Lo stato dell’arte sul danno da nascita indesiderata: fattispecie risarcitorie e danneggiati, oneri probatori, profili risarcitori

Maria Teresa Cusumano
23 Dicembre 2014

Con l'espressione danno da nascita indesiderata si designa il pregiudizio derivante dalla nascita di un figlio avvenuta contro oppure oltre la volontà del genitore, a causa dell'operato del medico che, sia con una condotta tecnicamente imperita, sia omettendo di informare la gestante, abbia violato il diritto di uno o di entrambi i genitori a non avere figli, ovvero a non portarne a termine la gestazione.
Danno da nascita indesiderata (e sua distinzione dogmatica rispetto al danno da procreazione)

Con l'espressione danno da nascita indesiderata si designa il pregiudizio derivante dalla nascita di un figlio avvenuta contro oppure oltre la volontà del genitore, a causa dell'operato del medico che, sia con una condotta tecnicamente imperita, sia omettendo di informare la gestante, abbia violato il diritto di uno o di entrambi i genitori a non avere figli, ovvero a non portarne a termine la gestazione.

Per esigenze di inquadramento sistematico è possibile sussumere nell'area del danno da nascita indesiderata le seguenti fattispecie:

  • a) nascita occasionata da un fallito intervento di interruzione volontaria della gravidanza;
  • b) nascita occasionata dalla perdita della possibilità di interrompere la gravidanza, a causa di imperizia medica consistita nella mancata rilevazione (e comunicazione) di una malformazione o di una malattia genetica;
  • c) nascita determinata da un fallito intervento di sterilizzazione o da un'impropria somministrazione di contraccettivo.

Le ipotesi di cui ai punti a) e c), a loro volta, possono conoscere ulteriori variazioni a seconda che il bambino nasca sano ovvero sia portatore di handicap fisico e/o mentale, con l'ulteriore precisazione che la nascita può collidere con la temporanea o definitiva volontà dei genitori di non avere figli.

Diverso dal danno da nascita indesiderata è il danno da procreazione (detto anche danno da wrongful birth), che esula dal nostro ambito di approfondimento ed i cui confini vengono, in questa sede, tratteggiati al solo fine di consentirne la doverosa distinzione dogmatica rispetto al primo. Con l'espressione danno da procreazione si designa l'insieme di sofferenze, del neonato e dei suoi familiari, che si accompagnano alle lesioni inferte al prodotto del concepimento in fase antenatale o in occasione del parto (ex plurimis, per una visione sistematica d'insieme, M. Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in Danno e resp., 2001, 12 ss.).

Tra le lesioni inferte in fase antenatale rientrano anche quelle risalenti al momento del concepimento, laddove riconducibili all'avvenuta prescrizione ed assunzione di farmaci contro la sterilità, senza adeguata informazione circa le proprietà teratogene degli stessi (v. Cass. civ., sez. III, sent., 11 maggio 2009, n. 10741, per un caso in cui – avendo il medico omesso di fornire tale informazione - la Suprema Corte l'ha condannato al risarcimento del danno pur a fronte dell'impossibilità di stabilire se le malformazioni del neonato fossero o meno state causate dai farmaci assunti dalla gestante).

Trattasi di ambiti – quelli del danno da nascita indesiderata e del danno da procreazione - che coinvolgono l'intera tematica della responsabilità medica, intesa come responsabilità tanto del medico (o dell'ostetrica) quanto dell'azienda ospedaliera (o della clinica privata) presso la quale essi operano.

Fallito intervento di interruzione volontaria della gravidanza

Viene qui in rilievo la lesione del diritto all'autodeterminazione in campo di scelte procreative, quale conseguenza della violazione degli obblighi di informazione gravanti sul sanitario.

L'inefficace intervento di interruzione della gravidanza è fonte di danno risarcibile qualora l'insuccesso possa essere ascritto all'imperizia o negligenza dell'operatore (non certo quando l'operazione che non abbia raggiunto i risultati sperati sia stata eseguita conformemente alle leges artis), e sempre che sia rimasto colposamente inadempiuto l'obbligo di informare la paziente di un margine di esito infruttuoso dell'operazione e della necessità di sottoporsi ad un conseguente, successivo controllo.

