La condotta imprudente del collega dell'infortunato non esclude la responsabilità del datore di lavoro

Giovanni Panizza
26 Maggio 2016

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte dei dipendenti.
Massima

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte dei dipendenti.

Di conseguenza, ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale per infortunio occorso al lavoratore sul luogo di lavoro, mentre incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Il caso

La sentenza in commento trae origine da una domanda risarcitoria proposta da un lavoratore rimasto vittima di un infortunio sul lavoro mentre stava procedendo alla manutenzione di un macchinario di aspirazione di fumi ubicato all'interno dell'impianto industriale ove prestava la propria attività lavorativa. L'infortunio era stato provocato dal distacco di una parte del macchinario sul quale il lavoratore stava operando che, precipitato di colpo, aveva finito per colpirlo provocandogli l'amputazione di un dito della mano sinistra nonché la lesione del tendine di un altro dito dello stesso arto.

Secondo quanto prospettato dal ricorrente, il distacco della parte del macchinario era avvenuto a causa della rimozione del sistema di ancoraggio del medesimo; circostanza questa da addebitare alle precarie condizioni del reparto in cui lavorava il ricorrente e, quindi, alla responsabilità della società datrice di lavoro.

Il Giudice di prime cure riteneva fondata la ricostruzione offerta dal lavoratore e per l'effetto accoglieva la domanda di risarcimento danni formulata da quest'ultimo.

La sentenza del Tribunale veniva tuttavia riformata in sede di gravame proposto dal datore di lavoro. In particolare, la Corte d'appello giungeva a tale esito accertando una diversa ricostruzione dei fatti di causa: per il giudice di secondo grado non era stato il mancato ancoraggio del macchinario a provocare l'evento, bensì la condotta, imprudente e pericolosa, posta in essere da due colleghi di lavoro del ricorrente. Peraltro, lo stesso giudice aveva cura di precisare che nessuna responsabilità per l'occorso infortunio potesse ascriversi in capo al datore di lavoro, trattandosi di operazioni per le quali non era possibile, per la società, svolgere una costante attività di vigilanza.

Avverso la decisione resa dalla Corte d'appello il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione prospettando, in primo luogo, violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., per avere il giudice di merito escluso la responsabilità per omessa vigilanza del datore di lavoro nonostante fosse stata accertata, quale causa dell'evento, la condotta imprudente e pericolosa di due colleghi di lavoro del ricorrente. Dall'altro lato, veniva dedotta la violazione dei principi sul riparto dell'onere della prova che presiedono la materia infortunistica posto che, secondo la difesa del lavoratore, la Corte d'appello aveva, erroneamente, addossato in capo questi l'onere della prova circa la vigilanza che l'azienda avrebbe dovuto effettuare per evitare l'evento.

La questione

La questione posta al vaglio della Suprema Corte concerne la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per infortunio occorso ad un proprio dipendente nell'ipotesi in cui l'evento sia stato provocato da una condotta posta in essere da altri lavoratori. In particolare: ove sia accertato che l'infortunio risulti causato dal comportamento colposo tenuto dai colleghi di lavoro, può il datore di lavoro essere ritenuto responsabile del danno subito dal proprio dipendente? E su quale parte grava l'onere della prova che il datore di lavoro ha ottemperato o meno al dovere di vigilanza circa l'effettivo impiego, da parte dei lavoratori, delle misure protettive idonee ad impedire eventi dannosi?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione, nell'accogliere il ricorso proposto dal lavoratore, ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio occorso al ricorrente nonostante, come accertato in sede di istruttoria, l'incidente fosse in concreto ascrivibile ad un comportamento imprudente di natura colposa posto in essere da due suoi colleghi.

La Suprema Corte ha rilevato infatti che il consolidato principio per cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il lavoratore risulta tutelato non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma pure da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, non possa che valere pure nel caso di condotta imprudente e pericolosa tenuta da parte di lavoratori che con l'infortunato interagiscono.

Al contrario, l'unica ipotesi di esonero dalla responsabilità del datore di lavoro, ricorda la Corte, è rinvenibile solo nel caso (cd. “rischio elettivo”) in cui la condotta del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (la sentenza in commento fa riferimento, sul punto, a Cass. civ., sez. lav., 14 marzo 2006, n. 5493). La Corte ha cura di precisare, coerentemente con le premesse tracciate, che anche il principio del rischio elettivo quale ipotesi di esonero della responsabilità datoriale non si applica con esclusivo riguardo al comportamento del danneggiato, ma opera altresì nel caso in cui la condotta abnorme e inopinata sia posta in essere da altri lavoratori interagenti.

