Il diritto tra il lavoro domestico e l’ordine naturale delle cose
20 Maggio 2015
Massima
Non si può negare il diritto al risarcimento del danno patrimoniale consistente nella perdita del lavoro domestico ad un soggetto maschile sul solo assunto che non rientrerebbe nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo. Non è la natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi (verrebbe altrimenti contraddetto il fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall'art. 143 c.c., commi 1 e 3). Tale suddivisione non è presunta ma è, invece, frutto di scelte soggettive e di costumi sociali. Il caso
I coniugi Tizio e Caia, a seguito del sinistro fonte di gravi lesioni personali a carico di Tizio, hanno convenuto in giudizio il soggetto responsabile del sinistro ed il suo assicuratore chiedendone la condanna al risarcimento dei danni rispettivamente subiti in conseguenza del sinistro, tra i quali anche il danno patrimoniale subito da Tizio per la perdita della capacità di lavoro domestico ed il risarcimento del danno patrimoniale subito da Caia derivato dalla forzosa rinunzia allo svolgimento delle attività domestiche, a sua volta causata dalla necessità di assistere il marito infermo. La domanda, avente ad oggetto il ristoro di tali danni, è stata rigettata nei primi due gradi di giudizio: in particolare il giudice di secondo grado ha negato il risarcimento richiesto dal marito sul presupposto che non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo, mentre ha negato il risarcimento richiesto dalla moglie sul duplice presupposto che il danno lamentato esula dall'ambito del pregiudizio non patrimoniale già liquidato e che difetta la prova del fatto che l'essersi occupata del marito l'abbia completamente e quotidianamente distolta dalle occupazioni domestiche. Proposto quindi ricorso per cassazione dagli originari attori, la Corte di legittimità ha cassato la sentenza d'appello in relazione ad entrambe le domande di risarcimento rispettivamente proposte dai due coniugi.
In motivazione:
La questione
Le principali questioni esaminate nella sentenza in commento concernono la natura del danno derivante dalla perdita – totale o parziale – della possibilità di svolgere lavoro domestico ed i canoni ermeneutici da adottare per l'individuazione dei possibili soggetti danneggiati a fronte della perduta possibilità di svolgere tale tipologia di lavoro. Le soluzioni giuridiche
La sentenza in esame si pone nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità laddove chiarisce come anche il lavoro domestico sia suscettibile di autonoma valutazione economica: sul punto, mentre non si registrano precedenti in senso contrario, consta l'esistenza di un primo precedente favorevole sin dal lontano 1969 (Cass. civ., sent. n. 2259/1969), precedente cui ha fatto seguito la copiosa e costante giursiprudenza di legittimità che ha successivamente sempre ribadito tale principio (coerentemente, del resto, con la parallela evoluzione giurisprudenziale avvenuta in ambito di crisi del rapporto coniugale e di quantificazione, ai fini della determinazione del contributo al mantenimento, del c.d. capitale invisibile apportato alla famiglia dal coniuge dedicatosi al lavoro domestico, nonché con la giurisprudenza formatasi sulla prestazione di lavoro domestico nell'ambito dell'impresa familiare). Pur a fronte della pacifica valutabilità in termini economici del lavoro domestico, si è tuttavia registrata nella giurisprudenza di legittimità una significativa evoluzione in ordine alla stessa definizione di lavoro domestico, alla qualificazione del danno derivante dalla sopravvenuta impossibilità di attendere a tale lavoro, alla prova di siffatto danno ed ai criteri di quantificazione del medesimo. Quanto al primo dei suesposti profili si osserva che nella giurisprudenza di legittimità non ricorre una nozione univoca e costante di lavoro domestico, intendendosi per tale un'area di incombenze che, a seconda delle diverse pronunzie e, talvolta, anche nell'ambito della stessa pronunzia, varia dalla cura del sé nel proprio ambiente domestico, al compimento delle faccende domestiche anche per altri soggetti nell'ambito di un nucleo familiare, all'attività di coordinamento lato sensu intesa dell'intera vita familiare, ivi compresa l'attività di accudimento della prole. In particolare, mentre nei primi arresti giurisprudenziali che si registrano in materia il lavoro domestico viene sempre inteso quale attività per lo più meramente materiale di esecuzione delle faccende domestiche da parte di un soggetto ed a favore di un nucleo familiare, nella giurisprudenza più recente tale nozione viene dilatata fino a ricomprendervi:
