Responsabilità medica da nascita indesiderata: soggetti legittimati alla richiesta risarcitoria e relativo onere della prova

Cristina Cataliotti
10 Agosto 2016

Non può essere accolta la richiesta risarcitoria formulata dai genitori di un bambino nato malato, dopo che esami diagnostici ne avevano garantito la piena salute fisica, se non venga fornita la prova che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia del feto.
Massima

Art. 2697 c.c. e l. n. 194/1978 (artt. 6 e 7): non può essere accolta la richiesta risarcitoria formulata dai genitori di un bambino nato malato, dopo che esami diagnostici ne avevano garantito la piena salute fisica, se non venga fornita la prova che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia del feto. Né, tanto meno, può essere accolta la richiesta risarcitoria formulata dal bambino disabile non essendo, da un lato, riconosciuto dall'ordinamento il diritto a non nascere se non sano e, dall'altro, non potendosi ritenere che la vita del bambino integri un danno conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

Il caso

V.C. e L.R.L., in proprio e quali genitori del minore V.G., avevano agito innanzi al Tribunale di Catania nei confronti dell'Azienda Ospedaliera U.P.V.E. di C., per ottenere il risarcimento dei danni derivati da errata diagnosi a seguito di amniocentesi.

Detto esame, effettuato sulla gestante L.R.L. presso l'Azienda convenuta, non aveva evidenziato anomalie nel feto, mentre l'attrice aveva poi partorito V.G. affetto da sindrome di Down.

A seguito del respingimento della domanda risarcitoria formulata in primo grado, per mancato assolvimento dell'onus probandi sugli stessi incombente,V.C. e L.R.L., in proprio e quali genitori del minore V.G., avevano impugnato la sentenza avanti la Corte d'Appello di Catania.

Dopo essersi richiamati alle argomentazioni già svolte nel giudizio conclusosi, avevano ribadito le precedenti richieste, con vittoria delle spese di lite di entrambi i gradi.

Si era costituita l'Azienda Ospedaliera U.P.V.E. di C. resistendo al gravame, chiedendone l'integrale rigetto, perché infondato e proponendo, altresì, appello incidentale per sentire accogliere le istanze di chiamata in causa delle compagnie assicuratrici, che erano state ritenute inammissibili dal giudice di primo grado.

Con distinte comparse, erano subentrate nel procedimento le varie assicurazioni, svolgendo difese sostanzialmente analoghe, quanto al contenuto, a quelle della società appellata e domandando, quindi, la conferma della pronuncia di prime cure.

Precisate le conclusioni, la causa era stata trattenuta a sentenza, con la concessione dei termini per conclusionali e repliche.

Con ordinanza successiva, era stata riaperta l'istruttoria per l'espletamento di una consulenza medica collegiale ed, eseguita questa, erano state di nuovo rassegnate le conclusioni, trattenuta la causa a sentenza, riconosciuto il diritto delle parti al deposito degli atti finali entro i termini di legge.

La questione

È possibile ottenere il risarcimento dei danni in caso di nascita di un bambino malato laddove la diagnosi conseguita ad amniocentesi effettuata dopo il novantesimo giorno ne aveva garantito il perfetto stato di salute? Quali condizioni devono sussistere per ritenere che l'errore diagnostico del medico abbia determinato un danno risarcibile? Quali sono i soggetti legittimati a domandare il risarcimento? Come deve essere ripartito l'onere della prova ex art. 2697 c.c. tra le parti? Quando può ritenersi raggiunta la prova a carico dei genitori che, laddove avessero conosciuto la verità, avrebbero optato per la soluzione abortiva? Può il minore chiedere i danni per essere venuto al mondo malformato?

Le soluzioni giuridiche

La Corte d'Appello di Catania, pur confermando la pronuncia oggetto di gravame in merito al rigetto dell'avanzata richiesta risarcitoria ed all'inammissibilità della costituzione in giudizio dei terzi per maturata decadenza, ha argomentato in modo differente, richiamandosi alla pronuncia della Cass. Sez. Un. n. 25767/2015.

L'unica modifica relativa al dispositivo ha riguardato le spese di giudizio che sono state compensate in ragione della complessità della lite e della circostanza che le Sezioni Unite abbiano statuito su punti oggetto di precedenti contrasti giurisprudenziali quando la causa era in corso.

