Il “danno comunitario” come rimedio effettivo in caso di contratto a termine invalido con la P.A.
24 Marzo 2015
Massima
«In base al generale canone ermeneutico dell'obbligo degli Stati UE della interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto comunitario, come interpretato dalla CGUE, per effetto dell'ordinanza della Corte di giustizia UE in data 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 – fermo restando che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, salva l'applicazione di ogni responsabilità e sanzione – l'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui prevede “il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”, deve essere interpretato nel senso che la nozione di danno applicabile nella specie deve essere quella di “danno comunitario”, il cui risarcimento, in conformità con in canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, è configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro. Per la liquidazione del suddetto danno da perdita del lavoro è utilizzabile come criterio tendenziale quello indicato dall'art. 8 della L. 15 luglio 1966, n. 604, apparendo, invece, improprio, il ricorso in via analogica sia al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 sia al criterio previsto dall'art. 18 St. lav., trattandosi di criteri che, per motivi diversi, non hanno alcuna attinenza con l'indicata fattispecie». Sintesi del fatto
Una lavoratrice veniva impiegata presso la Regione Autonoma Valle d'Aosta in forza di 14 contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, senza soluzione di continuità, per la durata di sei anni. Proposto giudizio al fine di sentir dichiarare l'illegittimità di tali contratti, in quanto conclusi in violazione dei limiti (causali e temporali) previsti dalla legge, il Tribunale di Aosta respingeva la domanda della ricorrente, volta ad ottenere la “conversione” del primo contratto a termine in un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dell'amministrazione. Nel contempo, il Giudice di primo grado accoglieva la domanda di risarcimento del danno, condannando la convenuta al pagamento di un importo corrispondente a 20 mensilità dell'ultima retribuzione percepita dalla lavoratrice, in applicazione analogica delle sanzioni patrimoniali previste nell'art. 18 St. lav. in caso di licenziamento illegittimo. In seguito all'impugnazione della Regione, la Corte d'Appello di Torino assolveva l'appellante dalla condanna al risarcimento del danno emessa dal Tribunale, rilevando che la lavoratrice non aveva fornito alcuna deduzione o allegazione in merito al danno pretesamente patito. Avverso la sentenza di appello la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione. In motivazione La Corte d'Appello aveva respinto la domanda di risarcimento del danno in quanto: «in conformità con la giurisprudenza di legittimità e dando seguito ad un precedente indirizzo di questa Corte, si deve rilevare che la lavoratrice non ha fornito alcuna deduzione o allegazione in merito al danno patito, sicché essendo da escludere che il danno sia in re ipsa, la P.A. deve essere assolta dalla condanna al risarcimento del danno emessa dal primo Giudice». La questione
La questione in esame è la seguente: accertata l'illegittimità di una successione di contratti a termine con una P.A., atteso che il meccanismo della conversione si pone in contrasto con l'obbligo esclusivo di assunzione mediante concorso, è possibile ravvisare in capo al lavoratore un diritto soggettivo al risarcimento del danno? E quali parametri normativi devono orientare la sua determinazione? Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento, in conformità all'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ribadisce che nell'ipotesi di instaurazione di rapporti di lavoro a termine con una P.A. in violazione delle disposizioni di legge non può operare, a favore del lavoratore, il meccanismo della stabilizzazione del contratto. Invero, a differenza che nel settore privato, ove alla dichiarazione di nullità della clausola di durata del contratto di lavoro segue la “conversione” dello stesso in un rapporto a tempo indeterminato, nel settore del lavoro pubblico l'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego) vieta espressamente l'operatività di simile rimedio, limitandosi a riconoscere al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Tale assetto normativo, contrariamente a quanto osservato da un indirizzo rimasto del tutto minoritario della giurisprudenza di merito (Trib. Livorno, 25 gennaio 2011; Trib. Terni, 17 novembre 2010; Trib. Siena, 15 ottobre 2010), non si pone in contrasto con i principi posti dal diritto europeo. La Corte di giustizia, già a partire dalla sentenza CGUE 7 settembre 2006, cause C-53/04 (Marrosu) e C-180/04 (Vassallo), ha infatti più volte chiarito, in riferimento al d.lgs. n. 165 del 2001, che la direttiva 1999/70 sul lavoro a tempo determinato non sancisce un obbligo generale per gli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato illegittimi, lasciando ad essi un certo margine di discrezionalità, pur nel rispetto dei limiti dell'effettività, della proporzionalità e dell'idoneità della sanzione predisposta al fine della prevenzione degli abusi nel ricorso ai contratti a termine. In particolare, per quel che qui interessa, gli Stati membri possono disciplinare diversamente tali conseguenze sanzionatorie a seconda della natura privata o pubblica del datore di lavoro, senza che simile disparità di trattamento dia necessariamente luogo ad una ingiustificata discriminazione. Nel nostro ordinamento, del resto, come rammenta la pronuncia in esame, la giustificazione di tale differenziazione discende dalla modalità generale ed ordinaria di accesso ai ruoli delle P.A., ossia il concorso pubblico, richiesta direttamente da una disposizione di rango costituzionale (art. 97 Cost.) posta a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento della