Abuso del ricorso al contratto a termine da parte della p.a. e risarcimento del danno: le Sezioni Unite fanno chiarezza
25 Luglio 2016
Massima
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all'art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010 n. 183 e quindi nella misura pari ad una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 legge 15 luglio 1966 n. 604.
Il caso
La pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte trae origine dalla domanda di accertamento dell'illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro con una pubblica amministrazione da parte di due lavoratori che chiedevano, conseguentemente, l'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, oltre al diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 18 Stat. lav., testo pre l. n. 92/2012, ratione temporis applicabile. Il Tribunale di Genova – previo incidente di pregiudizialità comunitaria in ordine alla compatibilità della normativa interna con la direttiva 1999/70/CE (cfr. C. Giust., 7 settembre 2006, C-53/04, C. Marrosu, G. Sardino c. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate) – accoglieva in modo sostanzialmente integrale le doglianze dei due lavoratori, riconoscendo, in particolare, il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 18 Stat. lav., ivi compresa la condanna al pagamento dell'indennità sostitutiva di 15 mensilità, per cui i lavoratori avevano dichiarato di optare, in alternativa al diritto alla reintegrazione. La Corte d'Appello di Genova, in seguito, respingeva il gravame della pubblica amministrazione, sostenendo, in particolare, che nessun pregio avesse la doglianza relativa alla mancata prova del danno sofferto da parte dei lavoratori, atteso che l'art. 18 Stat. lav. rappresenta un criterio equitativo a carattere forfetizzato e predeterminato, tale da adeguare il risarcimento alla perdita del lavoro, offrendo una tutela in linea con i requisiti - indicati dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea – di effettività, equivalenza e dissuasività della protezione che deve essere approntata dall'ordinamento interno per contrastare l'abusivo ricorso al contratto a termine. Avverso tale sentenza, l'Azienda ospedaliera proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, con diversi motivi, violazione di legge e vizio di motivazione in punto di applicazione dell'art. 18 Stat. lav. al caso di specie trattandosi di caso non riconducibile alla fattispecie del licenziamento e in presenza di un danno non provato né nell'an né nel quantum. La Sezione Lavoro della Corte, segnalando la massima importanza della questione sulla portata applicativa e la parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001, nonché il contrasto giurisprudenziale in essere circa i criteri da adottare, trasmetteva gli atti al Primo Presidente, che assegnava la causa alle Sezioni Unite. La questione
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si è pronunciata nel senso dell'astratta compatibilità della normativa interna con la direttiva 1999/70/CE qualora, pur precludendo la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione, la stessa assicuri altra misura di contrasto degli abusi che sia effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste dall'ordinamento interno per situazioni analoghe. Ciò premesso, e attesa la presenza, nel nostro ordinamento, del generale divieto di conversione dei contratti a termine illegittimi stipulati dalla p.a. in rapporti a tempo indeterminato, il quesito affrontato dalle Sezioni Unite può così riassumersi: quali devono essere i parametri per la determinazione del diritto del dipendente al risarcimento del danno, in modo che esso risulti compatibile con le indicazioni provenienti dal diritto dell'Unione? Le soluzioni giuridiche
I ricorsi dell'Amministrazione, esaminati congiuntamente in quanto di contenuto analogo, sono ritenuti meritevoli di accoglimento dalla Suprema Corte. Le Sezioni Unite ricordano che il principio, sancito anche a livello costituzionale (art. 97, ult. co., Cost.) di accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni solo tramite concorso si connota quale elemento differenziale rispetto al lavoro privato. Il principio si rispecchia nel disposto dell'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001/165, secondo cui, da un lato, la violazione delle disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori ad opera delle P.a. non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime; dall'altro, il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione delle norme imperative. Il profilo in esame, come accennato, è interessato anche dalla disciplina dell'Unione europea. In particolare, la direttiva 1999/70/CE - attuativa dell'accordo quadro tra le associazioni sindacali comunitarie - al fine di