La predetta omissione è stata peraltro considerata rilevante, sotto il profilo dell'esistenza del nesso causale (Cass. civ., sez. III, sent., 8 luglio 1994, n. 6464), sulla base del presupposto che - effettuati gli accertamenti di riscontro ed ottenutine gli esiti - residui il tempo necessario alla ripetizione del trattamento.

Mancata rilevazione di malattie del feto e dalla perdita del diritto di optare per un'interruzione di gravidanza

La mancata corretta informazione sulle condizioni del feto è causa di un danno da nascita indesiderata laddove incida sul diritto della donna di optare, ove ve ne siano i presupposti, per una interruzione della gravidanza.

Laddove l'omissione del medico incida sul diritto dei futuri genitori di non perdere la possibilità di ricorrere, ove possibile, a forme di terapia genica in utero, o di pianificare una serie di interventi importanti, prima e dopo la nascita, si ricade nell'ambito del danno da procreazione.

Nell'ambito che ci occupa – e sempre che le malformazioni erroneamente non rilevate o non comunicate alla madre da parte del medico siano gravi (giacché l'assenza di gravità delle lesioni fa escludere tout court che la madre si sarebbe ammalata qualora le avesse conosciute) - la censura può essere mossa ai sanitari:

a) sotto il profilo di una omessa informazione alla paziente in ordine: a tutte le possibili indagini genetico/diagnostiche - più o meno invasive, più o meno rischiose - consentite, e alla complessiva attendibilità dell'una piuttosto che dell'altra (Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754); alla possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, se l'esame diagnostico compiuto non abbia consentito, senza colpa del medico, una completa ed esaustiva visualizzazione del feto (Cass. civ., sez. III, sent., 13 luglio 2011, n. 15386);

b) sotto il profilo di una errata diagnosi prenatale, per la mancata colposa rilevazione di una malformazione fetale o di una malattia genetica.

L'omessa diagnosi può dipendere da una ritardata (Cass. civ., sez. III, sent., 4 gennaio 2010 n. 13) od omessa (Cass. civ., sez. III, sent., 5 ottobre 2010 n. 20667) esecuzione degli esami prenatali, o da un difetto di comunicazione circa l'attendibilità delle risultanze di un esame, e/o circa l'esistenza di esami più attendibili (Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754), o, infine, dall'errata interpretazione delle risultanze dell'esame (Cass. civ., Sez. III, sent., 21 giugno 2004 n. 11488).

Se la mancata informazione circa la natura, l'efficacia ed attendibilità della prestazione implica necessariamente la responsabilità del medico, al contrario l'omessa informazione circa la presenza di malformazioni fetali o di malattie genetiche è fonte di responsabilità solo ove sia accertato che la malformazione era effettivamente diagnosticabile, e consti pertanto la colpa del medico per non averla rilevata (Cass. civ., sez. III, sent., 10 novembre 2010, n. 22837).

La gestante può esercitare il diritto all'aborto solo in presenza dei presupposti che la legge n. 194/1978, artt. 4 e 6, detta in tema di interruzione volontaria di gravidanza entro ed oltre il novantesimo giorno.

Qualora sussistano tutti gli elementi previsti dalla legge perché la gestante possa esercitare il diritto all'interruzione della gravidanza e risulti provato che la stessa, se fosse stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto, avrebbe effettivamente esercitato tale diritto, il medico che non abbia adempiuto al dovere di informazione incorre in responsabilità.

Sul piano dell'accertamento del nesso di causalità materiale tra l'omessa informazione della presenza di malformazioni del feto e la volontà della gestante di abortire va segnalato un recente revirement giurisprudenziale.

