Il danno patrimoniale da lucro cessante: tra riduzione della capacità lavorativa specifica, generica e flessione di guadagno, stato dell’arte

Marco Rodolfi
22 Settembre 2015

In questo Focus, dopo aver esposto i principi generali in materia, si illustrano i criteri posti a fondamento del riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante derivante sia dall'invalidità temporanea che dalla riduzione o perdita della capacità lavorativa specifica del danneggiato con accenni anche al tema della riduzione o perdita della capacità lavorativa generica. Si esaminano ipotesi particolari, quali quelle dei soggetti privi di reddito, nonché i criteri di liquidazione attualmente utilizzati per la liquidazione di tale voce risarcitoria.
Principi generali

Il danno patrimoniale può consistere sia in un danno c.d. “emergente” (ossia nella perdita subita dal danneggiato) che in un c.d. “lucro cessante” (e cioè in un mancato guadagno o, comunque, in una diminuzione od in una cessazione del guadagno).

Tale voce risarcitoria può essere peraltro riconosciuta, ai sensi degli artt. 2056 e 1223 c.c. solo nella misura in cui l'istante fornisca la prova (art. 2697 c.c.) della sua reale esistenza e portata e ne giustifichi la connessione con il fatto illecito lamentato («in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta»).

Il danno patrimoniale da invalidità temporanea

All'interno del danno patrimoniale da lucro cessante, occorrerà distinguere il danno patrimoniale da invalidità temporanea da quello conseguente alla riduzione o perdita della capacità di guadagno.

Si ha incapacità temporanea di guadagno quando la vittima di lesioni personali (fisiche o psichiche), a causa di queste debba momentaneamente rinunciare all'attività produttiva del proprio reddito, ovvero tollerarne una riduzione.

Si tratta, in sostanza, del danno causato dalla forzosa assenza dal lavoro, a sua volta causata dalla lesione della salute.

Premessa indispensabile, peraltro, è che il danneggiato goda di un reddito lavorativo.

Il danneggiato, perché possa vedersi riconosciuto il danno da incapacità temporanea, deve fornire la prova della sussistenza di due nessi causali, e cioè quello tra le lesioni e l'impossibilità di svolgimento dell'attività lavorativa e quello tra la durata della malattia e la durata dell'assenza dal posto di lavoro.

Da ciò consegue che il danno da incapacità temporanea, di norma, non sussiste per il lavoratore dipendente: infatti, nella maggioranza delle ipotesi, questi godrà per il periodo di forzata assenza dal lavoro dei benefici dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni o, in mancanza, della tutela patrimoniale accordatagli dall' art. 2110 c.c.: «Il dipendente pubblico o privato che durante il periodo di invalidità totale temporanea conseguente ad incidente stradale continui a percepire l'intero stipendio non subisce, di norma, alcun danno e non ha quindi diritto al risarcimento» (Cass., 11 luglio 1978, n. 3507; in senso conforme Cass. 6 dicembre 1995, n. 12569 e Cass. 13 settembre 1996, n. 8260).

Vi sono peraltro delle eccezioni.

Si pensi all'ipotesi in cui l'assicurazione obbligatoria o volontaria contro gli infortuni sul lavoro non copra il 100% della retribuzione (in questo caso l'autore dell'illecito è tenuto a risarcire al danneggiato la differenza tra la retribuzione che avrebbe normalmente percepito, e la minor somma percepita dall'assicuratore a titolo di indennità giornaliera) o all'ipotesi in cui quando l'assenza dal lavoro comporti la rinuncia ad utilità aggiuntive alla retribuzione base, come ad esempio, gettoni di presenza, premio di produttività, indennità per trasferte, retribuzioni per lavoro straordinario (vedi Cass. 8 settembre 1986, n. 5480 e Cass. 10 ottobre 1988, n. 5465), tredicesima mensilità (Trib. Firenze, 27 maggio 1968, in Arch. Resp. Civ. 1969, 139), i compensi in natura (cfr. art. 30, comma II, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124); i redditi aggiuntivi che trovano la propria fonte in consuetudini locali, come le mance (Cass., 25 settembre 1990, n. 9702 e Cass., 25 novembre 1980, n. 6247).