P.A. stessa (cfr. Corte cost., 27 marzo 2003, n. 89). Tuttavia la Cassazione, sulla scia delle indicazioni formulate dall'ordinanza del 12 dicembre 2013 della Corte di giustizia, causa C-50/13 (Papalia), puntualizza per la prima volta che, per rivestire i caratteri della sufficiente effettività, dissuasività e proporzionalità, la tutela risarcitoria riconosciuta al lavoratore in luogo della conversione del contratto deve presentare tratti di specialità rispetto all'ordinaria disciplina civilistica e, in particolare, non può accollare al medesimo l'onere di provare la perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante. Nell'ordinanza Papalia la Corte di giustizia ha infatti escluso la compatibilità con il diritto dell'Unione della normativa nazionale la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto per il lavoratore interessato di ottenere il risarcimento del danno ove il rimedio risarcitorio, a causa degli oneri probatori gravanti sul lavoratore, si presenti tale da rendere per quest'ultimo «praticamente impossibile o eccessivamente difficile» ottenere il risarcimento del danno medesimo. Pertanto, precisa la Cassazione, il regime probatorio da applicare dovrebbe essere analogo a quello che si applica per le discriminazioni (v., ad es., art. 28, comma 4, d.lgs n. 150/2011): segnatamente, mentre il lavoratore può limitarsi a fornire elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, spetta all'amministrazione l'onere di provare l'insussistenza dell'abuso. In sostanza, secondo la Corte, la nozione di danno di cui all'art. 36 del T.U. sul pubblico impiego deve essere interpretata quale “danno comunitario”, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro. Più che di ristoro in senso tecnico, quindi, il risarcimento di cui all'art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 dovrebbe essere interpretato quale trattamento forfettario di stampo sostanzialmente indennitario (Trib. Milano, 1 agosto 2011; Trib. Foggia, 17 ottobre 2008; App. Milano, 14 marzo 2006). In merito alla quantificazione del risarcimento, la Cassazione, sempre al dichiarato fine di assicurare un miglior recepimento della giurisprudenza della Corte di giustizia, indica come criterio tendenziale da utilizzare da parte del giudice di merito quello indicato dall'art. 8 della L. 15 luglio 1966, n. 604, che, in caso di licenziamento ingiustificato intimato da datori di lavoro esclusi dal campo di applicazione dell'art. 18 St. lav., liquida il danno da “perdita di lavoro” in un importo compreso tra le 2,5 e le 6 (eventualmente elevabili a 14) mensilità dell'ultima retribuzione. Il ricorso analogico a tale norma sembra potersi giustificare in considerazione del fatto che l'art. 8 L. n. 604/1966 disciplina l'ipotesi della perdita del posto di lavoro in conseguenza dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro, ma non riconosce al lavoratore, proprio come accade nella materia oggetto della sentenza in commento, il diritto a riottenere il posto di lavoro (Trib. Milano, 1 agosto 2011). Ciò spiegherebbe i motivi della ritenuta inadeguatezza, in simili fattispecie, dell'applicazione analogica di altri criteri di forfettizzazione del risarcimento del danno, come quello previsto dall'art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010 per i casi di “conversione” del contratto a termine invalido (in senso contrario v. però Cass. 21 agosto 2013, n. 19371; Trib. Varese, 19 settembre 2013) o quello dell'applicazione analogica delle sanzioni risarcitorie contenute nell'art. 18 St. lav. (in senso contrario v. però Trib. Aquila, 27 giugno 2012; Trib. Genova, 14 maggio 2007; App. Roma, 26 marzo 2012; Trib. Firenze, 25 settembre 2013; App. Genova, 9 gennaio 2009), perché, in fattispecie come quella in esame, non vi sono elementi che consentano di affermare che il lavoratore sia in possesso dei requisiti che gli avrebbero consentito l'accesso a un impiego a tempo indeterminato. La pronuncia in commento è di grande interesse in quanto sul punto la giurisprudenza, anche della Suprema Corte, non risulta affatto uniforme. La recente Cass. civ., sez. lav., sent., 10 settembre 2014, n. 19112, ad esempio, prendendo le mosse da un caso concreto in tutto analogo a quello in esame e confermando l'indirizzo più diffuso in seno alla giurisprudenza di legittimità, si era assestata su una posizione ben differente, escludendo l'applicabilità di ogni meccanismo forfettario di determinazione del danno, sostenendo che, per ottenere il risarcimento, il lavoratore dovesse fornire la prova del danno subito, in applicazione dei comuni principi in tema di responsabilità da inadempimento (art. 1218 e ss. c.c.). Una prova che, evidentemente, avrebbe dovuto riguardare anche il quantum del risarcimento (su cui v. anche Cass., 13 gennaio 2012, n. 392). Osservazioni
Come emerge dalla giurisprudenza citata, non vi è un orientamento unanime della Corte di Cassazione in merito ai criteri di determinazione del danno risarcibile in caso di contratto a termine illegittimo con la P.A.. In attesa di un eventuale intervento sul punto delle Sezioni Unite, a giudizio di chi scrive una sintesi tra i diversi indirizzi emergenti potrebbe essere individuata nella considerazione del criterio di risarcimento forfettario di cui all'art. 8 della L. n. 604/1966 alla stregua di un parametro tendenziale di quantificazione del danno nei casi in cui non sia possibile per il lavoratore assolvere agli oneri probatori necessari per accedere a una più consistente tutela risarcitoria di diritto comune ex artt. 1223 ss. c.c., la cui operatività, tuttavia, non dovrebbe essere esclusa qualora sia invece possibile provare il maggior danno eventualmente subito. Così delineata, la determinazione del “danno comunitario” potrebbe risultare in ogni caso munita di quell'adeguatezza necessaria al fine dell'effettiva repressione degli abusi, da parte delle P.A., nel ricorso ai contratti a tempo determinato. |