Fino a qualche tempo fa si riteneva sufficiente, per la donna, in presenza dell'omessa rilevazione diagnostica e della mancata informazione, l'allegazione che – se correttamente informata - ella si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza: si affermava infatti rispondere al criterio di regolarità causale che, in presenza di una malformazione del feto, la donna preferisca non portare a termine la gravidanza (ex alteris,Cass. civ., sez. III, sent., 4 gennaio 2010 n. 13; Cass. civ., sez. III, sent., 10 novembre 2010 n. 22837).

Di recente, la Suprema Corte ha affermato che - nei casi in cui sia mancata, al momento della richiesta di accertamenti genetici, una chiara ed esplicita manifestazione al medico della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni fetali (circostanza, quest'ultima, da provare in giudizio) - è onere della donna non solo allegare ma anche dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, tale prova non potendo essere desunta dalla mera richiesta di sottoposizione ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un “indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità” (Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754; Cass. civ., sez. III, sent., 22 marzo 2013, n. 7269; Cass. civ., sez. III, sent., 30 maggio 2014, n. 12264).

In particolare, sarà compito della donna dimostrare che la gravidanza o il parto avrebbero comportato, ove note le anomalie del feto, un “grave pericolo per la sua vita” o un “grave pericolo per la sua salute fisica o psichica”.

Naturalmente, se alla donna spetta provare i fatti costitutivi del diritto, spetta al medico provare quelli idonei ad escluderlo, ed in particolare che il feto fosse già pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma quando è maturato il proprio inadempimento (Cass. civ., sez. III, sent. 10 maggio 2002, n. 6735, in Foro it. 2002, I, 3115).

L'aver riportato rigore nell'accertamento del nesso causale tra l'omessa informazione e l'intenzione personale della donna corrisponde al principio di vicinanza della prova, perché solo la donna direttamente interessata può essere in grado di fornire i necessari riscontri all'indizio integrato dall'essersi sottoposta ad uno o più accertamenti volti ad accertare la presenza di malformazioni del feto (L. Berti, Responsabilità per nascita indesiderata e onere della prova: il tramonto delle presunzioni semplici, in Ri.Da.Re; V. Carbone, Errata diagnosi del medico e risarcimento del danno, in Corriere Giur., 2013, 5, 729).

Resta peraltro fermo che la verifica dell'esistenza o meno, all'epoca dell'assunto diritto all'interruzione della gravidanza, del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, va condotta con giudizio ex ante, di talché ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo (Cass. civ., sez. III, sent., 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ., sez. III, sent., 10 maggio 2002, n. 6735).

Quanto fin qui detto presuppone che l'interesse che si ritiene leso dall'inadempimento dell'obbligo di informazione sia precipuamente quello di praticare, sussistendone i presupposti, l'interruzione di gravidanza.

Se, infatti, si ricollegasse l'inadempimento dell'obbligo di informazione alla lesione del diritto in astratto della donna di decidere se procreare o ricorrere all'aborto (in un'ottica riconducibile al danno da perdita di chance), non assumerebbe rilevanza alcuna la prova di quale sarebbe stata la scelta operata in concreto dalla donna, ma si aprirebbe la via ad una socializzazione dei pregiudizi connessi alla nascita di un bambino portatore di handicap.

Fallito intervento di sterilizzazione od impropria somministrazione di contraccettivo

Il tema delle nascite non desiderate trova un ulteriore terreno di confronto sul piano del non riuscito intervento di sterilizzazione (o dell'avvenuta prescrizione di un farmaco anticoncezionale inidoneo: v., su Ri.Da.Re. il contributo della Redazione Scientifica: Farmaco anticoncezionale sbagliato: danno da nascita indesiderata a carico del medico).

Vengono qui in rilievo gli obblighi di informazione relativi ai rischi di inefficacia dell'intervento ed alla descrizione della condotta post-operatoria che il paziente deve tenere e che, in taluni casi, appare in grado di condizionare il buon esito del trattamento chirurgico stesso (cfr. Trib. Milano, sent., 20 ottobre 1997, in Danno e Resp., 1999, 1, 83)

Naturalmente, al corretto assolvimento degli obblighi di informazione non potrà attribuirsi efficacia esimente laddove vi sia stata un'esecuzione negligente, imprudente o imperita dell'intervento medico chirurgico, costituendo - quello di informazione - un obbligo (contrattuale) ulteriore ed autonomo rispetto all'altro avente ad oggetto la prestazione sanitaria.