Per il lavoratore autonomo, ovviamente, il discorso cambia, in quanto deve dimostrare l'impossibilità di attendere al suo lavoro nel periodo considerato e la flessione o l'interruzione del guadagno.

La prova (che consiste sostanzialmente nel comparare i compensi percepiti prima del sinistro con quelli non percepiti, o percepiti in misura ridotta nel periodo di invalidità temporanea), può essere davvero difficile, dal momento che nel lavoro autonomo sovente gli incassi non seguono immediatamente la prestazione, e, quindi, durante la temporanea il lavoratore potrebbe non subire alcuna flessione di reddito che invece si verificherà a distanza di tempo.

La diminuzione del reddito, del resto, non può essere presunta neppure per il periodo di invalidità temporanea assoluta, potendo tale diminuzione verificarsi anche per il concorso di altri fattori: «L'esistenza dell'inabilità temporanea non costituisce la sola ragione sufficiente per il riconoscimento del diritto al risarcimento, giacché il fondamento della pretesa è rappresentato non già dalla perdita totale o parziale della capacità lavorativa in sé considerata, ma dalla conseguente, effettiva diminuzione del guadagno, onde incombe all'istante l'onere di offrire la prova correlativa» (Trib. Napoli, 9 ottobre 1985, Arch. Giur. Circ. Sin., 1986, 613; in senso conforme Cass. 2 giugno 1982, n. 3802, e Trib. Milano, 19 giugno 1995, Giust. Milanese, 1996, fasc. 1).

Anche la Suprema Corte, sul punto, è rigorosa: «Il risarcimento del danno patrimoniale per invalidità temporanea non é dovuto se la lesione conseguente all'evento dannoso non ha prodotto una contrazione del reddito del danneggiato la quale deve essere da quest'ultimo adeguatamente provata» (Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2008, n. 18866).

Il danno patrimoniale da riduzione o perdita della capacità di lavoro specifica e/o generica/capacità di guadagno

Al fine di potersi dire sussistente il danno patrimoniale da riduzione o perdita della capacità di guadagno, devono verificarsi due condizioni:

  • il soggetto danneggiato, una volta guarite le lesioni, non ha potuto recuperare interamente la propria complessiva integrità psicofisica;
  • la lesione della salute ha precluso o precluderà al danneggiato - secondo un giudizio di ragionevole verosimiglianza - la possibilità di conservare i propri redditi da lavoro nella stessa misura goduta prima del sinistro; ovvero di acquisire in futuro ulteriori redditi od incrementi reddituali (Cass., 25 agosto 2006, n. 18489; Cass., 29 aprile 2006, n. 10031 e Cass., 23 gennaio 2006, n. 1230).

In pratica, il presupposto della riduzione della capacità di guadagno (nozione giuridica) è la riduzione della capacità di lavoro o capacità lavorativa (nozione medico legale).

Ma occorre che venga dimostrata la sussistenza di entrambi i requisiti.

In caso di invalidità permanente, infatti, secondo la Suprema Corte: «il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall'accertamento dell'invalidità permanente, poiché esso sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. A tal fine, il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere, al momento dell'infortunio, un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo di esso, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali» (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2758; in senso conforme Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2003, n. 6291; Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2006, n. 1120; Cass. Civ., sez. III, 18 settembre 2007, n. 19357 e Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2010, n. 10074).

La prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento, e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della “capacità di guadagno” (Cass., 29 gennaio 2010, n. 2062; in senso conforme Cass., 23 febbraio 2006, n. 4020 e Cass., 8 agosto 2007, n. 17937).