prevenire gli abusi in caso di ricorso al contratto a tempo determinato, alla clausola n. 5 prevede espressamente che misure idonee a prevenire gli abusi siano (cumulativamente o alternativamente) la prescrizione di ragioni obiettive per il rinnovo, la durata massima, il numero massimo dei rinnovi. La stessa clausola nulla dice in relazione alle conseguenze dell'eventuale abuso. Gli ordinamenti degli Stati membri, secondo la ricostruzione della Corte di Giustizia, devono predisporre però misure che siano sufficientemente effettive e dissuasive. Nel sistema introdotto dal legislatore italiano con riferimento ai rapporti di lavoro privato – prima con il d.lgs. n. 368/2001, poi confermato nel d.lgs. n. 81/2015 – vi sono numerose ipotesi, e anzi le più significative, in cui l'abuso nell'impiego del contratto a tempo determinato è sanzionato – come conseguenza della nullità della clausola appositiva del termine – con la “conversione” (oggi definita “trasformazione”) dello stesso in contratto a tempo indeterminato. In più, sempre nel settore privato, il risarcimento del danno sofferto dal lavoratore è contenuto nella misura fissata dall'art. 32 l. 183/2010, che prevede un'indennità onnicomprensiva compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri fissati dall'art. 8 l. n. 604/1966. Le già menzionate peculiarità della disciplina del lavoro pubblico tuttavia – osservano le Sezioni Unite – pongono un problema di compatibilità con la disciplina comunitaria. A ben vedere i ricordati principi di effettività ed equivalenza non importano necessariamente un obbligo per gli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi, come più volte ribadito dalla Corte di Giustizia (in particolare nella recente ordinanza Papalia del 12 dicembre 2013, C-50/13). Se ne deve concludere che la discrezionalità lasciata al legislatore nazionale di prevedere misure effettive e dissuasive, anche differenti dalla conversione del rapporto, implica a maggior ragione che tale facoltà legittimi un differente assetto di disciplina che distingua settore pubblico e privato. L'articolato ragionamento della Suprema Corte per ribadire il divieto – invero ben noto – di costituzione coattiva di rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato non è certo fine a se stesso, ma costituisce presupposto logico giuridico su cui è fondata l'importante e dirimente statuizione in tema di risarcimento del danno. Nel ricordare che il riferimento dell'art. 36 d.lgs. 165/2001 è al generico “risarcimento del danno”, le Sezioni Unite ricordano come non si possa che fare riferimento alla regola generale della responsabilità contrattuale posta dall'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno deve comprendere perdita subita e mancato guadagno. Fuori dal risarcimento – precisa la Corte – è la mancata conversione del rapporto: il danno, nel caso in esame, non è la perdita del posto di lavoro, perché una tale prospettiva non c'è mai stata. Se la p.a. non avesse fatto illegittimo ricorso al contratto a termine, non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico. In altro risiede il danno: in ipotesi, in una perdita di chance, nella misura in cui l'illegittimo impiego precario abbia fatto perdere al lavoratore altre opportunità di lavoro stabile. Dal momento, però, che l'onere della prova di un tale danno, in ossequio ai principi generali, graverebbe sul lavoratore, ecco riemergere, nel ragionamento delle Sezioni Unite, il monito della Corte di Giustizia circa la necessità di misure efficaci e dissuasive contro gli abusi. È necessaria, per evitare di sollevare l'incidente di legittimità costituzionale della disciplina interna per contrasto con il diritto comunitario, un'interpretazione adeguatrice, che rinvenga nell'ordinamento nazionale un regime risarcitorio che soddisfi le esigenze di tutela evidenziate dalla stessa Corte di Giustizia. Tale operazione – ricordano le Sezioni Unite – è la stessa già più volte tentata dalle sezioni semplici, che ha dato però origine, come evidenziato, ad esiti differenti. Per chiarire il quadro, va ricordato come il limite all'interpretazione adeguatrice è costituito dal novero delle interpretazioni plausibili, non svincolando del tutto il giudice dal dato positivo della norma interpretata (Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77). Proprio l'ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato. Non lo è, invece, quello del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo (né nel caso dell'art. 18 Stat. lav., né in quello dell'art. 8 l. 604/1966), perché quest'ultimo evoca la perdita del posto di lavoro, che nella fattispecie del pubblico impiego è esclusa in radice dalla legge ordinaria. Bisogna fare quindi riferimento all'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, quale fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, che, prevedendo in ogni caso un'indennità onnicomprensiva di importo forfetizzato, rappresenta una misura dissuasiva di rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico quale richiesta dalla Corte di Giustizia ai fini della conformità con la clausola 5, dal momento che il lavoratore è esonerato dalla prova del danno, nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo e un massimo, tanto da potersi qualificare come danno comunitario. Osservazioni