In sostanza, il Giudice del gravame ha individuato con estrema chiarezza gli elementi necessari per ritenere configurabile il danno da nascita indesiderata, ossia:

  1. la previsione ex lege, all'epoca dei fatti,dell'interruzione della gravidanza, quale pratica legalmente riconosciuta, in presenza di determinati presupposti;
  2. la prova della volontà della donna di non portare a termine la gravidanza allorché sussistano dette specifiche ipotesi facoltizzanti.

In modo particolare, l'interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno, come nel caso esaminato, è consentita in presenza di alcune condizioni espressamente tipizzate dall'art. 6, l. n. 194/1978, in combinata lettura con quanto previsto dall'art. 7 della medesima legge, ossia, un processo patologico della gestante che ne ponga in grave pericolo: a) la vita e ciò anche in caso di possibilità di vita autonoma del feto o b) la salute e ciò solo in caso di impossibilità di vita autonoma del feto (ipotesi per cui è causa).

Secondo la Corte d'Appello di Catania, pur non avendo trovato smentita l'allegazione degli appellanti in merito alla circostanza che gli stessi non avrebbero dato corso al parto qualora l'accertamento diagnostico fosse stato correttamente eseguito e, anzi, pur potendosi individuare diversi elementi a sostegno della credibilità dell'assunto, la domanda va respinta per altro motivo.

E' proprio la l. n. 194/1978, come sopra enunciata, nei suoi aspetti essenziali, che rilevano nel caso de quo, ad avere efficacia dirimente circa la configurabilità di una lesione al diritto di L.R.L. di autodeterminarsi nella prosecuzione o meno della gravidanza.

Se pure è risultato certo l'errore diagnostico, verosimile che, ove non commesso, V.C. e L.R.L. avrebbero optato per non portare a termine il parto, provato il potenziale grave pericolo per la salute psichica (e non per la vita) della madre determinato dalle malformazioni del nascituro, l'interruzione della gravidanza non si sarebbe comunque potuta praticare non essendovi tutte le condizioni che la legge contempla come indispensabili. Più precisamente, non esistendo l'elemento negativo, di cui all'art. 7 sopra menzionato, dell'impossibilità di vita autonoma del feto.

Quanto all'onere della prova per avere diritto al risarcimento del danno, la sentenza della Cass. civ., Sez. Un., n. 25767/2015, richiamata dalla pronuncia di merito che qui si commenta, ha consentito di superare un contrapposto orientamento giurisprudenziale sul tema.

Esistevano, infatti, due orientamenti che, pur muovendo dalla medesima premessa ossia che gravi sulla gestante la prova: a) della sussistenza dei presupposti per potere interrompere la gravidanza e b) della volontà di abortire, ove correttamente informata della malformazione del feto, divergevano, relativamente al punto b), quanto alla rigidità della prova.

Il primo, riteneva potersi configurare una presunzione generalizzata, sufficiente a fornire la prova de qua ricavabile, in via implicita, dall'allegazione da parte della donna di essersi sottoposta ad analisi in fase prenatale (Cass. n. 6735/2002; Cass.n. 144889/20014; Cass. n. 13/2010; Cass. n. 22837/2010; Cass. n. 15386/2011) il secondo, considerava indispensabile un indice certo della volontà abortiva della donna in caso di malformazioni del feto, quale ad esempio una dichiarazione avente tale contenuto (Cass. civ., n. 16754/2012; Cass. civ., n. 7269/2013; Cass. n. 27528/2013 e Cass. n. 12264/2014) da collocarsi sotto il profilo temporale in una fase precedente alla diagnosi.

La Cass. Sez. Un., assumendo una posizione intermedia tra le due, ha affermato che la relativa prova possa ritersi raggiunta tramite “praesumptio hominis”.

D'altra parte la Corte d'Appello di Catania ha ritenuto non accoglibile la richiesta di risarcimento per negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, di un'esistenza sana e dignitosa.

Ciò muovendo dal presupposto che non si possa stabilire un nesso causale tra la condotta colposa del medico e le sofferenze psicofisiche del bambino dal momento della sua esistenza e che non si possa riconoscere il diritto di non nascere malati.