Così ampliata la nozione della situazione di vantaggio suscettibile di perdita a fronte del fatto illecito, la giurisprudenza di legittimità si era sostanzialmente attestata, anteriormente alla pronuncia in commento, sulla qualificazione di tale lesione quale danno prettamente patrimoniale. I principali sforzi esegetici sul punto si sono infatti incentrati sulla necessità di enucleare e distingurere tale danno come distinto rispetto al danno biologico. Al riguardo è stato infatti chiarito che, ferma la necessità di evitare indebite duplicazioni dei danni risarcibili, il diritto leso in esame trova il proprio fondamento nei principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Cost. e pertanto, ove il danneggiato fornisca la prova di svolgere (o di essere presumibilmente in procinto di svolgere) un'attività lavorativa produttiva di reddito sia pure figurativo come quello domestico, la sopravvenuta impossibilità di svolgere tale attività integra un danno patrimoniale suscettibile di autonomo risarcimento rispetto a quello biologico. La sentenza in commento muove quindi dalla suesposta ricostruzione in termini di natura costituzionale del diritto leso dall'illecito per compiere un ulteriore passo laddove specifica che l'impossibilità - totale o parziale - di svolgere il lavoro domestico può integrare un danno tanto di natura non patrimoniale (rappresentato in buona sostanza dalla sofferenza di delegare a terzi le cure partentali) tanto di natura patrimoniale (rappresentato dal costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima non ha potuto sbrigare da sé). Tali pregiudizi, sempre stando alla sentenza in esame, possono inoltre essere contemporaneamente presenti o contemporaneamente inesistenti, non ricorrendo tra gli stessi alcun rapporto di alternatività. Tanto premesso in termini di nozione di lavoro domestico e di qualificazione del danno derivante dalla sopravvenuta impossibilità di attendervi, deve segnalarsi un'ulteriore evoluzione giurisprudenziale con riguardo alla prova di tale danno. Sul punto, pacifico il criterio di riparto dell'onere della prova, deve registrarsi un progressivo, costante e significativo mutamento dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità a favore del danneggiato con riguardo all'assolvimento di tale onere probatorio. Segnatamente, mentre arresti giurisprudenziali più risalenti ritenevano che il danno fosse da escludere nel caso in cui il danneggiato, anteriormente al fatto illecito, si fosse servito della collaborazione di domestici ovvero laddove il danneggiato non fosse in condizioni di dimostrare l'avvenuta assunzione di un collaboratore a seguito dell'illecito per attendere al lavoro domestico, numerose e più recenti pronunzie hanno chiarito:
Ecco quindi che il danneggiante, mentre in precedenza poteva giovarsi di un ben più gravoso onere della prova a carico del danneggiato, attualmente vede la propria posizione processuale notevolmente aggravata dal fatto che la perdita della situazione di vantaggio in esame non rimane esclusa né dalla mancata sopportazione di spese sostitutive né, ancora, dal mancato espletamento delle faccende domestiche anteriormente all'illecito né, infine, dalla continuazione delle attività domestiche da parte del danneggiato (ben potendo tuttavia siffatte circostanze incidere sulla quantificazione del danno concretamente subito). Venendo quindi alla quantificazione del danno in esame la giurisprudenza di legittimità ha da subito escluso che l'affettuosa dedizione con cui il componente del nucleo attende alle molteplici attività che gli competono nella gestione della comunità familiare possa giustificare una riduzione del danno patrimoniale subito ed ha anzi più volte ribadito che tale danno è superiore rispetto al costo reale di un collaboratore domestico di prima categoria, proprio perché il lavoro espletato da un collaboratore familiare non può mai raggiungere il livello di estensione, intensità e responsabilità di quello del componente del nucleo familiare. La retribuzione di un collaboratore domestico di primo livello (come anche il criterio del triplo della pensione sociale) può dunque costituire un parametro sulla cui base liquidare il danno in esame in via equitativa, competendo al giudice l'eventuale individuazione dell'opportuno multiplo da applicare in considerazione delle circostanze del caso concreto, anche tenuto conto della generale impossibilità di dare la prova rigorosa di un danno che, nella specie, è evidentemente anche danno futuro. Per quanto infine attiene all'individuazione del soggetto danneggiato, deve osservarsi che la sentenza in commento non rappresenta il primo arresto relativo alla possibilità di individuare tale soggetto nell'uomo, essendo già stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità che la radicale evoluzione dei costumi non consente più di confinare la problematica in questione alla “casalinga”. La sentenza in esame ha tuttavia ritenuto opportuno esplicitare, a fronte delle ambiziose e generiche invocazioni dell'ordine naturale delle cose da parte del giudice d'appello, i canoni ermeneutici sulla cui scorta è possibile – ovvero impossibile – collegare univocamente il danno in questione al sesso del danneggiato. Segnatamente con l'arresto in esame è stato chiarito che è ben possibile negare ad un uomo il risarcimento del danno da perduta possibilità di svolgimento del lavoro domestico, ma che il rigetto della domanda sul punto può conseguire solo all'assolvimento a cura del danneggiante all'onere di vincere la presunzione di pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia ex art. 143 c.c., mediante allegazione e dimostrazione del fatto che, in forza di scelte soggettive o di costumi sociali,il danneggiato non si occupasse anteriormente all'illecito di alcuna aliquota di lavoro domestico - ivi compresa la quota relativa alle proprie personali esigenze - ovvero non contribuisse a tale lavoro in pari misura rispetto al coniuge. Osservazioni