L'accoglimento del ricorso – e, quindi, la sussistenza della responsabilità del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c. – dunque, si giustifica in forza dell'applicazione dei menzionati principi di diritto alle risultanze istruttorie emerse nel giudizio di merito: la Corte territoriale aveva ravvisato ragioni di esonero in virtù della semplice individuazione di elementi di colpa nella condotta dei colleghi del danneggiato – concorso di colpa che, come visto, non esclude la responsabilità del datore – senza attribuire, però, rilevanza causale esclusiva alla condotta degli stessi – ciò che, solo, avrebbe comportato l'esonero totale dalla responsabilità datoriale.

La pronuncia in commento, nell'accogliere il ricorso, individua anche un'ulteriore censura all'approdo della corte territoriale, rea di aver, in sostanza, addossato al ricorrente l'onere di dimostrare la colpa del datore di lavoro. La Cassazione coglie quindi l'occasione per precisare alcuni importanti principi in tema di ripartizione dell'onere della prova della responsabilità ex art. 2087 c.c.. In particolare, si ribadisce il consolidato orientamento secondo cui la responsabilità in esame ha natura contrattuale. Di conseguenza, incombe sul lavoratore l'onere di provare l'esistenza del danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale tra i due elementi; spetta, poi, al datore di lavoro l'onere di provare la mancanza di colpa, ovvero di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, adottando tutte le cautele necessarie per impedirlo (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3788).

Osservazioni

La natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. comporta che, ai fini del suo accertamento in giudizio, sul lavoratore ricada l'onere di provare la sussistenza di una condotta datoriale (commissiva od omissiva) causalmente connessa ad un evento di danno alla salute. Sul datore di lavoro grava l'onere di fornire l'eventuale prova liberatoria della mancanza di colpa: l'obbligo di sicurezza, infatti, benché richieda un grado di diligenza particolarmente qualificato (condensato nel principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile e ragionevolmente praticabile), non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr., relativamente alla natura della responsabilità ex art. 2087 c.c. e alla conseguente ripartizione degli oneri probatori, Cass. civ., sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17585; Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2013, n. 16452; Cass. civ., sez. lav., 7 agosto 2012, n. 14192; Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12863; Cass. civ., sez. lav., 1 giugno 2004, n. 10510; Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2000, n. 6018).

Proprio dalla natura contrattuale della responsabilità, e dalla conseguente applicabilità dell'art. 1218 c.c., si ricava che sul lavoratore non può gravare l'onere di provare il requisito della colpa.

La prova liberatoria concessa al datore, sul punto, si atteggia in modo diverso a seconda che sia violato il comando contenuto in una norma speciale (in tal caso al lavoratore sarà sufficiente provare condotta e nesso causale con l'evento lesivo, attesa l'immanenza della colpa datoriale alla mancata osservanza di un precetto specifico) ovvero che il prestatore invochi la responsabilità datoriale in forza dell'obbligo generico contenuto nell'art. 2087 c.c.: in tal caso la prova liberatoria concessa al datore consiste nella dimostrazione di avere adottato tutti quei comportamenti che, ancorché non specificamente dettati dalla legge, siano suggeriti dalle conoscenze tecniche e dagli standard di sicurezza normalmente osservati (sul punto, cfr. Cass. civ., sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445).

Semmai, proprio per scongiurare il configurarsi, in concreto, di una forma di responsabilità oggettiva, sul danneggiato può gravare esclusivamente un onere di allegazione delle ragioni della pericolosità dell'ambiente di lavoro o, più in generale, della situazione che genera il rischio, al fine di individuare il perimetro cui riferire l'eventuale prova datoriale relativa all'assenza di colpa (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 dicembre 2015, n. 25395, con nota di F. Agnino, Il datore di lavoro e la responsabilità: è necessario individuare la fonte del rischio, in Ri.Da.Re.). Quello della necessità di circoscrivere l'indagine sull'idoneità delle misure preventive impiegate ad escludere la colpa – e quindi la responsabilità – datoriale è principio, in sostanza, non difforme da quanto più volte ribadito dalla Suprema Corte (in tema, ad esempio, di lavori in ambienti a rischio di contaminazione di sostanze nocive), secondo cui proprio la valutazione di tale idoneità non può che essere condotta tenendo anche conto della maggiore o minore possibilità per il datore di lavoro di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. civ., sez. lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; nonché, in tema di cautele contro il rischio amianto, la più risalente Cass. civ., sez. lav., 14 gennaio 2005, n. 644).