Nel caso di micropermanenti, dal fatto noto che gli esiti sono di modesta entità, è possibile risalire al fatto ignorato che il danno non ha avuto ripercussioni sulla capacità di guadagno, salvo specifica prova in tal senso da parte del danneggiato (Cass., 18 settembre 2007, n. 19357 e Cass. 25 settembre 1998, n. 9601) e ciò soprattutto quando la vittima svolga un lavoro intellettuale e non manuale (Cass, 20 ottobre 2005, n. 20317)

I postumi permanenti di piccola entità «non essendo idonei ad incidere sulla capacità di guadagno non pregiudicano la capacità lavorativa e rientrano invece nel danno biologico come menomazione della salute psicofisica della persona» (Cass., 24 febbraio 2011, n. 4493, in ipotesi di postumi permanenti del 10% a titolo di danno biologico)

Se invece la vittima prova che la riduzione della capacità di lavoro specifica è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (c.d. "micropermanenti", le quali non producono danno patrimoniale ma costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura - non necessariamente in modo proporzionale - qualora la vittima già svolga un'attività o presumibilmente la svolgerà. In quanto prova presuntiva essa potrà essere superata dalla prova contraria che, nonostante la riduzione della capacità di lavoro specifico, non vi è stata alcuna riduzione della capacità di guadagno e che, quindi, non è venuto a configurarsi in concreto alcun danno patrimoniale» (Cass., 25 gennaio 2008, n. 1690).

Tali principi sono stati ribaditi anche recentemente dalla Suprema Corte.

In una ipotesi in cui il danneggiato (istruttore di arti marziali) a cui il CTU aveva riconosciuto una «ripercussione sfavorevole sulle attività lavorative richieste da simile specialità sportiva (pur senza essere in grado di indicare una percentuale, mentre il biologico era stato valutato nel 14%)», i Giudici di primo e di secondo grado avevano negato la liquidazione di un danno patrimoniale da lucro cessante.

Orbene, la sentenza di secondo grado è stata confermata in Cassazione per mancanza di prova, non avendo il danneggiato dimostrato l'esercizio in concreto della dedotta attività professionale né che da tale attività percepisse un reddito, non potendosi tali elementi desumere dal solo conseguimento del diploma attestante l'abilitazione a tale attività, diploma peraltro conseguito dopo circa un anno dal sinistro (Cass. civ., sez. III, 5 febbraio 2013, n. 2644).

È pur vero, infatti, che, come affermato da questa Corte (vedi Cass., 25 gennaio 2008, n. 1690): «il danno patrimoniale futuro, nel caso di fatto illecito lesivo della persona, è da valutare su base prognostica ed il danneggiato, tra le prove, può avvalersi anche delle presunzioni semplici; pertanto, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (cosiddette “micropermanenti”, le quali non producono danno patrimoniale ma costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura - non necessariamente in modo proporzionale - qualora la vittima già svolga un'attività o presumibilmente la svolgerà».

È tuttavia altrettanto vero che: «l'aggravio, in concreto, nello svolgimento dell'attività già svolta o in procinto di essere svolta deve essere dedotto e provato». (Cass. civ., sez. III, 5 febbraio 2013, n. 2644).

Anche in un'altra ipotesi in cui al danneggiato (impiegato di banca) era stato riconosciuto un 25% di riduzione della capacità lavorativa specifica in sede di CTU, la sentenza di merito, che aveva negato il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, è stata confermata dalla Suprema Corte (Cass., 12 febbraio 2013, n. 3290).

La Corte d'Appello di Torino aveva infatti respinto la richiesta risarcitoria del danno patrimoniale da invalidità specifica motivando adeguatamente: «in quanto, nonostante l'incidenza nella misura del 25% della capacità lavorativa specifica (da CTU), tenuto conto del fatto che il T. svolgeva l'attività di impiegato di banca, non c'era nessuna prova di un'effettiva diminuzione del suo reddito in conseguenza del sinistro» (in senso conforme ha deciso la Suprema Corte negando il riconoscimento di un danno patrimoniale in ipotesi di sussistenza di postumi permanenti del 20%.: Cass., 14 novembre 2013, n. 25634)

Il Supremo Collegio, inoltre, ha fatto presente che il Giudice di merito aveva specificato, che «il T. svolge la professione (tradizionalmente considerata come tranquilla, sicura e sedentaria) di impiegato di banca, in qualità di lavoratore dipendente, retribuito anche in caso di assenze per malattia dal servizio», e che «non si è registrato un danno da lucro cessante per la mancata percezione di redditi connessi alla menomazione fisica da cui l'attore è risultato affetto» (Cass. 12 febbraio 2013, n. 3290)

In pratica: «l'accertata diminuzione della capacità lavorativa non si è tradotta in alcuna perdita di reddito … non si è registrato un danno da lucro cessante per la mancata percezione di redditi connessi alla menomazione fisica da cui l'attore è risultato affetto».