Aventi diritto al risarcimento

a) Madre e padre

Nei casi di danno da nascita indesiderata la giurisprudenza ha sempre riconosciuto sia alla madre che al padre (anche se non legato da matrimonio alla madre, purché stabilmente convivente more uxorio con essa: Trib. Roma, sent., 6 giugno 2005, n. 14378) la legittimazione attiva a far valere la pretesa risarcitoria nei confronti del medico e della struttura (privata o pubblica) nella quale egli opera.

Anche il padre, infatti - atteso il complesso dei diritti e dei doveri che, secondo l'ordinamento, si ricollegano alla procreazione, e non rilevando, in contrario, che sia consentita solo alla madre la scelta di interrompere la gravidanza - rientra tra i soggetti protetti dal contratto di spedalità (o dal contratto d'opera intellettuale) e nei confronti dei quali la prestazione è dovuta. Come a dire che l'omessa informazione alla madre, incidendo sul diritto del padre alla pianificazione familiare (diritto riconosciuto dagli artt. 29 Cost. e 144 c.c.) genera un danno non patrimoniale che, in quanto lesivo di una situazione di rango costituzionale, è risarcibile in capo al padre (anche al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 2059 c.c.).

Più in generale, il contratto che si stipula tra la gestante e la struttura sanitaria (o il medico di fiducia della paziente), avente ad oggetto la prestazione principale di tipo diagnostico o terapeutico, è al contempo caratterizzato da una serie di obblighi accessori di protezione, aventi funzione protettiva di soggetti qualificati che, pur estranei a quella convenzione o a quel rapporto, potranno agire nei confronti della struttura o del medico ai sensi e per gli effetti dell'art. 1218 c.c. (ex alteris,Cass. civ. sez. III, sent., 20 ottobre 2005, 20320; Cass. civ, sez. III, sent., 30 marzo 2011, n. 7256).

La figura del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi non trova peraltro il favore unanime della dottrina, ed in particolare di chi ritiene che con esso si operi una vera e propria trasformazione del regolamento contrattuale individuando, in assenza di adeguata copertura positiva (tale non potendo considerarsi nemmeno l'art. 1411 c.c.), un indebito allargamento degli interessi meritevoli di tutela che l'autonomia privata non aveva ritenuto di prendere in considerazione (v. per tutti A. Galati, Considerazioni su errore diagnostico, danno da nascita indesiderata e danni risarcibili, in Resp. civ., 2012, 12, 865; C. Mighela, Omessa diagnosi di anomalie genetiche del feto e diritto dei genitori al risarcimento del danno non patrimoniale, in Resp. civ., 2012, 12, 872). Secondo questo orientamento, l'unica legittimata ad agire in via contrattuale per i danni conseguenti all'errore diagnostico del medico sarebbe la madre; il padre, pur danneggiato, in assenza di un valido rapporto obbligatorio che possa effettivamente renderlo creditore della prestazione, avrebbe a disposizione la sola via offerta dalla lex aquilia.

Quale che sia il titolo di legittimazione del padre a domandare il danno da nascita indesiderata, lo stesso viene comunque meno nell'ipotesi in cui la madre scelga di non abortire, ovvero manchi la prova che, se fosse stata informata, avrebbe scelto di abortire. In tal caso non potrà essere riconosciuto alcun risarcimento al padre del concepito, in quanto il diritto del padre alla pianificazione familiare è recessivo rispetto al diritto di (non) abortire, di cui è titolare la gestante.

b) Neonato

Nell'ambito del danno da procreazione la giurisprudenza ha sempre riconosciuto al neonato, una volta acquistata la capacità giuridica, la titolarità dell'azione da inadempimento contrattuale, qualificando il contratto di ricovero ospedaliero stipulato dalla gestante come fattispecie con effetti protettivi a favore del terzo concepito (Cass. civ., sez. III, sent., 22 novembre 1993, n. 11503; Cass. civ., sez. III, sent.29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741).