L'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., dunque, impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure tecnicamente possibili al fine di prevenire pregiudizi alla salute del prestatore individuabili ex ante sulla base di criteri probabilistici (Cass. civ., sez. lav., 29 gennaio 2013, n. 2038). L'obbligazione così configurata è tanto ampia da comprendere anche il dovere di tutelare il lavoratore da eventuali ragioni di danno dipendenti anche dalla propria imprudenza o disattenzione (Cass. civ., sez. lav., 7 giugno 2012, n. 9199). Da ciò si evince perché la giurisprudenza è uniforme nell'escludere che l'eventuale concorso di colpa del lavoratore nella causazione del danno sia idoneo ad escludere la responsabilità datoriale (cfr. Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2011, n. 14507. La colpa del lavoratore può, semmai, incidere in sede di quantificazione del risarcimento del danno, con conseguente riduzione proporzionale in applicazione del principio contenuto nell'art. 1227 c.c. Sul punto, cfr. Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 2007, n. 11278).

Tale principio, al fine di non avallare una concezione “oggettivizzata” dell'obbligo di sicurezza, è mitigato dall'esclusione della responsabilità del datore di lavoro in caso di dolo del lavoratore o di “rischio elettivo”, ovvero nell'ipotesi di un comportamento del prestatore che presenti i caratteri dell'esorbitanza, abnormità, eccezionalità e imprevedibilità rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, tale da apparire, ex ante, inverosimile (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. IV, 2 febbraio 2016, n. 4347; Cass. pen., sez. IV, 2 luglio 2015, n. 28132; Cass.civ., sez. lav., 4 febbraio 2014, n. 2455; Cass. civ., sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8861).

La giurisprudenza esclude la responsabilità datoriale in presenza del rischio elettivo, argomentando nel senso che in tal caso vi sarebbe interruzione del nesso causale tra la condotta datoriale e l'evento dannoso. Ciò non esclude che, come affermato anche dalla sentenza in commento, sia necessario valutare se in concreto residui una culpa in eligendo o in vigilando in capo al datore di lavoro, essendo suo compito non solo apprestare tutti gli accorgimenti che la migliore tecnica consente per garantire la sicurezza degli impianti o macchinari utilizzati ma anche di adoperarsi perché la concreta esecuzione del lavoro avvenga nel rispetto di quelle modalità (cfr. Cass. pen., sez. IV, 3 giugno 2004, n. 40164).

Proprio la pronuncia in esame se, da un lato, ravvisa una carenza di sorveglianza e controllo da parte del datore e quindi la sussistenza di responsabilità ex art. 2087 c.c., dall'altro, pone comunque l'accento su un profilo significativo, ovvero quello della rilevanza, ai fini dell'eventuale esclusione della responsabilità datoriale, anche del rischio elettivo attribuibile non al danneggiato, ma ad altri colleghi interagenti con lo stesso. Già in precedenza, infatti, la Suprema Corte aveva avuto modo di osservare come l'abnormità alla quale si riferiscono le plurime sentenze in tema, appunto, di rischio elettivo «sia estensibile per identità di ratio (trattandosi pur sempre del medesimo ambito lavorativo facente capo ad un unico datore di lavoro) anche nel caso che la persona del lavoratore infortunato e del lavoratore imprudente non coincidano» (così Cass. pen., sez. IV, 9 dicembre 2014, n. 7360). Del resto, e coerentemente, la condotta di altro lavoratore interagente con il danneggiato rileva anche quando, pur non integrando gli estremi dell'abnormità ed eccezionalità, può comunque essere idonea a configurare un concorso di colpa (cfr. Cass. pen., sez. IV, 23 ottobre 2008, n. 45020), che, come visto, non esclude, ma semmai può attenuare nel quantum, la responsabilità risarcitoria dal datore di lavoro.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.