Il danneggiato «è in grado di svolgere e svolge la sua professione (...) e palesa solamente stanchezze e malattie che si traducono in assenze dal servizio maggiori rispetto a quelle dei suoi colleghi» (compensate in sede di merito con una “maggiorazione” del risarcimento del danno biologico).

Quanto poi ad un presunto danno da pregiudizio alla carriera in conseguenza dei postumi dell'incidente, la relativa richiesta è stata respinta dal momento che «è rimasto del tutto sfornito di prova» (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2013, n. 3290).

In definitiva, la giurisprudenza è molto rigorosa nel richiedere al danneggiato la prova di tutti i presupposti necessari per poter riconoscere il danno patrimoniale da lucro cessante.

Non si deve infatti dimenticare che, da un lato è: «Fermo il principio secondo cui il danno patrimoniale futuro, nel caso di fatto illecito lesivo della persona, è da valutare su base prognostica ed il danneggiato, tra le prove, può avvalersi anche delle presunzioni semplici, con la conseguenza che, una volta provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (cosiddette micropermanenti, le quali non producono danno patrimoniale ma costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumere che anche la capacità di guadagno di una vittima che eserciti già attività lavorativa risulti ridotta nella sua proiezione futura - peraltro non necessariamente in modo proporzionale - salvo superamento di tale presunzione per effetto di prova contraria, deve, tuttavia, ritenersi che, la presunzione copra solo l'an dell'esistenza del danno» (Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2014, n. 11361).

D'altro canto, ai fini della sua quantificazione, è altrettanto chiaro che invece: «è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo il sinistro dando prova di quali siano stati i suoi redditi. In mancanza di tale prova, il giudice - salvo che per le circostanze concrete, non imputabili al danneggiato, sia impossibile o difficile la dimostrazione di tale contrazione - non può esercitare il potere di cui all'art. 1226 c.c., perchè esso riguarda solo la quantificazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando la vittima continui a lavorare e produca reddito e, dunque, possa dimostrare di quanto il reddito sia diminuito» (Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2014, n. 11361 confermata sentenza di merito che aveva negato la liquidazione di un danno patrimoniale da lucro cessante pur in presenza di CTU che aveva riconosciuto un 18% di riduzione della capacità lavorativa specifica del soggetto che esercitava l'attività di chirurgo odontoiatra).

In definitiva: «in tema di risarcimento del danno da invalidità personale, l'accertamento di postumi, incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica, non comporta automaticamente l'obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale conseguente alla riduzione della capacità di guadagno derivante dalla diminuzione della predetta capacità e, quindi, di produzione di reddito, occorrendo, invece ai fini della risarcibilità di un siffatto danno patrimoniale, la concreta dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio economico» (Cass. civ., Sez. III, 27 novembre 2014, n. 25211; conforme Cassazione civile, sez. III, 3 luglio 2014, n. 15238).

Mentre l'invalidità permanente (totale o parziale) concorre di per sé a dar luogo a danno biologico, infatti: «la stessa non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale, a tal fine occorrendo che il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell'attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno, accerti se e in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l'infortunio subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacenti alle sue attitudini e condizioni personali e ambientali, e altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall'esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. La relativa prova incombe al danneggiato» (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2013, n. 1621).

Passiamo ora ad esaminare la questione del danno da c.d. lesione della cenestesi lavorativa e del danno alla c.d. capacità lavorativa generica.

Il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell'attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa (c.d. perdita di chance), risolvendosi in una compromissione biologica dell'essenza dell'individuo, va liquidato invece omnicomprensivamente come danno alla salute (vedi anche Cass. n. 5840/2004)” (Cass. civ., sez. III, 1 aprile 2014, n. 7524, che ha confermato una sentenza di merito che aveva negato la liquidazione di un danno patrimoniale al lavoratore autonomo – chirurgo ortopedico – al quale era stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa specifica nella misura del 15%).