Nell'ambito del danno da nascita indesiderata - e dunque in tutti i casi di non evitabilità dell'insorgere o dell'aggravarsi delle patologie non evidenziate dalla errata diagnosi prenatale (e sempre che, ovviamente, dette patologie non siano state determinate dalla condotta del sanitario) - la giurisprudenza italiana ha al contrarioper lungo tempo escluso ogni responsabilità del medico per i danni patiti dal bambino nato malato e dunque, eventualmente, indesiderato (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 29 luglio 2004 n. 14488).

Ciò in considerazione della non configurabilità, nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere se non sani, non essendovi rapporto biunivoco e diretto tra malformazione prenatale e interruzione volontaria della gravidanza (alla luce dell'art. 6 legge n. 194/1978 è esclusa la possibilità di praticare l'aborto c.d. eugenetico o selettivo - ossia per la sola causa che il feto è malformato - essendo invece requisito essenziale il pericolo di vita o di integrità per la salute psicofisica della donna).

Tuttavia, in un recente arresto, la Suprema Corte ha per la prima volta compreso tra i soggetti legittimati a chiedere il risarcimento anche il neonato (Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754).

Il caso è stato quello di una donna che, già madre di due bambine, conosciuto il proprio stato di gravidanza, si era rivolta al ginecologo per sottoporsi a tutti gli esami funzionali ad escludere eventuali malformazioni del feto, affermando essere sua ferma volontà quella di interrompere la gravidanza in caso di presenza di anomalie genetiche. Effettuato il solo Tritest con risultati tranquillizzanti, la gestante non era stata informata della non assoluta attendibilità del relativo responso. Aveva dunque portato a termine la gravidanza, all'esito della quale aveva dato alla luce una bimba affetta da sindrome di Down.

Nella fattispecie concreta la legittimità dell'istanza risarcitoria iure proprio del neonato deriva, secondo la Suprema Corte, dall'omissione colpevole cui è conseguita la sua esistenza diversamente abile non voluta.

Il comportamento colpevole del medico, che ha impedito alla donna di interrompere la gravidanza, rende legittimo equiparare, sul piano del nesso di condizionamento, la fattispecie dell'errore medico che non abbia evitato l'handicap evitabile (l'handicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato, e l'errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata non voluta (evitabile, senza l'errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di interrompere la gravidanza, che la donna aveva espressamente dichiarato al medico di voler esercitare in caso di accertamento di malformazioni del feto).

Il diritto vantato dal minore non sarebbe dunque affatto sorretto dalla rivendicazione di dover nascere sano (ovvero di dover non nascere se non sano), ma sarebbe volto alla riparazione di una condizione di pregiudizio (quella dell'essere nato benché indesiderato) per il tramite di un risarcimento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità: il medico viene chiamato a compensare una situazione di difficoltà insorta perché è stato negligente, a nulla rilevando che le malformazioni del neonato fossero congenite (la negligenza non causa il danno, ma diventa titolo per imporre al convenuto l'obbligo risarcitorio: A. Mastrorilli, To be or not to be: comparare l'incomparabile, in Danno e Resp., 2013, 5, 492 e ss.).

c) Fratelli e sorelle

La stessa sentenza della Cassazione n. 16754/2012 ha stabilito, sempre per la prima volta, che il risarcimento del danno (non patrimoniale) da nascita indesiderata spetti anche ai fratelli della persona nata con malformazioni (per un esame critico della decisione, con particolare riferimento al rischio di un eccessivo allargamento del danno risarcibile, vedasi S. Cacace, Il Giudice “rottamatore” e l'enfant prèjudice, in Danno e Resp., 2013, 2, 139 e ss.).

Secondo la Suprema Corte, lo stesso principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale, anche al padre, si pone a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo anche in capo ai fratelli ed alle sorelle del neonato, dei quali non può non presumersi l'attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e dalle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l'id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori.

