttavia, assume contorni ibridi in quanto, se è vero che essa sembra scaturire dalla lesione di un interesse di contenuto patrimoniale, come parrebbe confermare il relativo criterio di liquidazione (come noto ricollegato alla retribuzione percepita), è altrettanto innegabile una sua componente, per così dire, personalistica; tant'è che si parla, spesso, di danno alla dignità professionale, più che alla professionalità, del lavoratore (Trib. Bari 7 gennaio 2005; cfr., anche, C. cost. 6 aprile 2004, n. 113). E in questo senso, corretta sembrerebbe la sua riconduzione tra le voci di danno non patrimoniale.

Del resto, è proprio in tema di danno non patrimoniale da mobbing che il panorama giurisprudenziale offre un quadro piuttosto ondivago, nell'ambito del quale le varie tipologie di pregiudizio risarcibile finiscono spesso per confondersi tra loro creando una certa confusione concettuale. In particolare, se da un lato appare pacifica, in presenza di una lesione all'integrità psicofisica eziologicamente derivante dalle accertate condotte “mobbizzanti”, la risarcibilità del danno biologico (Trib. Ragusa 20 gennaio 2014), più problematico sembra essere il ristoro di altri pregiudizi non patrimoniali, tra cui il tanto discusso danno esistenziale.

Come noto, a seguito delle sentenze cd. gemelle rese a sezioni unite dalla Corte di Cassazione nel 2008 (Cass. civ., S.U.,11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), la figura del danno non patrimoniale è stata ricondotta a unità, precisandosi, in tale sede, come le categorie del danno biologico, morale ed esistenziale abbiano una valenza meramente descrittiva, ma non debbano in nessun caso condurre ad una duplicazione di voci risarcitorie. Tuttavia, nonostante la pretesa onnicomprensività della nozione di danno non patrimoniale, va sottolineato che, come confermato dalla pronuncia in epigrafe, soprattutto in ambito lavoristico la categoria del danno esistenziale pare trovare ancora autonoma considerazione (cfr., in tema di molestie sessuali sul luogo di lavoro, Cass. civ., sez. lav., 19 maggio 2010, n. 12318; in relazione, poi, al mobbing, Trib. Modena 10 dicembre 2009; Trib. Bari 7 ottobre 2011; con riferimento, infine, ad un'ipotesi di demansionamento, Trib. Milano 27 dicembre 2014).

La resistenza di tale figura si spiega con la sua idoneità a descrivere quei pregiudizi causati dalla condotta vessatoria del datore di lavoro che non si concretano in una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, in considerazione del particolare coinvolgimento diretto della persona del lavoratore nella esecuzione del contratto. La stessa Corte di Cassazione, infatti, nel confermare, quantomeno in via astratta, la risarcibilità del danno esistenziale in caso di dequalificazione professionale, ha avuto modo di definirlo, in maniera non dissimile dalla pronuncia in commento, come il «pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato al fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte diverse quanto all'espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno» (Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3677). È pur vero, tuttavia, che la Cassazione, proprio nella pronuncia appena citata, nega, al pari di quanto hanno cura di precisare numerose altre decisioni, la valenza autonoma del danno esistenziale. In quest'ottica, si è affermata, ad esempio, la piena ricomprensione del danno esistenziale entro la somma liquidata a titolo di danno biologico derivante da mobbing (Trib. Aosta 1 ottobre 2014, n. 121); secondo App. Roma 12 dicembre 2011 i pregiudizi esistenziali consentono al limite una personalizzazione del pregiudizio accertato, consistente nell'aumento, ottenuto mediante l'applicazione di un coefficiente percentuale, dell'importo liquidato a titolo di danno biologico (si noti come tale principio offra spunti anche in relazione al tema della quantificazione della voce di danno in esame, questione mai affrontata in modo risolutivo dalla giurisprudenza lavoristica, che talvolta si è limitata a sostenere la necessità di una determinazione in via equitativa). Al contrario, non mancano sentenze che giungono addirittura a liquidare il danno esistenziale quale unica voce di danno non patrimoniale (Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13499; nella giurisprudenza di merito, v. anche Trib. Milano 21 agosto 2014; Trib. Bari 7 ottobre 2011).

In ogni caso, come precisato dalla pronuncia in esame, il lavoratore che chiede il risarcimento del danno esistenziale, non può limitarsi a dimostrare la sussistenza del mobbing, ma ha l'onere di allegare e provare un'alterazione della propria sfera relazionale che si ponga in stretta correlazione con la violazione dell'art. 2 Cost. e di altri diritti della persona costituzionalmente tutelati.

Ne discende, quindi, che la vittima di mobbing, ai fini del riconoscimento della voce (autonoma o meno) di danno esistenziale, dovrà provare, con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, che le condotte vessatorie poste in essere nei suoi confronti abbiano ingenerato ripercussioni negative sulle sue abitudini di vita, familiare e sociale, e sulle attività realizzatrici della personalità abitualmente coltivate. A tal fine, un indubbio rilievo può assumere la prova presuntiva, in forza della quale in presenza di talune circostanze, tra cui le caratteristiche, la durata, la gravità, la conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro delle condotte illecite, è consentito, secondo la giurisprudenza, inferire la prova dell'avvenuta lesione dell'interesse relazionale (Cass. civ., sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8782; Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13499: quest'ultima, peraltro, qualifica alla stregua di fatto notorio le «condizioni in cui viene a trovarsi un lavoratore emarginato professionalmente»).

Tale principio, del resto, appare in linea con la posizione dominante anche nella più recente giurisprudenza di merito in tema di oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale tout court, secondo cui, sulla scorta dell'insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ., S.U., 26 marzo 2006, n. 6572), il danno non può mai essere in re ipsa. Infatti, «il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione della natura e delle caratteristiche del pregiudizio che ne sarebbe scaturito» (così, tra le tante, Trib. Monza, sez. lav., 1 aprile 2015, n. 154; Trib. Milano, sez. lav., 13 gennaio 2015, n. 3609; T.A.R. Catanzaro, sez. I, 21 marzo 2013, n. 299).

D'altro canto, non può tacersi il fatto che la stessa giurisprudenza di merito finisce molto frequentemente per negare il risarcimento del danno esistenziale, spesso neppure chiarendo su quali fatti dovrebbero vertere, in concreto, le allegazioni e le prove idonee a dimostrare l'oggettiva e significativa alterazione delle abitudini di vita personale e sociale. Gravare la voce di danno in esame di un tale onere probatorio significa, con ogni probabilità, limitarne la configurabilità a ipotesi del tutto eccezionali, circoscrivendone quindi efficacemente la riconoscibilità, pur senza negarla in astratto.

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