Anche la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all'attività lavorativa da parte di un soggetto, è legittimamente risarcibile come danno biologico - nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene salute in sé considerato – con la conseguenza che l'anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale, il quale andrà, invece, autonomamente liquidato solo qualora alla detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica, che a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno: «all'interno del risarcimento del danno alla persona, il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia - in quanto lesione di un'attitudine o di un modo d'essere del soggetto - in una menomazione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico» (Cass. civ., sez. III, 25 agosto 2014, n. 18161; in senso conforme Cass., 1 dicembre 2009, n. 25289 e Cass., 27 gennaio 2011, n. 1879).

Di recente, peraltro, la Suprema Corte è tornata sul punto, con una decisione contraria all'orientamento maggioritario, affermando che: «la lesione della capacità lavorativa generica, consistente nell'idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini, può invero costituire anche un danno patrimoniale, non ricompreso nel danno biologico, la cui sussistenza va accertata caso per caso dal giudice di merito, il quale non può escluderlo per il solo fatto che le lesioni patite dalla vittima abbiano inciso o meno sulla sua capacità lavorativa specifica» (Cass., 12 giugno 2015, n. 12211; vedi anche Cass., 16 gennaio 2013, n. 908).

Di conseguenza: «in tema di danni alla persona, l'invalidità di gravità tale da consentire, per la sua entità (nella specie del 25%), la possibilità di attendere (anche) a lavori altri e diversi da quello specificatamente prestato al momento del sinistro confacenti alle attitudini e alle condizioni personali ed ambientali del danneggiato integra non già una lesione di un'attitudine o di un modo di essere del medesimo, rientrante nell'aspetto (o voce) del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, bensì un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance (il cui accertamento spetta al giudice di merito e va dal medesimo stimato con valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c.), derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica. Trattasi di danno patrimoniale che, se e in quanto dal giudice di merito riconosciuto sussistente, va considerato ulteriore rispetto al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, concernente il diverso aspetto dell'impossibilità per il danneggiato di (continuare ad) attendere all'attività lavorativa prestata al momento del sinistro (nella specie di venditore ambulante dipendente), dovendo (anche) da questo essere pertanto tenuto distinto, con autonoma valutazione ai fini della relativa quantificazione» (Cass., 12 giugno 2015, n. 12211).

Ipotesi particolari: perdita capacità lavorativa soggetti privi di reddito (minore, casalinga)

Ipotesi particolari sono quelle che riguardano la perdita della capacità lavorativa da parte di soggetti invero privi di reddito (come il minore o la casalinga).

Per quanto riguarda il minore non lavoratore, la giurisprudenza appare molto severa.

Ad esempio, in una vicenda nella quale ad un ragazzo di 18 anni era stato riconosciuto un danno biologico del 34%, il Tribunale aveva liquidato un danno patrimoniale da lucro cessante per una riduzione della capacità lavorativa generica del 18%, sebbene il CTU avesse osservato che non era possibile determinare l'effettiva futura attività lavorativa del danneggiato, precisando che tali postumi avrebbero comportato limitazioni di tipo motorio, senza tuttavia essere idonee a compromettere l'esecuzione di qualsiasi lavoro.

Orbene, la Corte d'Appello di Milano ha riformato tale decisione, negando il risarcimento di tale danno, in quanto: «il CTU si è limitato a confermare che i postumi sofferti in qualsiasi ambito lavorativo avrebbero comportato limitazioni di tipo motorio, ad esempio nel salire e scendere le scale, nella prolungata stazione eretta, nella prolungata deambulazione.

Tali limitazioni tuttavia non sono in realtà idonee a compromettere l'esecuzione di qualsiasi lavoro, ma solo di quelli che, appunto, richiedono spostamenti a piedi prolungati oppure il mantenimento prolungato della stazione eretta».

Nella specie: «non è stato fornito alcun elemento da cui desumere che il signor G. (all'epoca dell'incidente studente di scuole media superiore e poi universitario) fosse destinato a dedicarsi ad un'attività lavorativa del genere e sia stato costretto a mutare programma».