Nell'immediato detto danno va predicato in termini di inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione (e ciò per lo stato d'animo che informerà il quotidiano dei genitori per la condizione del figlio meno fortunato).

Danno risarcibile

a) Omessa diagnosi prenatale di malformazioni del feto

Nel caso di omessa diagnosi prenatale di malformazioni del feto, la soppressione del diritto della gestante di interrompere la gravidanza comporta (tanto in capo alla madre quanto in capo al padre, come si è visto) una lesione del bene della vita rappresentato dal diritto dell'individuo, costituzionalmente garantito (artt. 2 e 29 Cost.), di pianificare le proprie scelte familiari e di godere di un ménage domestico conforme ai propri desiderata.

A ciascuno dei genitori sarà dunque dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale scaturito dalla lesione del suddetto diritto.

Nella quantificazione del pregiudizio i giudici di merito tengono normalmente conto della sofferenza morale causata dalla perduta possibilità di optare per l'interruzione della gravidanza; dell'ansia e dell'angoscia nutrite per la sorte del proprio figlio; del forzoso mutamento delle abitudini di vita, indotto dagli obblighi assistenziali dovuti al figlio gravemente invalido; dell'impossibilità di una preparazione psicologica di fronte alla realtà di un figlio menomato.

A seconda dei casi, si tengono poi in considerazione la circostanza che il bimbo nato con menomazioni sia o meno (e in caso affermativo quanto a lungo) sopravvissuto, l'età dei genitori, la possibilità o meno dei genitori di avere altri figli.

Nella misura in cui la madre abbia dedotto e provato in giudizio di aver maturato, a seguito della nascita non annunciata di un bimbo malformato, una sindrome depressiva, il danno non patrimoniale dovrà essere liquidato anche con riferimento alla specifica componente psichica (Trib. Genova, sez. II, sent.,7 aprile 2006).

Vi è stato contrasto, in giurisprudenza, in merito alla configurabilità - in termini di danno patrimoniale risarcibile - delle spese di mantenimento ed educazione.

Secondo un primo, più risalente ed oggi minoritario, orientamento, la preordinazione della legge n. 194/1978 alla tutela della salute, e non del patrimonio, della donna, renderebbe risarcibili, dal punto di vista patrimoniale, i soli costi necessari a rimuovere le“difficoltà economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna” (Cass. civ., sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, in Corr. giur., 1995, 91; più di recente Trib. Monza, sez. II, sent., 14 novembre 2005).

Secondo altro, di gran lunga maggioritario orientamento, invece, nel caso che ci occupa è risarcibile anche il danno patrimoniale, sia perché in ambito contrattuale il creditore ha diritto al ristoro dell'intero pregiudizio subito, ex art. 1223 c.c. (Cass. civ., sez. III, sent., 29 luglio 2004, n. 14488), sia perché, ove siano stati lesi diritti costituzionalmente protetti, il risarcimento del danno spetta in relazione ad ogni interesse (patrimoniale o non patrimoniale) riconducibile nell'ambito della condotta lesiva in virtù di un nesso di derivazione eziologico (M. Rossetti, Il danno da nascita indesiderata, in Libro dell'anno del Diritto 2014, 2014).

Così, è stato ritenuto risarcibile il danno ragguagliato alle “ulteriori spese” di mantenimento della persona nata con malformazioni, pari al “differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da gravi patologie” (Cass. civ., sez. III, sent., 4 gennaio 2010 n. 13).

A fronte di adeguata allegazione e prova, appare ancora ragionevolmente risarcibile la diminuzione di reddito patita dai genitori che, per accudire il figlio, abbiano dedicato meno tempo alla propria attività professionale ed alla vita di relazione (intesa come tempo utile a coltivare una vita lavorativa).

b) Fallito intervento di sterilizzazione volontaria od avvenuta somministrazione di un farmaco anticoncezionale inefficace

Anche in tal caso la lesione del diritto di libertà dei coniugi di autodeterminarsi rispetto alla loro vita, come singoli e come coppia, nonché la compromissione del diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, ove tradottasi in un pregiudizio debitamente allegato e provato, appaiono risarcibili (si pensi allo «stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici forzatamente mutati» ed al «totale cambiamento delle abitudini di vita che la nascita di un figlio comporta nella vita della coppia, senza che questa abbia potuto deciderlo»: Trib. Busto Arsizio, sent, 17 luglio 2001).