La sentenza delle Sezioni Unite ha sicuramente il pregio di fare chiarezza rispetto a una questione fino ad oggi contrassegnata da un quadro interpretativo decisamente frammentato. È invero la stessa Corte che ricorda come, nell'ambito del vasto contenzioso in materia di lavoro a termine nel settore del lavoro pubblico, si siano affacciate diverse soluzioni in merito al problema delle conseguenze sanzionatorie collegate all'abusivo ricorso al contratto a tempo determinato e, dunque, in altre parole, in ordine all'esatto significato e portata dell'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego) che, come noto, riconosce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro resa in violazione di disposizioni imperative. In particolare, pacifico il divieto, di matrice costituzionale (art. 97 Cost.), di conversione del contratto a termine invalido in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre secondo un primo filone interpretativo il sistema risarcitorio previsto dal citato art. 36, comma 5, avrebbe dovuto essere letto alla luce alle ordinarie regole civilistiche, con conseguente onere del lavoratore di provare, ex artt. 1223 ss.c.c., i pregiudizi concretamente derivanti dall'aver reso la prestazione lavorativa nell'ambito di uno più contratti a termine illegittimi, un diverso indirizzo interpretativo, sulla scorta di una lettura dell'assetto normativo conforme alle regole europee, giungeva a conclusioni diverse. Secondo tale orientamento, posto che l'applicazione delle comuni regole sulla responsabilità risarcitoria addossa sul lavorare un onere probatorio eccessivamente gravoso, l'apparato rimediale previsto dalla legge finirebbe per perdere i necessari caratteri della dissuasività, rilevandosi di conseguenza inidoneo a reprimere efficacemente il ricorso abusivo ai contratti a termine. Ciò contrasterebbe con quanto prescritto dalla direttiva europea (clausola n. 5 direttiva 1999/70/CE), come più volte messo in luce dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Pertanto, il danno di cui all'art. 36 deve necessariamente intendersi quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, in quanto tale svincolato dall'assolvimento, da parte del prestatore, dell'onere della prova circa i concreti pregiudizi subiti per effetto dell'illegittimità del contratto a termine di cui è stato parte. Tuttavia, così inteso il “danno comunitario”, è rimasto controverso il parametro in base al quale quantificarlo (per un'analisi specifica degli orientamenti giurisprudenziali precedenti alla sentenza in commento, si rinvia ad A. Salvati, Illegittima apposizione di termine ad un contratto di lavoro subordinato da parte della P.a. e il danno comunitario, in Ri.Da.Re.; M. Azzoni, G. Panizza, Il “danno comunitario” come rimedio effettivo in caso di contratto a termine invalido con la P.A., in Ri.Da.Re.). A fronte infatti di alcune pronunce che ne hanno individuato i criteri di commisurazione nella disciplina delle conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo (art. 18 St. lav.; art. 8 l. 604/1966 in questo senso Cass. civ., sez. lav., 30 dicembre 2014, n. 21481; Cass. civ., sez. lav., 3 luglio 2015, n. 13655), altre sentenze hanno preferito optare per l'applicazione dell'art. 32, comma 5, l. n.183/2010 (Cass. civ., sez. lav., 21 agosto 2013, n. 19371), a mente del quale «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 l. 15 luglio 1966, n. 604». Questa seconda soluzione è condivisa delle Sezioni Unite che hanno anzitutto cura di precisare come nell'ipotesi di invalida instaurazione di un rapporto di lavoro a termine non possano trovare applicazione i rimedi risarcitori da licenziamento illegittimo non trattandosi, nella fattispecie, di un danno da perdita di posto di lavoro. Viceversa, sottolinea la Suprema Corte, il danno in questione è solo quello derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative i cui effetti pregiudizievoli, nella loro componente patrimoniale, possono variamente configurarsi assumendo solitamente i connotati del danno da perdita di chance, ovverosia derivante dalla perdita di occasioni di lavoro non precarie. Ma poiché, in ossequio al principio della necessaria dissuasività delle misure dirette a reprime gli abusi nel ricorso al contratto di lavoro a termine, non può richiedersi