«Non risulta insomma che le limitazioni in questione abbiano inciso sulla capacità a esercitare una specifica professione, bensì sulla qualità della vita in generale e in particolare … nella possibilità di praticare un'attività sportiva, implicando pregiudizi già ricompresi tuttavia nel danno non patrimoniale» (App. Milano, Sez. IV, 1 marzo 2013, n. 521).

Sempre la Corte d'Appello di Milano ha riformato una sentenza di primo grado che aveva liquidato un danno patrimoniale ad un ragazzo studente all'epoca del fatto sulla scorta di una CTU che aveva riconosciuto postumi permanenti con incidenza nella misura del 100% sulla capacità lavorativa con riferimento alle mansioni manuali e del 50% rispetto alle mansioni impiegatizie.

Sentenza del Tribunale riformata, in quanto: «Quando il danneggiato sia studente e non percepisca ancora reddito, occorre far riferimento alla tipologia di occupazione lavorativa a cui egli si dedicherà in futuro con più elevata probabilità e, nella specie, con ragionevole e alta probabilità doveva essere individuata in un'occupazione impiegatizia, visti gli studi di media superiore compiuti». I documenti prodotti in atti hanno confermato che proprio l'attività impiegatizia è stata l'occupazione trovata dopo la scuola dal danneggiato, seppure a tempo parziale, proprio in conseguenza dei postumi riportati in conseguenza del sinistro stradale de quo, con conseguente «elevata contrazione del reddito potenziale». Da ciò ne è conseguita la rideterminazione del danno patrimoniale del minore sulla scorta di una riduzione della capacità lavorativa al 50%: «perché riferita un'occupazione impiegatizia», con applicazione del triplo della pensione sociale annua («poiché l'infortunato era studente non vi sono gli estremi per il calcolo sulla base della contrazione di un reddito in concreto percepito ante sinistro») e del coefficiente di capitalizzazione previsto dal R.D. n. 1403/1922 per l'età di venti anni, senza scarto tra vita fisica e lavorativa «superato dal tendenziale allungamento della vita lavorativa». (App. Milano Sez. IV, 1 febbraio 2013, n. 521).

Passando alla risarcibilità del pregiudizio rappresentato dalla riduzione o perdita della capacità lavorativa della casalinga, la Suprema Corte: «non ha omesso di rimarcare l'esigenza della relativa prova, ancorchè non rigorosa, trattandosi di danno patrimoniale futuro (cfr. Cass. 20 luglio 2010, n. 16896), segnatamente evidenziando che con riguardo al caso che la parte danneggiata svolga anche attività lavorativa retribuita alle dipendenze di terzi o lavoro autonomo (o attività similare), occorre tener conto dell'incidenza di ciò in termini di riduzione dell'attività di assistenza e cura dei familiari, da stabilire nella sua entità secondo il prudente apprezzamento del giudice con riferimento alle peculiarità della fattispecie concreta (Cass. 12 settembre 2005, n. 18092)» (Cass., sez. III, sent. 5 aprile 2012, n. 5548).

Precisando, altresì, che: «a tal fine è necessario che si fornisca la prova sia della compatibilità del contestuale esercizio di quest'altra attività con quella di casalinga, sia dell'effettivo espletamento di quest'ultima, la quale non si esaurisce nel compimento delle sole faccende domestiche, ma si concreta nel coordinamento lato sensu dell'intera vita familiare (Cass. 30 novembre 2005, n. 26080)» (Cass., sez. III, sent., 5 aprile 2012, n. 5548).

La Suprema Corte ha quindi respinto il ricorso avverso la decisione della Corte di appello di Venezia che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale sul presupposto che «mancasse la prova” che la danneggiata svolgesse tale attività, in quanto: «E' stata fatta corretta applicazione dei suindicati principi, allorché è stato evidenziato il carattere assorbente dell'attività lavorativa che, per otto ore al giorno, pacificamente impegnava la P. fuori dell'ambito domestico, osservando che in siffatta situazione la circostanza che la danneggiata si dedicasse effettivamente anche all'attività di casalinga non poteva darsi affatto per scontata, nessuna prova risultando offerta o dedotta sul punto» (Cass., sez. III, sent., 5 aprile 2012, n. 5548)

