La condanna per lite temeraria e l'esemplificazione della colpa grave da parte dei giudice di legittimità
02 Agosto 2016
Massima
La totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso per cassazione, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata, costituisce un indizio idoneo a configurare, ex art. 2727 c.c., la responsabilità prevista dell'art. 385, comma 4, c.p.c. (nella formulazione applicabile ratione temporis), che prevede la condanna, anche d'ufficio, della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, entro un importo massimo, se si ritenga che il ricorso per cassazione sia stato proposto o allo stesso si sia resistito anche solo con colpa grave. Il caso
Il Tribunale territorialmente competente rigettava la domanda diretta a conseguire il risarcimento dei danni in tema di circolazione stradale, escludendo la sussistenza stessa del sinistro da cui l'attore sosteneva dipendessero le lesioni per le quali agiva. La parte soccombente ricorre dunque in Cassazione sostenendo (tra l'altro) l'erroneità del giudizio di merito e per dimostrare come sia stata data importanza solo ad alcune prove piuttosto che ad altre. La Cassazione nel rigettare il ricorso – sul rilievo che non è consentita una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito – applica ratione temporis il quarto comma dell'art. 385 c.p.c., abrogato dall'art. 46, comma 20, L. 18 giugno 2009, n. 69, condannando il ricorrente che aveva tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176, comma 2, c.c.) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. La questione
La questione in esame è la seguente: in quali casi è configurabile la colpa grave ai fini della condanna ai sensi dell'art. 96 comma 3 c.p.c. che presuppone l'accertamento dell'elemento soggettivo? Le soluzioni giuridiche
Il legislatore italiano, com'è noto, nel 2009 — nell'ambito di un provvedimento che rimodula il regime delle spese di giudizio — ha aggiunto il comma 3 all'art. 96 c.p.c., da un lato, al dichiarato fine di deflazionare l'enorme mole di contenzioso che intasa i ruoli degli uffici giudiziari; dall'altro, a seguito delle numerose condanne subite dallo Stato italiano per l'irragionevole durata dei processi. La statuizione contempla l'ipotesi di una condanna che attribuisce al giudice, anche d'ufficio, il potere di condannare il soccombente — contestualmente alla pronuncia sulle spese di lite — anche al pagamento, a favore della controparte, di un'ulteriore somma da determinarsi in via equitativa. L'inserimento della nuova previsione, di valenza generale, ha reso superflua (abrogandola) la corrispondente statuizione relativa al solo giudizio per Cassazione, che ne costituiva l'immediato antecedente storico. Il riferimento è all'art. 385, comma 4, c.p.c., che stabiliva: «quando pronuncia sulle spese, la Corte di cassazione, anche d'ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa abbia proposto il ricorso o vi abbia resistito anche solo con colpa grave. In tal senso, la novella è, chiaramente, nel segno del rafforzamento dei poteri sanzionatori del giudice contro chi, a vario titolo, rallenti la durata fisiologica e ragionevole del processo. Nelle prime applicazioni la giurisprudenza tende ad evidenziare come la nuova norma sia volta a perseguire, sia pure indirettamente, «interessi pubblici, quali il buon funzionamento e l'efficienza della giustizia civile e, più in particolare, la ragionevole durata dei processi (che dovrebbe essere garantita dalla diminuzione del contenzioso, mediante l'eliminazione delle cause pretestuose o strumentali)» (Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010; Trib. Padova, sez. II, 10 marzo 2015: la condanna ex art. 96 c.p.c. della parte che abbia condotto l'intera causa con una condotta integrante grave negligenza mira a ristorare sia il danno arrecato alla parte ingiustamente coinvolta nel procedimento sia il danno arrecato al sistema giudiziario nel suo complesso per l'aggravio di cause). Tutti concordano nel ritenere che si tratti di norma volta a punire l'«abuso del processo» (Trib. Varese, sez. Luino, ord. 23 gennaio 2010; Trib. Piacenza, 22 novembre 2010), svolgendo una funzione non (soltanto) risarcitoria ma (anche) «sanzionatoria»; Trib. Milano, ord. 20 agosto 2009; Trib. Varese, 30 ottobre 2009; Trib. Prato, 6 novembre 2009; Trib. Roma. 11 gennaio 2010; Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Roma, sez. Ostia, 9 dicembre 2010. Si discosta dalla linea interpretativa seguita dalla maggioranza, Trib. Terni 17 maggio 2010, che accentua la rilevanza da attribuire alla «sussistenza di un pregiudizio della parte vittoriosa etiologicamente imputabile alla condotta di abuso processuale della parte soccombente»; così, la ratio della nuova disposizione viene individuata (anche) nell'intento di scoraggiare comportamenti contrari alla funzionalità del servizio giustizia e in genere al rispetto