al lavoratore la prova di aver subito in concreto tale danno, l'art. 36, comma 5, TUPI deve necessariamente ancorarsi a un sistema di stampo indennitario e presuntivo, cioè svincolato dalla previa prova del pregiudizio. E tale sistema viene appunto individuato nell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010. A tale riguardo, non può però sottacersi di una circostanza almeno a prima vista paradossale che discende dalla soluzione accolta dalla sentenza in commento: considerare applicabile alla fattispecie del contratto a termine illegittimo con la P.a. un disposto normativo che non solo assume a presupposto applicativo la “conversione del contratto” - presupposto che non può realizzarsi nel lavoro pubblico - ma che trova la sua ratio giustificatrice in esigenze che nulla hanno a che vedere rispetto alla finalità di assicurare una maggior tutela in favore del prestatore di lavoro. Invero, l'art. 32, comma 5, del cd. collegato lavoro è stato introdotto con la finalità, opposta, di limitare, forfetizzandone l'importo in una predeterminata misura onnicomprensiva, il risarcimento del danno in caso di contratto a termine illegittimo posto che, nel settore del lavoro privato, l'applicabilità delle ordinarie regole civilistiche avrebbe comportato la parametrazione del quantum risarcitorio a tutte le retribuzioni medio tempore maturate dalla scadenza del contratto fino alla riammissione di servizio. Un importo dunque, considerata la durata media dei giudizi, tendenzialmente più elevato della misura prevista dall'art. 32 citato. Sotto altro profilo nemmeno può dirsi che l'indennità risarcitoria dell'art. 32 intenda risarcire un danno da perdita di chance, considerato che si tratta pur sempre di ristorare un danno patrimoniale da perdita (momentanea) del posto di lavoro. Ed in effetti, per sua stessa ammissione, la Corte, per giungere a ritenere applicabile in via analogica l'indennizzo previsto per il settore del lavoro privato, è costretta a forzare il dato letterale della legge, optando per un'interpretazione adeguatrice del disposto normativo. Altrimenti, del resto, sarebbe stato con ogni probabilità necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 5, TUPI. Ad ogni buon modo se, come detto, l'arresto delle Suprema Corte è sicuramente da salutare con favore considerata soprattutto la chiarezza con la quale è stata risolta la querelle interpretativa portata alla sua attenzione, non è tuttavia da escludere che in merito a taluni, sebbene secondari, aspetti possano ripresentarsi talune controversie applicative. Anzitutto, il riferimento all'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, il cui disposto è oggi “transitato” nell'art. 28, comma 2, d.lgs. n.81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, comporta, in forza del rimando contenuto nella norma, che il risarcimento dovrà essere liquidato sulla base dei criteri previsti dall'art. 8 della l. n. 604/1966. Sul piano concreto, pertanto, entro la forbice delle le 2,5-12 mensilità, il quantum risarcitorio potrà subire incrementi o, al contrario, decrementi a seconda del numero dei dipendenti occupati dall'amministrazione, alle dimensioni della stessa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, nonché al comportamento e alle condizioni delle parti. Corre l'obbligo osservare, inoltre, come le Sezioni Unite sottolineino che, contrariamente a quanto espressamente disposto per il lavoro privato, l'indennità risarcitoria non assume, rispetto al lavoratore pubblico, il carattere dell'onnicomprensivà. Secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, l'indennità risarcitoria ex art. 32, infatti, ha una diversa valenza a seconda che sia o no collegata alla conversione del rapporto: mentre per il lavoratore privato essa opera in chiave di contenimento del danno risarcibile, per il lavoratore pubblico, invece, l'indennizzo si pone in chiave agevolativa, di maggior tutela, nel senso che, come si è visto, in quella misura rimane assolto l'onere della prova del danno che grava sul lavoratore. Coerentemente, se per il privato, per espressa previsione di legge, l'indennità in esame è da considerarsi onnicomprensiva, non così può essere per il lavoro pubblico, con la conseguenza che non è precluso di provare che le chances perdute a causa dell'impiego in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno più elevato. Senza dubbio si tratta di una prova a prima vista difficoltosa e, dunque, nelle generalità dei casi ardua da soddisfare; tuttavia non è da escludersi, soprattutto in alcuni casi limite, come ad esempio nell'ipotesi di una reiterazione di contratti a tempo determinato protrattasi per lungo periodo temporale, che il lavoratore riesca a dimostrare di avere subito un pregiudizio patrimoniale (e magari anche non patrimoniale?) più elevato. |