In capo al genitore che si era sottoposto all'intervento fallito è stato poi ritenuto liquidabile – nella sua componente biologica – il danno conseguente alla scorretta esecuzione dello stesso (Trib. Tolmezzo, sent., 7 giugno 2011, in Famiglia e Diritto, 2012, 3, 272 e ss., con nota di G. Bilò, Responsabilità medica per nascita indesiderata); e ancora, si è ritenuto che possa spettare alla donna anche il risarcimento del danno alla salute per invalidità temporanea in relazione alle conseguenze fisiche, estetiche e relazionali connesse alla gestazione non desiderata, sia ante che post partum (M. Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del “danno da bambino non voluto, nota a Trib. Milano, sent., 20 ottobre 1997, in Danno e resp., 1999, 88).

Sotto il profilo patrimoniale si sono registrati orientamenti contrastanti in ordine alla ammissibilità, in caso di nascita di un figlio sano, del risarcimento delle spese che i due genitori dovranno accollarsi per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica.

In senso negativo al risarcimento v'è stato chi ha sostenuto l'applicabilità, nella fattispecie, dell'art. 1227, comma 2 c.c., donde la non risarcibilità del danno patrimoniale connesso alle spese di cura e di mantenimento nel momento in cui la gestante, resasi conto di essere rimasta incinta, non abbia proceduto, pur potendolo, ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza; chi, ancora, ha osservato che addebitare al personale o all'organismo sanitario tutte le conseguenze della nascita di un figlio sano, benché non voluto, costituirebbe un rischio troppo alto e sproporzionato rispetto alla gravità della negligenza, mentre il risarcimento costituirebbe un indebito arricchimento per i genitori; chi, infine, ha invocato il principio della compensatio lucri cum damno, evidenziando come – anche a voler considerare il mantenimento di un figlio al pari di una mera perdita per il creditore - nondimeno l'onere di mantenimento può trovare compensazione nei vantaggi morali (soddisfazioni ed appagamenti) e materiali (possibili ritorni patrimoniali) che il bambino potrà arrecare ai genitori.

In senso favorevole al risarcimento v'è stato, specularmente, chi ha ricordato come l'aborto non possa essere considerato un mezzo di controllo delle nascite o un'alternativa alla pianificazione familiare, e come l'onere imposto al creditore-danneggiato dall'art. 1227 comma 2 c.c. non si estenda a quelle attività che interessano abnormemente la sfera giuridica personale della parte, condizionando fortemente le scelte riconducibili alla libertà di autodeterminazione della persona e creando obblighi autonomi ed in nessun modo collegati al normale processo evolutivo del fatto imputabile al danneggiante; chi, ancora, sottolineando come il danno non sia affatto costituito dalla nascita in sé, ma dalle conseguenze patrimoniali che tale tipo di evento porta con sé, ha negato che il risarcire ai genitori il danno per gli oneri di mantenimento del figlio nato in seguito ad una non riuscita sterilizzazione comporti «una commercializzazione che depaupera il neonato del proprio valore» (Trib. Venezia, sent., 10 settembre 2002, in Foro It., 2002, I, 3480); chi, infine, ha escluso l'invocabilità di qualsivoglia compensatio lucri cum damno, essendo assai dubbio, nel caso di specie, che il danno e l'incremento patrimoniale derivino in modo diretto dallo stesso evento dannoso e dallo stesso rapporto giuridico, così come richiesto dalla giurisprudenza ai fini dell'applicazione del principio (per tutti i riferimenti bibliografici, e per un'autonoma disamina della questione, v. G. Facci, Il danno da sterilizzazione non riuscita, in Resp. civ., 2004, 2).