della legalità, Trib. Milano, ord. 20 agosto 2009, nonché Trib. Varese 21 gennaio 2011). Ai sensi dell'art. 58, comma 1, della stessa legge, la disposizione si applica ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, cioè a decorrere dal 4 luglio 2009. La norma ha dunque natura sanzionatoria e non risarcitoria (v. M. Di Marzio, La natura sanzionatoria dell'art. 96, comma 3 c.p.c., in Ri.Da.Re.), tanto che si ritiene che l'introduzione del comma 3 costituisca una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario (Cass., 30 luglio 2010, n. 17902). Osserva in proposito la Cassazione che «fuori dei casi, di parametri legali predeterminati, il risarcimento ha sempre natura riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto, e non sanzionatoria o afflittiva. La liquidazione d'ufficio può essere, quindi — e normalmente è — equitativa, data la difficoltà di provare l'esatto ammontare del danno; ma ciò non è altro che l'applicazione di un criterio generale (artt. 1226 e 2056 c.c.) e pertanto non comporta alcuna deroga all'onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l'effettività» (Cass., Sez. Un., 20 aprile 2004, n. 7538). Interpretazione questa, che riceve, conforto, a contrario, dalla recente novellazione della norma, mediante l'inserimento del comma 3 ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 12: fermi i presupposti oggettivi e soggettivi sopra esaminati, ha invece introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte (richiesta, invece, nelle originarie fattispecie, per giurisprudenza costante), sia dalla prova di un danno riconducibile alla condotta processuale dell'avversario). In ogni caso, l'ipotesi considerata dall'art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone pur sempre il requisito della mala fede o della colpa grave, non solo perché è inserita in un articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile e, a maggior ragione, quella di cui al comma 3 attesa la sua natura sanzionatoria (Cass., 30 novembre 2012, n. 21570). Secondo gli ultimi arresti giurisprudenziali la «temerarietà della lite può essere in concrete circostanze ravvisata nella coscienza dell'infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza (colpa grave) (Cass., 30 dicembre 2014, n. 27534). Quest'ultima, dunque, si distingue dal dolo, che presuppone la coscienza dell'infondatezza della domanda, perché consiste nella colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza» (Cass., 30 dicembre 2014, n. 27534, in una fattispecie riguardante un giudizio di opposizione agli atti esecutivi, nel quale il Giudice di prime cure aveva individuato l'elemento della colpa «nella colpevole insistenza in ragioni di censura dell'azione esecutiva del creditore, la cui inconsistenza giuridica ben avrebbe potuto essere apprezzata da parte degli opponenti con l'uso dell'ordinaria diligenza, in modo da evitare un'opposizione a precetto del tutto pretestuosa»). Analogamente è stata ravvisata la mala fede processuale nel «coltivare una difesa contraria ad un costante consolidato e mai smentito indirizzo della giurisprudenza» (Cass., 27 novembre 2007, n. 24645; nella giurisprudenza di merito Trib. Milano, 11 febbraio 2014, n. 2043; Trib. Verona, 22 novembre 2012). Viceversa, infatti, allorché una controversia proponga questioni sorte da recenti novelle legislative, sulle quali non si è formato alcun solido orientamento giurisprudenziale, e che anzi inducono gli operatori ad uno sforzo ricostruttivo del sistema, non ricorrono i presupposti per una condanna per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c. (App. Trieste, 15 luglio 2011). Ancora, dolo o colpa grave sono rinvenuti nella consapevolezza — oppure nell'ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza — dell'infondatezza delle proprie tesi, ovvero del carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio(Cass., 23 maggio 1990, n. 4651; Trib. Roma, 29 marzo 2010, n. 7079). Altra parte della giurisprudenza si discosta motivatamente dall'applicazione del comma 1, ritenendo che la previsione del terzo comma abbia ampliato i confini della responsabilità per «processo ingiusto» e consenta, pertanto, di sanzionare anche condotte che non siano qualificabili in termini di dolo o colpa grave, purché connotate da colpa (Trib. Torino, ord., 16 ottobre 2010, secondo cui: «... appare eccessivo affermare che la parte ricorrente abbia agito in giudizio con malafede o colpa grave, ossia con la consapevolezza dell'infondatezza delle proprie pretese (o almeno ignorando colpevolmente i diritti della controparte); ricorrono tuttavia i presupposti per la condanna di cui all'art. 96 comma 3, implicitamente considerata da parte resistente e comunque disponibile anche d'ufficio. Tale disposizione si riferisce a situazioni di «abuso del processo» meno gravi di quelle considerate dal primo e dal secondo comma dell'art.96 e pur sempre presuppone