Criteri di liquidazione

Il metodo di calcolo del danno patrimoniale da lucro cessante più usato rimane quello della c.d. capitalizzazione (sistema del “danno in astratto”):

R X % DI INVALIDITA' X COEFF. DI CAPITALIZZAZIONE (Tabella del R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 per la costituzione delle rendite vitalizie) – SCARTO VITA FISICA-VITA LAVORATIVA (10-20%)

A tale proposito, peraltro, è vero che la Suprema Corte ha riconosciuto anche di recente la piena legittimità di tale procedura, in quanto la normativa di cui al R.D. 9 ottobre 1922 n. 1403: «è attualmente in vigore e dunque legittimamente è stata utilizzata dal giudice di merito» (Cass., 5 giugno 2012, n. 8985)

È tuttavia altrettanto vero che è ormai costante l'indicazione secondo cui: «ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di "personalizzare" il criterio adottato al caso concreto, deve "attualizzare" lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa» (Cass. civ., sez. III, 5 giugno 2012, n. 8985; in senso conforme Cass., 2 luglio 2010, n. 15738).

Se vengono utilizzati altri coefficienti più aggiornati (vedi ad esempio coefficienti di capitalizzazione basati sulle tavole di mortalità della popolazione italiana pubblicati dal CSM nel 1981 ISTAT che, seppure privi di efficacia legislativa, vengono applicati: vedi App. Milano, sez. I, 21 dicembre 2011, n. 3532), in questo caso, si deve procedere sempre all'abbattimento per lo “scarto” tra vita fisica e vita lavorativa (contra Trib. Milano 13.12.2012 Sez. XII^, Dott.ssa Padova).

Il coefficiente di capitalizzazione applicabile deve inoltre essere quello del momento della liquidazione e non quello del momento del sinistro (per i minori di età quello relativo al momento della presumibile età di inizio dell'attività lavorativa: almeno 18 anni).

Il risultato ottenuto mediante il calcolo di capitalizzazione deve poi essere ulteriormente ridotto attraverso il c.d. coefficiente di minorazione, vale a dire un coefficiente di capitalizzazione anticipata.

Se infatti non si applicasse il coefficiente di minorazione, il danneggiato lucrerebbe sin da subito gli interessi composti su una somma che sarebbe materialmente entrata nel suo patrimonio soltanto fra alcuni anni.

In caso di lesioni personali con postumi invalidanti permanenti: “ove il danno patrimoniale futuro (costituisca esso danno emergente, come per le spese mediche non ancora sostenute, ovvero lucro cessante da perdita o riduzione della capacità lavorativa) sia liquidato nella forma della capitalizzazione anticipata, dalla somma capitalizzata e liquidata in relazione ai valori monetari della data della pronuncia va effettuata la detrazione del montante di anticipazione (calcolato sulla base degli interessi a scalare)” (Cass., 23 gennaio 2006, n. 1215 e Cass., 16 marzo 2012, n. 4252).

Conclusioni

La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, in definitiva è molto rigorosa nel richiedere al danneggiato di fornire la prova della sussistenza di tutti i requisiti richiesti, sia sotto il profilo medico-legale che sotto quello giuridico, che possano consentire di provvedere alla liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante (sia da temporanea che da riduzione/perdita della capacità lavorativa specifica e di guadagno).

Il ricorso alle presunzioni è consentito, ma solo in ipotesi di lesioni personali di una certa entità, e sempre che il danneggiato fornisca degli elementi su cui basare tale richiesta.

Rimane invece sorprendentemente aperta e certamente foriera di future discussioni la questione dell'autonomia o meno del danno da c.d. riduzione della capacità lavorativa generica che, secondo la più recente decisione della Suprema Corte non rientrerebbe più nel danno biologico (reciuts non patrimoniale), bensì costituirebbe un ulteriore pregiudizio di natura patrimoniale che andrebbe ad aggiungersi al danno da riduzione della capacità lavorativa specifica.

Crediamo che anche su tale punto sarà opportuno un chiarimento (magari a Sezioni Unite) da parte dei giudici di legittimità.

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