Oggi si ritiene diffusamente risarcibile il danno costituito dalle spese che i due genitori dovranno accollarsi per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica (che di norma viene collocata tra i venti ed i ventitré anni, a seconda della prognosi che, in relazione alle attività lavorative dei genitori ed al livello culturale della famiglia, è possibile fare in ordine al grado di studi conseguendo: da ultimo Trib. Milano, sez. I, sent., 10 marzo 2014). La quantificazione dell'ammontare del danno risarcibile avviene in via equitativa, tenendosi conto della situazione redditual-patrimoniale dei genitori, delle rispettive condizioni di salute e di ogni circostanza rilevante.

Sempre sul piano patrimoniale, inoltre, accanto alla rifusione delle spese sostenute per il fallito intervento di sterilizzazione, si ritiene risarcibile, sussistendone i presupposti, il danno da lucro cessante o, nel caso di madre casalinga, il danno parametrato al maggior affaticamento nelle attività domestiche prima del parto e ad un necessario minore impegno in dette incombenze dopo il parto (G. Bilò, Responsabilità medica per nascita indesiderata, in Famiglia e Diritto, 2012, 3, 272 e ss.).

c) Fallito intervento di interruzione volontaria di gravidanza

Venendo, alfine, ai casi di nascita indesiderata per fallito intervento di interruzione volontaria di gravidanza, va segnalato come anche con riferimento a quest'ambito sia stato per lungo tempo acceso il dibattito circa la risarcibilità del danno patrimoniale.

Il caso più risalente è quello trattato dal Tribunale di Padova (Trib. Padova 9 agosto 1985), che - sul presupposto della lesione, quale interesse giuridicamente protetto, del diritto di scelta e di autodeterminazione in ambito procreativo - ebbe a condannare la USL ed il sanitario al risarcimento di una somma idonea a sopperire alle difficoltà dei (giovanissimi) genitori per il periodo necessario al raggiungimento della stabilità economica, visto che l'art. 4 legge n. 194/1978 fa riferimento alle condizioni economiche della donna come possibile condizione per l'i.v.g.

La richiamata decisione di merito fu ribaltata dalla Corte di legittimità che, individuando l'interesse tutelato dalla legge n. 194/1978 nella «libertà di scelta tra aborto e rischio della salute», riconobbe come danno risarcibile la sola lesione alla salute fisio-psichica della donna, affermando che un eventuale pregiudizio economico avrebbe potuto rilevare solo ove influente sullo stato di salute della gestante (Cass. civ., sez. III, sent., 8 luglio 1994 n. 6464).

La vivacità del dibattito ed il contrasto di opinioni in materia emergono con evidenza se si considera che il perentorio arresto della Suprema Corte non impedì affatto al Tribunale di Cagliari, l'anno immediatamente successivo, con la sentenza 23 febbraio 1995, di ritenere il medico obbligato al risarcimento di tutti i danni connessi al mantenimento del figlio (per un'articolata disamina dei vari precedenti giurisprudenziali – v. anche Trib. Milano, sent., 20 ottobre 1997 - e della sorte degli stessi fra secondo grado di giudizio e giudizio di legittimità, cfr. A. Ferrario, Il danno da nascita indesiderata, Giuffrè, 2011, 87).

Solo in prosieguo di tempo la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nell'orientamento che considera il pregiudizio alla salute quale presupposto di liceità della scelta interruttiva, e non già quale fattore di delimitazione delle possibili conseguenze dannose dell'inadempimento del sanitario (per eadem ratio, nel senso che la lesione del diritto di scelta della madre non può operare come criterio di selezione dei danni risarcibili e, quindi, come limite della responsabilità del sanitario, cfr. Cass. civ., sez. III, sent.,10 maggio 2002 n. 6735).

Escluso, pertanto, che la nascita in sé possa costituire un danno ingiusto, l'errore medico potrà nondimeno giustificare - a fronte dell'avvenuta frustrazione dei diritti garantiti dalla legge n. 194/1978 e dai principi costituzionali – il risarcimento, in capo agli aventi diritto, del danno patrimoniale e non patrimoniale (nelle sue varie componenti) nei termini che già si sono analizzati.

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