Chiarito che l'assenza di soggettività in capo al concepito non è ostativa alla tutela risarcitoria del soggetto malformato (C. cost., n. 27/1975; Cass. civ., 3 maggio 2011, n. 9700/2011; Cass., n. 5881/2001), le Sez. Un. prima e la Corte d'Appello di Catania poi, nel dare risposta al quesito, hanno considerato centrale il concetto di danno, che deve sempre tradursi in una perdita di utilità, anche allorché si tratti di danno alla persona.

Partendo da tale dogma, sono arrivate ad affermare che la malformazione genetica non integri gli estremi del danno, anche se in presenza di un errore diagnostico che abbia precluso alla gestante la possibilità di abortire, poiché non si rinviene un peggioramento della condizione del nato riconducibile alla condotta, pur imperita, del medico.

Osservazioni

Alla luce della pronuncia in esame, si ricava che, ove venga errata la diagnosi a seguito di amniocentesi, decorsi i novanta giorni, i genitori che abbiano fatto nascere il bambino nella convinzione che fosse sano, possono domandare il risarcimento dei danni solo allorché ricorrano congiuntamente i seguenti elementi:

  1. le condizioni legittimanti l'interruzione della gravidanza ex L. 194/78, artt. 6 e 7, in combinata lettura;
  2. la prova che la volontà degli stessi si sarebbe diversamente determinata se avessero conosciuto la verità;
  3. il danno subito a causa della preclusione dell'esercizio della facoltà abortiva.

In modo specifico, la scelta abortiva (il fatto cioè che l'accertamento dell'esistenza di anomalie o malformazioni avrebbe indotto la madre ad interrompere la gravidanza), vertendo su un fatto psichico, risulta circostanza difficile da provare sicché le Sez. Un. sono arrivate ad ammettere che la relativa prova possa ritersi raggiunta tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi forniti dagli attori, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'azione abortiva in caso di malformazione del feto, ecc.

E' consentita, inoltre, la prova contraria con efficacia liberatoria da parte del medico che dimostri che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.

Relativamente, poi, alla possibilità per il nato disabile di agire, in ipotesi di questo tipo, per il risarcimento dei danni, anche solo sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, la Cass. Sez. Un. prima e la Corte d'Appello di Catania poi, con interpretazione conforme, l'ha esclusa categoricamente sulla base di due rilievi:

  1. l'ordinamento non contempla il “diritto a non nascere se non sano
  2. la vita del bambino non può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

Il che equivale a dire, da un lato, che la vita di un bambino disabile non può mai considerarsi un danno sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano (tanto più che la valutazione spetterebbe inevitabilmente ai genitori che dovrebbero sostituirsi a lui nell'attribuire valore alla sua vita), dall'altro, che non si può imputare al medico che abbia pur commesso un errore diagnostico e non abbia individuato la malformazione del feto, un obbligo risarcitorio per un danno dallo stesso non causato (la condotta omissiva del medico può, tutt' al più, avere effetti giuridici nei confronti della madre, di cui la norma invocata mira a tutelare la vita e la salute oltre che la libertà di autodeterminazione, in presenza di specifici presupposti).

E' ovvio che gli argomenti trattati rendano il terreno fertile a disquisizioni di natura non solo giuridica, ma anche ideologica e religiosa.

Diviene ferma la convinzione che la malformazione congenita non rappresenti un danno – né nella forma di danno alla salute, invocato dalla dottrina, né nella forma di danno esistenziale - (suggerito da Cass., n. 16754/2012) ma una pura fatalità e che la vita valga sempre e comunque la pena di essere vissuta.

Diversamente opinando, si finirebbe per consacrare un diritto alla felicità.

Guida all'approfondimento

Circa il tema della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno, si segnalano gli orientamenti precedenti alla sentenza della Cass. Sez. Un.:

  • Cass. Civ. n. 14488/2004, n. 16123/2206, n. 10741/2009, secondo cui nel nostro ordinamento non esisterebbe un diritto a non nascere, o a non nascere se non sano.
  • Cassazione Civile n. 16754/2012, secondo cui esisterebbe un diritto del nascituro, una volta venuto ad esistenza ad essere risarcito con riguardo al danno consistente nell'essere nato non sano e rappresentato dall'interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità.
  • Cass. Civ. 9700/2011, n. 16754/2012, secondo cui, in particolare, il diritto al risarcimento potrebbe essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio, il quale si duole non della nascita dello stato di infermità che sarebbe mancato se non fosse nato, ma dei costi e dei problemi che la nascita malformata comporta.
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