condotte colpevoli della parte processuale (senza di che, come prevalentemente opinato, la norma si consegnerebbe alla sanzione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.)». Ritiene sufficiente anche soltanto l'«imprudenza» nell'agire in giudizio, Trib. Roma, sez. Ostia, 9 dicembre 2010. Trib. Varese 22 gennaio 2011, sottolinea la rilevanza, oltre alla manifesta infondatezza dell'opposizione a decreto ingiuntivo, del fatto che sia: «... per di più, sorretta da un elemento soggettivo di rimproverabilità (colpa). In particolare si è rilevato che il presupposto per la condanna per responsabilità aggravata per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c., rappresentato dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sussiste qualora una parte prima del giudizio non abbia liquidato un danno che sapeva di aver cagionato, nell'essersi difesa sulla base di circostanze poi rilevatesi equivoche e trascurabili, nell'aver confidato che la controparte straniera avrebbe avuto difficile accesso alla giustizia e, quindi, nell'aver sostanzialmente messo in atto una condotta mirata a condurre la controparte ad accettare una svantaggiosa transazione per evitare di sottostare ai lunghi tempi della giustizia (Trib. Tivoli, 10 dicembre 2015, n. 2428; Trib. Milano, 6 ottobre 2015). Frequente è il richiamo all'abuso processo fatto sia genericamente (Trib. Prato, 6 novembre 2009), sia variamente declinando il concetto come uso improprio dello strumento processuale (Trib. Salerno, ord., 9 gennaio 2010), ovvero sinonimo di lite temeraria (Trib. Pescara 30 settembre 2010: «... responsabile di un abuso del processo per difesa temeraria (per il principio per cui la mala fede o colpa grave di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c. si concreta nella conoscenza della infondatezza domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta conoscenza...), od, ancora, di comportamento contrario al principio della lealtà processuale (Trib. Catanzaro, ord., 18 febbraio 2011 ritiene «che, pertanto, la norma trascritta fornisca al giudice uno strumento sanzionatorio delle condotte tenute dalla parte soccombente, che, pur non configurate dall'elemento psicologico del dolo e della colpa grave, siano comunque rimproverabili alla luce del principio di lealtà processuale»). Osservazioni
Nonostante il testo dell'art. 96, comma 3, c.p.c. autorizzi le letture fatte proprie da alcune delle pronunce di merito, che fanno leva sulla sufficienza dell'elemento soggettivo della colpa lieve o di comportamenti definiti in termini di «abuso del processo», che tuttavia non si siano tradotti in concreto in vere e proprie liti temerarie, si ritiene più coerente l'interpretazione della norma che queste presupponga, sempreché se ne riconosca la ridetta funzione sanzionatoria; ciò, quanto meno per due ordini di ragioni: - di ordine letterale, atteso che è rimasto l'inserimento della norma nell'art. 96 c.p.c. senza che il comma 3 abbia aggiunto alla qualificazione della condotta in termini di dolo o colpa grave del comma 1 una ulteriore e/o diversa qualificazione; pertanto, a voler ritenere il nuovo testo sganciato dal precedente, esso risulterebbe totalmente mancante del riferimento all'elemento soggettivo, sì che si dovrebbe ritenere che unico presupposto legittimante la condanna sarebbe la soccombenza; soltanto il collegamento con le ipotesi di cui ai commi precedenti restituisce alla norma compatibilità con i principi costituzionali e risulta coerente con la sua collocazione nello stesso articolo del codice. Pertanto, con riferimento all'ipotesi sanzionatoria del comma 3, si osserva che l'applicazione della sanzione processuale, indipendente da ogni istanza e allegazione di parte, è rimessa alla «piena discrezionalità del giudice e non corrisponde ad un diritto della parte azionabile in giudizio in quanto l'applicazione della sanzione è collegata ad una iniziativa officiosa del giudice indipendente dalla richiesta della parte» (Cass., 11 febbraio 2014, n. 3003). Dunque, riepilogando: a) al potere sanzionatorio di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c., non corrisponde necessariamente un diritto di azione della parte; b) la sanzione applicabile di ufficio presuppone una condanna alle spese. In conclusione, il carattere temerario della lite, che costituisce l'indefettibile condizione perché possa configurarsi la responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c., va ravvisato nelle ipotesi in cui una parte abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, dovendosi riconoscere siffatti stati psicologici quando la parte abbia agito o resistito nella coscienza dell'infondatezza della domanda o delle tesi difensive sostenute, ovvero nel difetto dell'ordinaria diligenza nell'acquisizione di detta consapevolezza (Cons. Stato, 25 febbraio 2003, n. 1026).
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