La principale questione esaminata dalla pronuncia in esame non concerne, ad onta della sua massimazione, la distinzione tra i sessi in rapporto al danno da perduta possibilità di svolgimento del lavoro domestico. A ben vedere sul punto la giurisprudenza di legittimità si era già espressa nel 2005 allorquando, con motivazione di ancor più vasto respiro (Cass. civ., sent. n. 4657/2005), aveva ammesso la risarcibilità del danno in esame anche a favore di un soggetto che viva da solo (e da solo provveda alle incombenze domestiche) ovvero anche a favore di un soggetto inserito in un rapporto di stabile convivenza. Questo perché a parere di chi scrive il riferimento al solo art. 143 c.c., seppur del tutto corretto in rapporto al caso esaminato dalla pronunzia in commento, risulta non esaustivo del panorama delle fonti interne, comunitarie ed internazionali che prevedono il divieto di discriminazione in ragione del sesso a prescindere dall'esistenza di un rapporto di coniugio e dello status di cittadini italiani. Del resto la Corte di Strasburgo ha avuto più volte modo di ribadire che un trattamento differenziato integra una discriminazione solo qualora non sia perseguito un fine legittimo o manchi una relazione di proporzionalità tra il fine legittimo perseguito ed i mezzi utilizzati, laddove però il numero ed il rilievo delle fonti che escludono la possibilità di adottare un trattamento discriminatorio fondato sul sesso inducono a ritenere che il giudice debba rinvenire ragioni particolarmente gravi e particolarmente convincenti per giustificare un trattamento discriminatorio. Ecco allora che non si rinvengono argomentazioni idonee a limitare le conclusioni raggiunte nella pronunzia di legittimità in esame alle sole coppie di coniugi italiani, ben potendo pervenirsi ad analoghe conclusioni - sulla scorta di presunzioni derivanti anche dalla normativa sovranazionale – anche con riferimento ai c.d. single, ai nuclei personali monoparentali con genitore di sesso maschile, alle coppie di conviventi eterossessuali od omosessuali (coppie che per altro verso ben potrebbero raggiungere accordi concernenti anche il profilo del lavoro domestico nell'ambito del principio di autonomia negoziale e dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà imposti anche nelle formazioni in cui si svolge la personalità dell'individuo). Occorre per altro verso segnalare come tale pur condivisibile orientamento finisca per aggravare notevolmente la posizione processuale del danneggiante e del suo assicuratore, quali soggetti che, di norma, nulla conoscono delle scelte individuali e dei costumi sociali del danneggiato. Deve quindi potersi ipotizzare la possibilità di vincere la presunzione di cui sopra anche (ma, probabilmente, non solo) mediante la produzione delle numerose statistiche europee ed italiane relative alla quota parte di lavoro domestico svolta a seconda del sesso, del luogo di residenza e, non ultimo, della religione, quale documentazione idonea a dimostrare, se non evidentemente le scelte individuali, quanto meno i c.d. costumi sociali. Tanto chiarito con riferimento al profilo della discriminazione in ragione del sesso del danneggiato, si osserva che a ben vedere la pronunzia in commento risulta fortemente innovativa con riguardo ad un altro profilo, ossia con riguardo al riconoscimento del danno anche non patrimoniale da perduta possibilità di svolgimento del lavoro domestico, latu sensu inteso come attività di coordinamento familiare. Ed infatti, più che l'individuazione del sesso del danneggiato, risulta significativamente più arduo individuare il numero dei possibili danneggiati in relazione ai diversi danni ipotizzabili. Deve in particolare segnalarsi che, anche se la sentenza in esame individua un più che valido fondamento costituzionale per il riconoscimento del danno non patrimoniale, la stessa non ha esaminato, in quanto esulante dalla fattispecie sottoposta al suo vaglio, il profilo della selezione dei danni e dei danneggiati onde evitare il rischio di duplicazioni del risarcimento. Segnatamente si renderà necessario, successivamente a questa pronuncia, un attento esame sia dei danni non patrimoniali risarcibili sia dei soggetti danneggiati, in quanto se, con riguardo al primo profilo, risulta arduo ipotizzare che costituisca una vera e propria sofferenza l'aver delegato ad altri la gestione delle incombenze domestiche relative alla propria persona (e non anche, ad esempio, alla prole), con riguardo al secondo profilo il riconoscimento del danno non patrimoniale sia alla prole che si è vista privare del contributo domestico del genitore sia a quest'ultimo implica, onde evitare mere e speculari duplicazioni di poste risarcitorie, un'attenta indagine circa l'interesse suscettibile di risarcimento del debitore all'adempimento personale dell'obbligazione. Orientamenti giurisprudenziali
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